LO TSUNAMI E GLI ISTITUTI RELIGIOSI

L’ONDA LUNGA DELLA SOLIDARIETÀ

 

Impegno concreto sul posto, lettere dei superiori generali, appelli internazionali, notizie circostanziate e precise, anche denunce: ecco la portata dell’impegno delle congregazioni e degli ordini religiosi per fronteggiare e alleviare le conseguenze del maremoto che ha colpito diversi paesi dell’Asia.

 

Fin dai primi momenti, la vita consacrata si è trovata in prima fila, nello Sri Lanka, in India, in Indonesia – i paesi senz’altro più colpiti – per attivare una catena di solidarietà. Impossibile certamente elencare tutte le congregazioni religiose che si sono messe all’opera, ma c’è da dire che il loro impegno è stato registrato nella maniera più capillare possibile dai diversi siti, giornali, notiziari, dedicati all’emergenza.

Già all’indomani della catastrofe, quando i dati hanno cominciato a emergere in tutta la loro dimensione catastrofica, i superiori generali si sono attivati insieme ai loro consigli, sia per raccogliere il maggior numero di informazioni possibili, sia inviando lettere per richiedere aiuti e solidarietà concreta. È il caso degli oblati di Maria Immacolata con padre Wilhelm Steckling, dei salesiani, della congregazione del Verbo Divino, i frati minori e molti, molti altri. Da questi documenti viene immediatamente in primo piano l’idea che nonostante l’emergenza sia fortissima, occorre però già porsi il problema del “dopo” ed affrontare il tema della ricostruzione. «Mi sono attivato – scrive don Pascual Chavez, rettor maggiore dei salesiani – per inviarvi al più presto dei fondi perché possiate provvedere alle più urgenti necessità di coloro che sono privi di cibo, medicine, vestiti e alloggio. Spero che la solidarietà internazionale arrivi presto ed efficacemente in modo da poter aiutare la vostra ripresa dopo questa terribile onda di distruzione e di morte».

Diversificate anche le iniziative proposte. Ad esempio, nella lettera inviata ai confratelli e a quelli delle zone colpite, il superiore generale della società del Verbo Divino, padre Antonio Pernia, ha chiesto che si interrompa l’anno scolastico dei seminaristi in Indonesia per mandarli ad aiutare la popolazione colpita dal maremoto a Sumatra e soprattutto ad Aceh. Il padre osservava inoltre che sarà un ottimo esempio di solidarietà vedere i missionari dell’isola di Flores, abitata da molti cattolici, aiutare i musulmani di Aceh. «Sarà una rara occasione – aggiunge – per dare modo alla gente di Flores, non colpita dal maremoto del 26 dicembre 2004, di ringraziare per la solidarietà espressa dalla comunità internazionale nel 1992, quando l’isola fu travolta da una simile catastrofe», ovvero uno tsunami che il 12 dicembre di quell’anno provocò 1690 morti e la distruzione di 18.000 case. Ricordando che tutti i verbiti presenti nella zona del disastro sono salvi e stanno bene, padre Pernia ha sollecitato i confratelli sparsi per il mondo alla solidarietà.

Nei primi giorni di gennaio, anche fratel Sean Sammon, superiore generale dei Fratelli Maristi delle Scuole, ha inviato una lettera per riassumere le prime informazioni dirette avute dalle comunità nelle zone colpite. I danni più gravi per la comunità marista si registrano nella località di Kalutara, a 20 km a sud di Colombo, in prossimità dell’oceano, dove la scuola “Holy Cross College” ha subito gravi danni. Nello Sri Lanka, alcuni novizi hanno trascorso diversi giorni dedicandosi alla distribuzione dei viveri ed è in corso anche una prima ricognizione delle necessità più urgenti per capire in che modo i religiosi possano fornire un aiuto concreto e a chi.

 

DUE FRONTI

ANCORA APERTI

 

L’emergenza dunque ha avuto – ed ha ancora – almeno due “fronti” aperti: il primo che riguarda un “rimboccarsi le maniche” per venire incontro alle necessità sul posto, e un secondo relativo alla solidarietà internazionale dei religiosi e delle religiose. Anche questo secondo aspetto è di tutto rilievo: basti pensare che solo la congregazione salesiana in pochi giorni ha raccolto al suo interno circa 750 mila euro da inviare nelle zone colpite. Da sottolineare che nelle aree di maggior devastazione ci sono 93 comunità di religiosi di don Bosco. Anche il PIME, dall’Italia, ha messo in campo un’opera di solidarietà, questa volta a livello intercongregazionale insieme ai missionari della Consolata che non hanno comunità nelle zone colpite.

La dimensione internazionale, globale, delle congregazioni religiose è stata ulteriormente messa in rilievo dalla catena di solidarietà arrivata da diversi paesi. La Spagna ad esempio si è mobilitata attraverso la Conferenza dei religiosi (CONFER), che ha calcolato in almeno 500 i missionari spagnoli al lavoro nelle zone colpite. La Conferenza dei religiosi latinoamericani (CLAR), attraverso la sua presidenza, è intervenuta con una riflessione che chiede un cambiamento, di mentalità e di atteggiamento. Un testo di solidarietà ma anche di denuncia, perché «pagano sempre i poveri e coloro che vengono resi poveri dallo stesso sistema neoliberale». La presidenza della CLAR rileva inoltre che nello scenario della catasfrofe in Asia, le «persone che avrebbero potuto fare del bene non lo hanno fatto» e le persone «non sono state avvertite» del cataclisma incombente. Pertanto occorre un cambiamento radicale di mentalità. «Siamo solidali con tutte le vittime di queste azioni inumane e con le famiglie, uniamo le nostre mani e le nostre forze, la nostra fede e le nostre speranze, ricordando che il male non è così grande come sembra. Perché abbiamo riposto in Cristo la speranza che non delude».

Impossibile comunque rendere conto in maniera completa delle attività e dell’enorme impegno di solidarietà. Si possono citare alcuni casi, a titolo di esempio. In India, suor Ursula Pinto, superiora regionale delle Missionarie dell’Immacolata a Hyderabad, ha riferito che «non appena appresa la notizia della tragedia, le nostre consorelle si sono recate a Kolacel e a Manakuri. Hanno visto tanta gente senza casa, rifugiata nelle chiese, negli ospedali e nelle scuole» e hanno avviato un’assistenza continua. Da Colombo, capitale dello Sri Lanka, padre Michele Catalano sj, riferisce che «nella regione c’è stata una risposta enorme: tanta gente ha dimostrato una grande generosità, tanti gruppi e tante associazioni si stanno adoperando per la raccolta di cibo e di acqua». «Per adesso – aggiunge – gli aiuti sono soprattutto quelli dei volontari. Questi vengono distribuiti sulle spiagge, dove i danni sono stati incredibili. Noi abbiamo alcuni ragazzi giovani che vengono dalle università dell’Inghilterra, dall’Irlanda, dal Canada e sono andati tutti al campo per aiutare i bambini: per lavarli, dare loro da mangiare, per intrattenerli, per portare conforto e dare coraggio alle mamme».

Padre Anthony Thota, indiano, 35 anni, del Pontificio istituto missione estere (Pime), si trova a Pattinapakam, nel distretto di Madras, nello stato indiano meridionale del Tamil Nadu. Giunto sul posto per aiutare i superstiti, sottolinea che in pratica tutti gli abitanti del villaggio hanno perso le abitazioni e ogni avere. «Qui non ci sono turisti, questo è un villaggio al 90% di pescatori, gente povera e dignitosa la cui sopravvivenza dipende dal pesce catturato ogni giorno e che oggi si ritrova con niente. Molti pescatori sono stati probabilmente travolti dalle onde mentre erano in mare, le loro capanne sono state facilmente spazzate via».

Da Jaffna, nel nord dello Sri Lanka, epicentro della guerriglia separatista Tamil, le religiose della Santa Famiglia di Bordeaux hanno iniziato un’opera di solidarietà, con la raccolta di vestiti e altri aiuti, e hanno verificato che non ci sono state vittime nelle opere da loro gestite, soprattutto per la scuola Santa Maria di Dehiwela. In India invece, le congregazioni dei carmelitani di Maria Immacolata e della Madre del Carmelo, hanno realizzato una raccolta di fondi, che ha raggiunto il mezzo milione di rupie. La somma nei giorni scorsi è stata consegnata al primo ministro dello stato del Kerala, perché la metta a disposizione per le necessità più urgenti.

Anche la Piccola Opera della Divina Provvidenza (Orionini), ha avviato una iniziativa di solidarietà. Il superiore generale, don Flavio Peloso, conferma che in questi giorni sono stati tanti i contatti avviati e le sollecitazioni ricevute. «Ho studiato con i consiglieri una prima linea di intervento», spiega. «Abbiamo deciso di concentrarci su un progetto di solidarietà per l’India, da realizzare tramite i nostri confratelli di Bangalore».

Si sono attivati anche i religiosi della società del Verbo Divino, in particolare in Tamil Nadu e in Andhra Pradesh. Nello stato meridionale del Tamil Nadu i soccorsi si articoleranno in due fasi: nella prima saranno forniti cibo, acqua, abiti lenzuola e medicine, mentre nella seconda saranno costituite apposite squadre impegnate nell’opera di soccorso e riabilitazione. Da Hyderabad, Chennai, Trichy e Vadipatty vari missionari sono stati inviati sui luoghi del disastro, dove stanno offrendo assistenza finanziaria e psicologica alle vittime. Solidarietà e azioni concrete anche dai frati minori, dai cappuccini, dai conventuali.

 

OLTRE

L’EMERGENZA

 

Trascorsa la prima settimana, dall’inizio di gennaio è cominciato a cambiare il tono delle testimonianze e delle richieste, per parlare in maniera concreta della necessità di pensare oltre l’emergenza. «Noi pensiamo al dopo-emergenza, quando telecamere e microfoni saranno spenti. Ci saranno da ricostruire case e scuole, ponti e infrastrutture», rileva padre Vincenzo Baravalle, superiore regionale dei missionari saveriani in Indonesia, in una lettera inviata in Italia a diverse congregazioni e organi di stampa. Ma c’è qualcosa di più sostanziale anche rispetto all’aiuto materiale. Infatti – rileva il il padre – è «necessario pregare molto anche per noi missionari perché al di là dell’aiuto materiale che possiamo dare, sia soprattutto la nostra testimonianza di fede che risponde alla domanda tante volte espressa: se Dio è Padre, perché ha permesso tutto questo? Ho ripreso in mano il libro di Giobbe e lo medito chiedendo luce, quella luce che arriva in trasparenza dalla mangiatoia di Betlemme e dalla collinetta del Golgota».

Ancora in Italia, padre Alex Zanotelli, comboniano, ha messo sul tappeto la questione della cancellazione del debito estero dei paesi colpiti, poi affrontato dal vertice straordinario svoltosi a Jakarta che ha coinvolto i paesi donatori e le organizzazioni internazionali, primo passo sulla strada appunto della cancellazione o quanto meno di una significativa riduzione del debito stesso.

Secondo le testimonianze raccolte in queste settimane, uno degli effetti della catastrofe che si è abbattuta sull’Asia riguarda un aumento o miglioramento della comprensione, della solidarietà, infine del dialogo interreligioso. A partire dalle chiese cattoliche, dai templi buddisti, dalle moschee, utilizzate come rifugio e ricovero, fino alla distribuzione degli aiuti a tutti i bisognosi, indipendentemente dal loro credo religioso. Aspetti sottolineati dal nunzio apostolico in Indonesia, da quello dello Sri Lanka, ed anche in India, dove comunque è stato evidenziato che gli aiuti vengono prima di tutto destinati alle organizzazioni locali di assistenza, non direttamente ai profughi, per evitare appunto le accuse di “proselitismo”.

L’ultimo aspetto è quello della ripresa della normalità. Un caso emblematico – anche qui tra i tanti possibili – riguarda la riapertura della “Dowroong School” (“Stella del Mattino”), di Pukhet, in Thailandia, fondata più di 50 anni fa dai religiosi stimmatini. Padre Peter Pakpoom, direttore della scuola, sottolinea che dei 1450 alunni e 65 insegnanti, manca all’appello solo una ragazza, che risulta ufficialmente dispersa. Di fronte alle ipotesi di adottare i più piccoli colpiti dallo tsunami, il missionario stimmatino si dice contrario. «La miglior soluzione – egli dice – è rimanere nelle proprie famiglie o presso i parenti più stretti. Se qualcuno vuole sostenere gli studenti che hanno subìto danni o perso i genitori, può scegliere di donare un aiuto economico. Ma non ritengo necessario allontanare i ragazzi dai propri nuclei di origine». Il superiore degli stimmatini in Thailandia, padre John Pipat, rileva che «come Chiesa cattolica stiamo cercando di stilare un elenco il più possibile completo dei minori, per evitare il rischio che qualche malintenzionato approfitti della confusione di questi giorni per far sparire dei bambini». Attualmente, gli stimmatini tailandesi sono più di una trentina e vivono in sei comunità; hanno aperto tre scuole, una a Trang, una a Phuket e una a Ranong e ciascuna è frequentata mediamente da 1200 alunni quasi tutti buddisti.

È stato calcolato che per ritornare alla piena normalità ci vorranno diversi anni, probabilmente una decina. Nel frattempo gli organismi internazionali e quelli del volontariato se ne andranno. Sul posto invece rimarranno i missionari, animati da quella carità che un giorno li ha spinti a lasciare tutto per donare la loro vita a quelle popolazioni facendosi solidali con esse, veri testimoni di Cristo e del Vangelo. Saranno loro ad accompagnare l’opera iniziata.

 

Fabrizio Mastrofini