LE SFIDE NEI PROSSIMI VENT’ANNI

LA LINEA DELLA PROFEZIA

 

Una riflessione che aiuta ad aprire gli occhi sugli scenari che già si profilano all’orizzonte, per essere preparati ad accoglierne le sfide, evitando il rischio di girare a vuoto attorno a problemi che non contano.

 

In questi tempi difficili e pieni di problemi ricorrono con sempre maggior frequenza interrogativi sul futuro che ci sta innanzi circa il ruolo della religione nelle nostre società, le sfide a cui dovrà far fronte laChiesa nei prossimi dieci/vent’anni, gli sviluppi dell’ecumenismo e le sue prospettive. Nessuno certamente può pretendere di fare il profeta. Ci sono tuttavia dei segni riconoscibili a uno sguardo acuto che lasciano intravedere quale sarà la realtà che ci sta davanti.

Una perspicace lettura di questa realtà ci pare quella che ha proposto, il 6 novembre scorso, il cardinale inglese Cormac Murphy-O’Connor, di Westminster, in una interessante relazione tenuta al forum dei capi cristiani riuniti a Stick Rochford Hall, presso Grantham (Lincolnshire) sul tema Sharing the vision, ossia sulla comune visione delle chiese cristiane nel mondo d’oggi.

 

IL RUOLO

DELLA RELIGIONE

 

La prima sfida riguarda il ruolo della religione nel prossimo futuro. Il cardinale ha subito polemizzato con uno slogan comunemente diffuso secondo cui la religione sarebbe ormai diventata un affare privato, da tenere fuori dall’ambito pubblico. Si tratta, ha sottolineato, di una visione che ha le sue lontane origini nell’illuminismo, ma ormai datata e superata. Lo si voglia o no, la fine della religione non è affatto vicina: lo provano, per esempio, l’irruzione dell’islam sulla scena mondiale e la diffusione popolare della pratica religiosa nell’ex Unione sovietica; in Africa, Asia e America latina le chiese sono in piena espansione e anche nella nostra vecchia e stanca Europa la religione sta esercitando un nuovo fascino sui giovani.

Lo dimostra anche l’incapacità delle scienze e della tecnologia a rispondere ai nuovi interrogativi etici che lo stesso loro progresso ha posto. La ragione è che le scoperte scientifiche non sono in grado di rivelare il pieno mistero della persona umana. La verità di un celebre pensiero di Pascal che dice “il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende” è sempre più, non meno, evidente. Come dice anche sant’Agostino: «Dio ci ha creati per sé e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in lui». In effetti la nostra inquietudine non è placata dalle invenzioni della tecnologia, anzi è diventata anche maggiore. L’idea dell’illuminismo che Dio era necessario solo per colmare i vuoti lasciati dalla conoscenza scientifica e che si sarebbero progressivamente colmati è una previsione non solo povera, ma anche falsa. È vero proprio il contrario. Il vuoto lasciato dalla scienza si è ulteriormente ampliato e assieme a esso sono cresciuti anche gli interrogativi.

Per esempio, si è chiesto il cardinale, è un bene o un male che un paese, a scopo di difesa, accumuli o sviluppi un arsenale nucleare che se impiegato potrebbe distruggere potenzialmente la civiltà? Fino a che punto è giusto tendere a una crescita economica e a uno sviluppo industriale a spese del benessere futuro del pianeta? Come dobbiamo giudicare i diritti della madre e quelli del bambino non nato? Come giustificare i miliardi spesi nella corsa alla luna, per gli armamenti militari o quelli spesi senza alcun rimorso per migliorare il proprio livello di vita mentre un numero enorme di esseri umani vivono nella più abietta povertà? Chi deve controllare o decidere in relazione a una risposta morale ai problemi riguardanti la creazione della vita sollevati dalla ricerca biologica e medica?

Siamo di fronte a una questione cruciale. Gli uomini di scienza a volte sono tentati di ignorare la loro responsabilità circa le conseguenze morali della loro ricerca. Pensano che il loro compito sia di esplorare. Tocca ad altri dire quale uso legittimo si può fare delle loro ricerche. Qui siamo di fronte a interrogativi in definitiva religiosi, ha sottolineato il cardinale. Con questo non si vuol dire che la religione abbia tutte le risposte; la religione però solleva il problema e domanda cosa vuol dire essere persona umana, quali diritti sono inerenti alla nostra umanità o se un essere umano ha dei diritti inalienabili.

Ecco allora il primo punto da tenere presente: la religione costituisce un fatto centrale in ogni singolo essere umano; oggi più che mai, essa fa parte della vita, della società, dell’innata ricerca di Dio da parte dell’uomo. Noi verremmo meno al nostro servizio alla società se prendessimo per buono ciò che appare un rifiuto della religione, se ignorassimo l’inquietudine e la ricerca che sta, spesso in maniera inespressa, nel cuore dei nostri contemporanei.

 

LE SFIDE

DELLA CHIESA

 

Anche la chiesa cattolica, nel suo insieme, secondo il cardinale Murphy O’Connor, nei prossimi vent’anni dovrà far fronte a una serie di sfide che sostanzialmente sono le stesse anche delle altre chiese.

Molta gente erroneamente pensa che il prossimo pontificato dovrà occuparsi dei problemi riguardanti il genere – inerenti quindi alla sessualità – oppure di quelli che si riferiscono all’autorità e al suo servizio. Si tratta certamente di problemi importanti, ha detto il cardinale, ma «non credo che siano i principali».

A suo parere le sfide cruciali si trovano altrove e sono soprattutto quattro. La prima riguarda la scristianizzazione dell’Europa. Con il progredire della secolarizzazione, in questi ultimi cinquant’anni i cristiani, anziché essere un baluardo della tradizione, sono diventati sempre più una minoranza profetica. Ecco allora la domanda: quale volto avrà la Chiesa negli anni a venire?

Stando al Vangelo, la Chiesa è «una città sul monte» o «lievito nella pasta»? Ma l’equilibrio oggi sta cambiando; essa sta divenendo più “lievito nella pasta” che “città sul monte”. In altre parole, la Chiesa è una specie di movimento di resistenza, che nuota contro corrente, e testimonia il Vangelo non solo in maniera aperta ma anche nascosta con la testimonianza di vita.

La prima sfida a cui far fronte in Europa oggi è pertanto quella di cristianizzarla. Ma occorre stare attenti poiché in tempi di crisi c’è sempre la tendenza ad andare agli estremi. Il cristiano può diventare fondamentalista, alzando attorno a sé dei muri allo scopo di proteggere la fede e la rivelazione; ma in questo modo le sue parole non sono più sentite al di là dei muri. La Chiesa si trasforma allora in una specie di setta. L’altro estremo è di diventare liberali e sposare il modo di pensare e di agire del mondo, lasciandosi portare dalla corrente. Ma sappiamo che chi sposa lo spirito di un’epoca diventa vedovo in quella successiva. La vera sfida piuttosto è di riuscire a salvaguardare gli elementi fondamentali della fede cristiana rimanendo nello stesso tempo aperti al mondo, poiché Cristo è venuto a salvare il mondo.

La seconda sfida riguarda il rapporto con l’islam. Come si presenta il dialogo con questa religione nell’attuale momento? Mi sembra, ha affermato il cardinale, che ci siano due tipi di islam: con uno è praticamente impossibile dialogare poiché la sua fede e la sua cultura sono tali che quanto ci divide è troppo grande per essere superato, almeno fino a oggi. Ma c’è un altro islam con cui i cristiani hanno un rapporto più profondo ed è quello descritto dal Vaticano II con cui il dialogo è possibile.

 

FARSI VOCE

DEI POVERI

 

C’è poi una terza sfida che è quella dei ricchi e dei poveri. Il vangelo di Gesù è la buona notizia per i poveri, e spesso non è buona notizia per coloro che sono attaccati alla loro ricchezza. Come possiamo allora testimoniare Gesù Cristo senza porre l’opzione per i poveri al vertice del nostro impegno?

«Ricordo, ha detto il cardinale, un episodio avvenuto una quindicina di giorni dopo l’11 settembre, durante un incontro a Roma con un gran numero di vescovi di ogni parte del mondo. Tutti esprimevano la loro viva partecipazione ai vescovi americani per quanto era successo a New York e a Washington. Ma un vescovo africano si alzò e, pur manifestando simpatia con i vescovi americani, disse: “Come sapete, ci sono altre atrocità nel mondo; nella mia diocesi ogni settimana tre mila persone muoiono a causa della fame, delle malattie e della malnutrizione”.

I cristiani devono perciò essere al primo posto nel farsi voce del grido dei poveri e penso che dovremmo batterci il petto per il fatto che questo non avviene più.

L’ultima sfida riguarda il modo di governare, ciò che noi nella chiesa cattolica chiamiamo la “collegialità”. Il significato di questa parola è stato ben definito nel documento del concilio sulla Chiesa: i vescovi governano la Chiesa con e sotto il papa e il papa governa in comunione con i vescovi. Mai Pietro senza gli undici e mai gli undici senza Pietro. Mi sembra che questo rapporto abbia bisogno di una nuova enfasi se si vuole che il governo della Chiesa sia più credibile nel mondo d’oggi. Deve essere reso più concreto di come è in questo momento. C’è un assioma latino che dice: ubi episcopus, ibi ecclesia, dove c’è il vescovo lì c’è la Chiesa. Ciò significa che ogni vescovo deve ascoltare la fede del popolo di Dio nella sua diocesi per essere informato su ciò che lo Spirito di Dio dice in ciascun cristiano e poi, per mandato di Cristo, governare. È quanto aveva scritto John Henry Newman nel saggio “Consultare i laici in materia di dottrina”.

Per quanto riguarda le altre chiese, il cardinale ha affermato che noi viviamo oggi in un villaggio globale ed essendo il cristianesimo una religione mondiale bisognerebbe che la collaborazione assumesse un carattere universale. «Per esempio, ha detto, mi piacerebbe vedere il prossimo pontefice, chiunque sia, riunire insieme i capi delle principali denominazioni cristiane e sulla base della nostra comunione – la nostra fede in Cristo, il battesimo, lo Spirito Santo e la parola di Dio – condividere più profondamente e più comunitariamente il desiderio che abbiamo di annunciare e diffondere la parola di Dio».

C’è poi la grande sfida dell’ecumenismo. A partire dal concilio sono stati fatti grandi passi avanti, ma molti ne rimangono ancora da compiere. L’entusiasmo dei primi anni postcon­ciliari ormai è finito. Viviamo in un momento di transizione. Secondo il cardinale, all’ecumenismo della cari­tà e della fede bisogna aggiungere quello della vita. In effetti le chiese non solo divergono in base alla dottrina, ma anche perché si sono allontanate le une le altre nella realtà vissuta. Esse «devono avvicinarsi, abituarsi a pregare insieme, lavorare insieme, vivere insieme sentendo la sofferenza della incompletezza della communio e dell’impossibilità della comunione eucaristica attorno alla stessa mensa».

Bisogna, inoltre, rafforzare e sviluppare i principi basilari su cui si fonda l’ecumenismo come il battesimo, la fede battesimale e il Credo. Non possiamo infatti trascurare quello che è già stato raggiunto.

In secondo luogo non bisogna dimenticare che l’amicizia è un’importante categoria del Nuovo Testamento. I primi cristiani la usavano per descrivere se stessi. In futuro, infatti, l’ecumenismo non progredirà tanto sulla base di documenti e azioni, ma facendo leva sull’amicizia che supera le barriere confessionali.

Terzo, occorre tenere presente che al cuore del movimento ecumenico c’è l’ecumenismo spirituale, intendendo con questa espressione non una spiritualità puramente sentimentale, irrazionale e soggettiva che non tiene conto della dottrina della Chiesa, ma l’insegnamento della Scrittura, della tradizione viva della Chiesa e dei risultati dei dialoghi ecumenici già assimilati, riempiti di vita e tradotti in vita. Un semplice attivismo ecumenico è destinato a esaurirsi. Altrettanto si può dire del semplice dibattito accademico tra esperti, per quanto importante possa essere; esso sfugge ai semplici fedeli e tocca solo marginalmente il loro cuore e le loro menti.

La spiritualità ecumenica trova la sua forza nella preghiera. Ma un ruolo decisivo giocano la conversione e la santificazione personale poiché non può esserci vero ecumenismo senza una conversione personale e senza una riforma istituzionale. «Mi piacerebbe vedere, ha sottolineato il cardinale, gruppi biblici che s’incontrano tra loro, scambi tra monasteri, comunità e movimenti di spiritualità».

Queste, ha concluso il cardinale Murphy O’Connor, sono le principali sfide che la Chiesa e i cristiani dovranno affrontare nei prossimi dieci/vent’anni.