E I LUPI

SI FANNO MANSUETI

 

«Dove sono? Che giorno è? Ma io devo andare a Verona, nel carcere di Montorio...». Si risvegliava dal coma, fra Beppe Prioli: un coma durato due giorni ma che comportò al noto “francescano degli ergastolani”, colpito da infortunio domestico nel pieno della sua attività il 10 ottobre 1997, un «anno sabbatico» doloroso per il fisico e deprimente per lo spirito, seguito da un altro anno di sofferta convalescenza.

Non gli era costato poco, nel giorno che precedette l’incidente – leggiamo nel libro di Emanuela Zuccalà che racconta il seguito di quello straordinario risveglio1 – l’aver rotto per la prima volta «il tabù del carcere militare di Peschiera del Garda, fino ad allora fortezza inaccessibile ai volontari».

Fra Beppe era rientrato in convento, quella sera, felice ma esausto dalla fatica di un incontro inedito con tutti i detenuti; un incontro durante il quale «la pressione di tutti quei dolori raccolti e liberati uno dopo l’altro era paragonabile soltanto a quella che l’ematoma di lì a poche ore avrebbe esercitato sulla sua scatola cranica».

Confiderà egli stesso, più tardi, come ne uscì: «sfinito di stanchezza; ma talmente contento che mi sono girato un attimo a guardare la fortezza e a bassa voce ho detto: “Signore, oggi troppa grazia per me; tu mi chiederai qualcosa in cambio”». Entrato nella sua stanza, inavvertitamente batté il capo contro il termosifone, e si temette per la sua vita.

Ma ora si risvegliava dal coma. L’avrebbero voluto subito totale, quel risveglio, tutti i “lupi” che in centinaia di istituti carcerari italiani conoscevano di persona quello «strano frate», come lo dirà uno di loro, strano per lo stile personalissimo in cui ad essi tendeva instancabile la mano come già Francesco al lupo di Gubbio e che ora aveva bisogno della scossa di vitalità che soltanto loro erano convinti di potergli dare; e che gli hanno dato, subissandolo da ogni parte di richiami, di espressioni d’affetto e gratitudine, di racconti ora molto sobri ora appassionati di quanto fosse loro necessaria la sua presenza; il cui vero significato – appreso da molti anche leggendo il libro di Fabio Finazzi, Fratello lupo (1996), sull’opera di fra Beppe tra i carcerati e verso le loro famiglie – sapevano bene apprezzare.

 

UNA FORTEZZA

SIMBOLO E REALTÀ

 

I lupi seppero dopo, dell’affaticamento di quel 9 ottobre. Ma non se ne stupirono tanto poiché conoscevano, forse tutti, la triste fama che avvolgeva la fortezza di Peschiera del Garda, in tempi passati destinata ai disertori dell’esercito e diventata, come fra Beppe la trovò, una struttura per la detenzione speciale di coloro che prima di rubare, rapinare o uccidere erano stati poliziotti, carabinieri, finanzieri, agenti di polizia penitenziaria; erano stati, insomma, «dall’altra parte della barricata», e perciò assolutamente invisi ai “lupi comuni”. Alcuni dei quali, appreso che fra Beppe avrebbe frequentato “quella gente lì” osarono persino rimproverargli di “farsela con gli infami”. Come spiegare loro che per lui anche quelli della fortezza non erano degli infami ma delle persone? Un assillo, anche questo.

«Per fortuna, posseggo una cosa che mi rende libero di andare ovunque, una specie di lasciapassare: il saio. È lo spirito di san Francesco che mi spinge a incontrare tutti, senza alcuna differenza. E questo, in seguito, sono riuscito a farlo capire a quei detenuti che mi criticavano».

Con la prima storia che dalla fortezza gli andò incontro intrisa di angoscia nella persona di un giovane agente di polizia penitenziaria che aveva ucciso la fidanzata si era incrociata la prima proposta, convinta e accorata, del magistrato di sorveglianza di Verona, allora responsabile di quella struttura, che un giorno gli chiese di vedere che cosa potesse fare, perché «qui stanno come uomini murati vivi».

E tali fra Beppe li trovò: «Sono entrato ed eccoli lì: una quarantina di detenuti che se ne stavano nell’ozio. Si dividevano a gruppetti, perfino in mensa e durante la messa: poliziotti di qua, carabinieri di là, finanzieri da un’altra parte. Non c’era niente da fare, niente da costruire, neanche l’ombra di un volontario perché il carcere militare non prevede l’ingresso del volontariato. Era una struttura chiusa a chiave». Ma dopo averli incontrati tutti, cercò di riunirli in unico gruppo, perché in fondo tutti gli avevano chiesto «una cosa sola: “Beppe, fa’ vivere questo carcere”».

E quel carcere conobbe la vita, in una eccezionale avventura di umanità gradatamente ricostruita, proprio in concomitanza con la lenta ripresa delle forze fisiche di fra Beppe: «Peschiera è stata la cura più azzeccata: i detenuti mi aspettavano sempre con affetto, mangiavamo insieme, ci trovavamo in cortile».

Ruolo proprio di lui era l’ascolto e la promozione di attività interne volte ad elevare la qualità della vita. Non più solo le interminabili partite a carte, ma laboratori di vario genere, biblioteca, momenti culturali significativi, corsi di teatro: il tutto con l’apporto della competenza di volontari che finalmente vi poterono accedere, “arruolati” con i debiti permessi dallo stesso fra Beppe.

Due anni decisivi per la «seconda vita» di lui: sono stati – scrive l’autrice – «due anni in cui i detenuti di Peschiera hanno fatto forza a fra Beppe per uscire dalla malattia e tornare a essere la roccia di sempre».

La fortezza non divenne un paradiso, è vero, perché molto ai detenuti restava da costruire in se stessi; e purtroppo è avvenuto che la struttura, la cui vita rinnovata sorprese forse troppo tardi i responsabili in alto loco, è stata smantellata e i suoi abitanti sono stati inseriti con loro amara delusione in altre carceri italiane, tra i detenuti “comuni”. Ma è pure reale la speranza che se pure essa rimane come un simbolo fisicamente vuoto non andranno perduti i germogli di vita che vi sono spuntati durante quegli anni. Anche perché fra Beppe... c’è ancora.

 

STORIE DI VITE

SULLA SOGLIA

 

Potenza è la città dalla quale riprende avvio il peregrinare del religioso di carcere in carcere, rispondendo come al solito a urli di dolore difficilmente percepibili dall’esterno, da chi passa rasente a quelle mura e ragiona solo in termini di condanna: hanno sbagliato, devono pagare. Così era a Potenza dove un’intera comunità cittadina non sapeva di dover essere “svegliata” anch’essa, dal momento in cui due giovani infelici, tossicodipendenti, si erano trasformati in efferati assassini di una donna dolcissima che era stata loro insegnante e li beneficava continuamente con estrema quanto ingenua fiducia.

Tutta la comunità potentina aveva condannato il delitto e partecipato in massa ai funerali di Carolina Daraio, ma forse – osserva con fine sensibilità l’autrice del libro – non aveva «mai notato l’esistenza del suo carcere, scuro e antico, con quella pensilina esterna dove i parenti dei detenuti sostano in attesa dei colloqui, scrutati dai passanti come fossero alla pubblica gogna».

Fra Beppe diagnostica subito la malattia della città che è l’indifferenza e non rimane inattivo: «Volevo – dice – che la morte di Carolina diventasse un’occasione per aprirsi alla realtà del carcere e per pensare a come prevenire la tossicodipendenza e la delinquenza tra i giovani». Fonda un’associazione, mette in crisi i colleghi di Carolina, facendo su e giù per Potenza prende contatti con la Caritas locale e i sacerdoti responsabili della pastorale giovanile, col nuovo vescovo della diocesi... E soprattutto apre con Angelo e Vito, i due giovani colpevoli, un cammino “in novità di vita”; un rapporto che specialmente con Angelo e la sua famiglia è divenuto fonte di matura coscienza e di impegno perché, grazie anche all’associazione ispirata a Carolina, si dischiudano sempre più «le porte di quel carcere che aveva contenuto la sua disperazione».

Una disperazione che racchiude i nomi di un lungo campionario di storie fermate sulla soglia della dignità umana perduta o molto ardua da riconquistare: la storia, buia come la notte, di Vincenzo Andraous “il killer delle carceri” e (citiamo a caso) quelle delle donne nella prigione della Giudecca a Venezia; la storia di don Lorenzo (nome fittizio) tornato al ministero e quella di Giampaolo confortato dalla speranza di sposare Ancilla che l’attende fuori dalle mura; e le tante, tante altre sulle quali il sorriso di san Francesco aleggia ancora attraverso il volto di uno dei “tanti frati che il Signore gli ha dato”.

 

Z. P.

1 ZUCCALÀ E., Risvegliato dai lupi, Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, pp. 225, € 9,80.