TESTIMONIANZA CRISTIANA AL MONDO D’OGGI

CRISTO NOSTRA SPERANZA

 

Come mantenere la speranza in questi tempi di paura e farne un’esperienza ogni giorno sempre più profonda? Come potrà il mondo vedere che noi siamo gente di speranza? In cosa consiste la “spiritualità della speranza” e quali ne sono gli ingredienti?

 

Possiamo ancora sperare? Ad ogni angolo della strada incontriamo qualcuno che è depresso quando riflette sul nostro tempo e non c’è giorno che almeno un titolo di giornale non ci porti delle brutte notizie. C’è così tanta guerra e violenza, tanti genocidi, disoccupazione, crimini e terrorismo e una grande confusione morale. Una specie di angoscia esistenziale è sospesa nell’aria. È possibile avere ancora speranza?

L’umanità desidera ribellarsi e combattere. Ma scegliamo sempre l’arma giusta? Spesso diventiamo freddi, distaccati, cinici oppure indifferenti. La soluzione vera sta altrove. È la speranza. Ma che cos’è esattamente la speranza?1

Il Vangelo predica senza alcun imbarazzo la speranza e la fiducia. C’è un Dio buono che ci ha fatto delle promesse. E Dio le mantiene. Ci ha mandato il suo Spirito come consolatore.  Un tale messaggio deve suonare incredibilmente ingenuo per molti. Molta gente dice: di che cosa parlano i cristiani quando parlano di speranza? Essi danno l’impressione di andar dietro a delle belle storie e a soluzioni miracolose.

Forse il nostro parlare da cristiani è talvolta troppo ingenuo, troppo pacifista e troppo d’un altro mondo. Non facciamo a volte troppe interpretazioni sulle angosce del nostro tempo? Non diciamo troppo in fretta: «Tutto alla fine finirà bene»? L’immagine della speranza cristiana soffre per questo idealismo superficiale e pacioso.

Ma altrettanto soffre per gli stimoli all’azione e al dinamismo: «Fa del tuo meglio e Dio si preoccuperà di fare il resto!». Infine è altrettanto sbagliata l’affermazione: «Se tu pregassi solo un po’ di più, non saresti così pieno di dubbi e così povero di coraggio.

È perché sei un cristiano tiepido che hai dei problemi».

 

IL PANORAMA

CONTEMPORANEO

 

Il panorama in cui si svolge la nostra vita quotidiana non è certamente sempre allegro. È simile a un lungo inverno in cui si cerca speranza e gioia.

 

Una società della depressione?

 

C’è un libro intitolato: Dire no a una società depressa. L’autore si domanda: «Dopo la società industriale e la società del tempo libero non stiamo forse entrando ora nella società della depressione?». Molti infatti si lamentano di girare a vuoto, di non avere più forza e di aver lasciato cadere le braccia: si direbbe che hanno perso la loro vitalità.

Si è capito – a un certo punto – che non si deve prendersela solo con la crisi economica. C’è molto di più: anche se l’economia è malata e ingiusto l’ordine mondiale, è l’umanità che è malata e ha smarrito la sua strada. «I tempi non sono cattivi», dice Agostino, «noi siamo i tempi».

La società ha perso la fiducia in se stessa e, per questo, fluttua senza aiuto come un astronauta nella navetta spaziale attaccandosi a ogni cosa solida che trova. La forza di gravità che le veniva dai grandi ideali religiosi presenti in Europa è scomparsa. Inizialmente abbiamo cercato di riempire il vuoto lasciato dagli ideali con altre ideologie profane: marxismo, liberalismo e capitalismo. Ma neppure tutti questi -ismi fanno più effetto. Resta la domanda che ciascuno si pone: Come posso essere felice? La gente sta cercando un ancoraggio e un senso, ma non c’è più un grande progetto di tipo sociale o religioso.

 

La crisi d’interiorità

 

Innanzitutto è l’interiorità della persona che è confusa. Dopo la caduta degli ideali e dei

progetti, l’umanità si è ripiegata su se stessa in forme di narcisismo e di consumismo.

L’idea che si debba curarsi dell’insieme dalla società è diventata estranea a molti. Che ci siano dei valori – talvolta molto fragili – che devono essere onorati e salvaguardati, è un dovere che è scomparso dall’orizzonte della nostra società. Così c’è un grande vuoto interiore, solitudine e senso di rigetto. La gente è sommersa dai problemi e si chiede: come potrei risolverli tutti? E allora ondeggia tra eccesso di fiducia e scoraggiamento. All’individuo è chiesto troppo e lui si trova solo a fronteggiare queste richieste eccessive.

Sono poi scomparse molte tradizioni su cui la persona poteva appoggiarsi per sostenersi: non siamo più coperti da una storia in cui possiamo inserirci in modo sicuro. E coloro che a sostenerli non hanno nessuno, padri o madri o eredi che siano, finiscono per cadere vittime delle loro emozioni e diventano ansiosi.

 

Aggressivi verso se stessi

 

Spesso non esiste più un progetto in cui uno possa investire le sue energie e allora l’energia soppressa deve pur trovare uno sbocco da qualche parte! Così viene diretta o contro se stessi o contro coloro che stanno attorno. Così, improvvisa scoppia la violenza, diretta contro la società, ma spesso anche contro se stessi. In questo campo il numero dei suicidi parla da solo.

La faciloneria sessuale degli anni 60 e 70 è passata, anche se per certi, la sessualità è rimasta come un rifugio contro la solitudine. Ma la sessualità è ora diretta verso l’altro, inteso come immagine speculare di se stessi. Ma una sessualità puramente di consumo non può che rinforzare il narcisismo e la solitudine.

 

“La mia verità è la verità”

 

Il dogma ha oggi cattiva reputazione. È sinonimo di autoritarismo con i paraocchi e di dittatura intellettuale. Uccide il pensiero e svaluta l’esperienza personale. Ciascuno deve trovare la sua propria verità. E nessuno può imporla a un altro. Ma è proprio vero che il dogma paralizza?

C’è una serie di verità oggettive e di norme morali. Si pensi alla proibizione dell’incesto che si trova in ogni cultura. Buttare dalla finestra tutte queste verità oggettive non è una liberazione, ma un passo verso la schiavitù, quella della razza, dei numeri, del potere e delle passioni.

Avere a disposizione un deposito di pensieri e di orientamenti rende la società più vivibile, non è espressione del fondamentalismo. Perché aver vergogna delle nostre origini e dei nostri genitori, della tradizione e della fede? Quelli che bruciano la loro ascendenza familiare o intellettuale, dovranno sedere attorno alla torre di Babele e rendersi conto di quanta confusione ci sia da quelle parti.

Ci sono delle verità e dei valori che ci precedono: sono come una costruzione simile a un tempio in cui dobbiamo entrare rispettosamente, pieni di timore e gratitudine. Non ne siamo né i progettisti né i padroni, ma solo i servitori. L’umanità non è la fonte della verità e dei valori, ne è solo la custode. E forse una causa della società della depressione è proprio questa: ci siamo incoronati come padroni della verità e creatori dei valori.

 

Il dramma della gioventù

 

I primi a soffrire il contraccolpo di tutto questo sono i giovani: essi, più di tutti, devono fare i conti con la disperazione. Spesso si sentono dire dagli altri che non hanno un futuro: non un lavoro, non sicurezza, non scampo. I giovani soffrono più di tutti il vuoto e la solitudine. E spesso non hanno quasi nessuno in cui porre fiducia: non i genitori, non gli insegnanti, non c’è nessuno che si occupi di loro: devono accontentarsi dei loro coetanei.

Tuttavia si deve dire che in questi ultimi tempi si è visto nascere un forte contromovimento in seno a una significativa minoranza: dei giovani che cercano, senza inibizioni, la verità e i valori, perfino la religione. Essi hanno completamente messo da parte il complesso degli anni 60. 

 

RICORSO

AI FALSI RIMEDI

 

Nel loro cammino i nostri contemporanei cercano dei fari che li guidino. Ma spesso questi fari non durano più di una candela da compleanno che si spegne con il più flebile soffio. Sono delle terapie a breve termine. 

 

Curarsi da soli

 

Molti, per curare il loro scoraggiamento, cercano aiuto nell’armadietto delle medicine: la ricerca di medicine ha assunto proporzioni allarmanti nel nostro tempo. C’è di più: questo modo di fare è un modo di volersi curare da sé, e questo può diventare un disastro sociale. Che cosa c’è dietro a ciò? Senza dubbio, una sorta di autoreferenzialità e di narcisismo. Quando uno si trova buttato fuori dall’edificio sociale in cui potrebbe trovare consolazione e da ogni sicurezza, da una tradizione e da una fede, allora non può che lasciarsi portare a destra e a sinistra senza riuscire a reagire. Alla fine, esausto, si consegna a un terzo partito: la cura di un medico. Questa lo libera da ogni responsabilità di riflettere e di fare degli sforzi: il medico libera dalla responsabilità.

La stessa cosa si può dire dell’uso dell’alcol e della droga, che, ancora una volta, sono il sintomo di una cultura della depressione. Il loro scopo è aiutare la persona, ma senza chiederle lo sforzo della propria volontà.

 

Compensazione fisica

 

A volte le persone cercano altrove. Dicono: «Se il pensiero non mi offre una via d’uscita, posso cercarla attraverso i miei sentimenti, la mia immaginazione e il mio corpo». In realtà i settimanali e le riviste sono piene di ricette che promettono la felicità, ma si collocano sempre al livello psicologico o fisico. Sono da mettere tutti nella categoria “piacere”. Ogni sentiero verso la felicità che richieda riflessione, autocontrollo, sforzo, conversione o ricerca di qualcosa di più in termini di vita spirituale o morale, è attentamente evitato.

Oppure se c’è una allusione alla spiritualità, questa si trova nel campo esoterico e delle tecniche che promettono una salvezza automatica. Non si prende in considerazione la conversione del cuore e la persona interiore.

 

Sogni

 

Ci sono anche altre strade per evadere. Un notevole fenomeno è la sostituzione dell’intero retaggio di immagini, storie, rituali e abitudini cristiane con un parallelo mondo di visioni, avvertimenti divini, apparizioni, tutta una gamma di sapienza mondana, nuova e strana, e di trucchi pensati proprio per rendere felici. Si sogna così una specie di «religione universale», non legata ad alcun fondatore né a una chiesa, senza dottrina o principi morali troppo rigidi, senza gerarchia o ministri incaricati, libera da ogni obbligazione. Questa è la visione di New Age e di tutti i suoi satelliti.

È questa una autentica speranza? Non è più semplicemente la proiezione dei propri desideri e dei bisogni della propria immaginazione? Una simile «religione universale» ha la caratteristica di richiedere raramente o, addirittura, mai uno sforzo e una conversione da parte della gente e, in più, non conosce il peccato. La persona arriverebbe in paradiso in una macchina di lusso. Questo è una speranza o un miraggio?

 

Evadere nelle sette

 

Una deviazione ancora più seria è quella dell’infinita quantità di sette. Nel suo libro  The City of God, Harvey Cox aveva annunziato – già parecchi anni fa – la fine della religione e l’epoca della totale secolarizzazione. In un nuovo libro scritto venticinque anni dopo – Fire from Heaven – egli prende le distanze completamente dalle precedenti prospettive e si esprime con grande determinazione: «La chiesa ha optato per i poveri, ma i poveri hanno optato per le sette».

Cox ora afferma che noi siamo alla fine sia della modernità, fondata sulla scienza e la tecnologia, che della religione classica. Due nuovi successori sono attesi al loro posto: il fondamentalismo e ciò che potremmo chiamare le fantasie dell’esperienza. I fondamentalisti sono dei credenti pieni di zelo, imperturbabili e appassionati, totalmente convinti di essere nel giusto, mentre gli altri sono nel torto. Vivono di tradizioni e di riti che ritengono eterni. Il ricorso all’esperienza, d’altra parte, è completamente costruito sull’emotività e sulle esperienze, sui sentimenti. Credere è sentire. Non impongono alcuna dottrina fissa né alcun rituale. Trasmettono solo un pacchetto che contiene un equipaggiamento e gli strumenti che permettono di mettersi al lavoro. Qualche volta questo è chiamato, per presa in giro, la «spiritualità del bar» oppure la «religione à la carte». Gli appartenenti alle sette sono molto prammatici: una religione ti soddisfa in questo momento e in queste circostanze? Allora, iscriviti ad essa! Cox predice che questo esperienzialismo sarà vincente. Il futuro, dice, va insieme con il misticismo. Il tempo di Cristo e del suo messaggio stabile e della sua morale è passato: ora soffia il vento libero dello Spirito.

Queste basi sono sufficienti per sperare?

 

IL SOLIDO PASSO

DELLA SPERANZA

 

No, la speranza cristiana è qualcosa d’altro. La teologia della speranza è per i teologi un terreno solo recentemente esplorato. Nella predicazione e nella spiritualità la speranza cristiana è un terra ancora incolta. Il poeta francese Péguy parla della speranza come della “sorella minore” che sta in mezzo alle due sorelle maggiori, la fede e la carità.

Mentre la fede è indispensabile e la carità è la più grande, può darsi che per il nostro tempo la speranza sia la più necessaria. Ma che cos’è allora la speranza cristiana?

 

Il cuore dell’esistenza umana

 

La speranza non si trova in qualche luogo ai margini della esistenza umana, ma ne è il cuore. E se essa è colpita, la persona muore. In che modo? La persona è un essere composto di desideri, che cerca di realizzare se stessa in modo permanente ed eterno. Ma proprio a questo punto le persone sentono di essere limitate e di imbattersi continuamente nei confini della morte. Il loro spirito non ha confini, ma il loro corpo li limita nel tempo e nello spazio. Non possono essere ovunque, e peggio ancora, non dureranno eternamente. Si sentono quindi prese tra l’essere intrappolate nel tempo e tuttavia aperte all’infinito. Sanno che all’interno dei confini dell’esistenza terrena non saranno mai capaci di realizzare quello che sommamente desiderano.

Così non possono far altro che sperare: così è fatta la persona umana. Le persone devono accettare se stesse come degli esseri divisi in due, segnati da grandi desideri e poche possibilità. All’interno di questa forma di “schizofrenia” non ci sono altre soluzioni: o la persona accetta di essere assurda oppure deve essere capace di sperare.

 

Utopia e speranza

 

Anche i non credenti devono fare i conti con questa realtà. Prima del Rinascimento questo problema era quasi come se non ci fosse. Non si parlava di una speranza profana, perché ogni speranza si inquadrava nel messaggio cristiano. La gente sperava, naturalmente, in un modo cristiano. Ora però la situazione è completamente cambiata.

La gente ha cominciato a parlare di “utopia”, che è una specie di versione, profana e secolarizzata, della speranza. Tolta dalla sottomissione a Dio, la speranza diventa il frutto dei propri sforzi.

La persona deve ora essere responsabile della sua stessa speranza, dato che questa non può venire da nessun’altra parte. Il marxismo si è impadronito dell’idea di utopia e si è messo a realizzarla concretamente. Dice Marx: «Malgrado tutto, arriverà una società ideale e senza classi nella quale tutti saranno felici. Noi dobbiamo, però, realizzarla in modo razionale». Ma questa utopia è veramente una speranza? In ogni caso essa incappa nelle secche della morte per le quali il marxismo non ha risposte. Un problema fondamentale resta senza soluzioni. La risposta deve, quindi, venire da altrove. L’umanità non può dare una risposta alle domande che porta iscritte in se stessa.

Questo è invece il modo in cui il cristianesimo comprende la speranza. Verrà un portatore di speranza: il Messia. Egli adempirà le promesse e realizzerà la speranza. Questo è chiamato l’escatologia. L’alternativa all’utopia è credere che Dio stesso interviene nella storia umana, in modo libero e del tutto invisibile, libero e immeritato. La speranza non è prodotto nostro, essa è donata come regalo. C’è la promessa che noi continueremo a vivere dopo la morte. Il cristiano allora vive nella “meraviglia”. Questo non gli toglie la responsabilità di lavorare anche alla costruzione del mondo, ma egli non è vittima di progetti che lo superano e lo affaticano oltre le sue possibilità. Ogni impresa umana è valida, ma relativa.

In breve: la speranza cristiana non si fonda sulle risorse della persona, ma sulla promessa di Dio e sulla forza di Dio: “Se il Signore non costruisce la città, invano faticano i costruttori”.

 

Perché noi speriamo?

 

Ci sono per noi delle ragioni che ci portano a sperare in Dio? Non sarà tutto questo una costruzione della nostra mente? Non stiamo confondendo i nostri sogni con la realtà? Eppure se c’è una cosa chiara nella Bibbia, è questa: Dio adempie a tutte le sue promesse ed è la ragione della speranza.

Dopo tutto, la speranza di Israele non si è fondata su un gioco o su un vago desiderio, su una falsa proiezione del proprio desiderio di felicità o su miti e favole. La speranza di Israele si è fondata su dei fatti : Dio ha già messo in atto nel passato delle cose che alimentano la speranza. All’origine di tutta la speranza in Israele sta l’esodo dall’Egitto. Questa non è una storia inventata né pura letteratura. È un fatto: Dio ha compiuto dei “segni meravigliosi” per condurre “Israele fuori dall’Egitto” (Sal 81,11).

Al di sopra di tutte queste promesse sta la grande promessa fatta ad Abramo: Dio gli ha promesso una terra e una discendenza numerosa “come le stelle del cielo e la sabbia che è sul lido del mare” (Gen 22,17).

 

I profeti

 

Anche tutti i profeti parlano e agiscono in questa stessa linea: sono messaggeri di speranza. Danno respiro alle attese messianiche e mantengono vivo il fuoco della speranza, ma danno anche un orientamento a questa speranza.

Anzitutto, essi indicano che Israele non deve contare su se stesso per il compimento delle promesse. Non deve contare “sui carri e sui cavalli” (Sal 20,8), sul potere militare e sull’alleanza con l’Egitto. Solo la fiducia nella “nuda” parola di Dio può salvarlo. La speranza è esclusiv. C’è una seconda correzione apportata dai profeti: Israele non deve fare ciecamente appello all’intervento di Dio nel passato risparmiandosi così il disturbo della conversione. La speranza è basata sull’osservanza della legge e su una vita virtuosa. La speranza è spiritualizzata. C’è poi una terza correzione: Dio non ha promesso solo una prosperità esteriore, ha promesso piuttosto la pace del cuore, un cuore nuovo che aderisce alla Legge del Signore in modo completo e spontaneo. Dio promette intimità e conversione. Libera non solo dai vincoli esterni, ma anche dalla schiavitù interiore del peccato. La speranza viene interiorizzata. Finalmente diventa sempre più chiaro che le promesse di Dio non sono limitate alla storia presente e alla nostra vita attuale qui in terra. Le promesse riguardano anche un’altra vita, “un nuovo cielo e una nuova terra”. E non per Israele soltanto, ma per tutti quelli cui Israele rivela il vero Dio. La speranza diventa quindi una speranza universale. Queste sono quattro importanti correzioni alla speranza di Israele da parte dei profeti.

 

La risurrezione di Cristo: si compie la promessa finale

 

L’ultimo nemico dell’umanità è la morte. La speranza si esercita al massimo nella prospettiva della liberazione dalla morte. Una delusione in questo campo toglierebbe la base ad ogni altra speranza. Se questa promessa fosse vuota, tutte le altre attese sarebbero illusorie.

«E noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù …» (At 13,32). Qui e solo qui la speranza cristiana trova il suo fondamento definitivo, essa viene radicata così in un evento: Gesù è stato risuscitato. Questo fatto non è stato proclamato come un sogno o come una storia mitica. Si tratta di un fatto attestato da testimoni credibili: «Noi l’abbiamo visto ed abbiamo mangiato e bevuto insieme con lui …». La speranza cristiana si appoggia interamente su dei fatti e sulla sola, potente azione di Dio. Ciò che Cristo ha fatto, succederà anche a noi: come egli non è rimasto nella morte, anche noi sfuggiremo agli artigli di quest’ultima. Attraverso il battesimo, dice Paolo, noi siamo diventati una sola persona con lui : «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Rm 6, 3ss).

Attraverso il battesimo la Pasqua si è realizzata anche in noi: «Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati!» (Sal 124, 7).

 

PUNTI

DI RIFERIMENTO

 

Come possiamo mantenere la speranza in questi tempi di paura e farne un’esperienza sempre più profonda ogni giorno? Come potrà il mondo vedere che noi siamo gente di speranza? In cosa consiste la “spiritualità della speranza” e quali ne sono gli ingredienti?

 

Due tentazioni

 

Vogliamo prima di tutto difenderci da due tentazioni: quella di una fiducia temeraria nella novità e quella della mancanza di immaginazione. Quelli che desiderano vivere solo di futuro e delle loro nuove realizzazioni, staccandosi da ogni sapienza e dal passato che ci è stato trasmesso nella fede, si trovano presto a corto di memoria. Essi non sanno che molte strade sono state già percorse senza successo, ma le tentano ancora di nuovo. Questo li conduce a dolorose delusioni e demotivazioni. I rivoluzionari senza memoria finiscono spesso, prima, nel campo dei liberali, e poi in quello dei conservatori. Essi hanno fatto troppa esperienza della falsa speranza.

Ma il contrario è altrettanto possibile: è la tentazione di una mancanza di immaginazione insieme con il sogno che si possa vivere ancorati al passato senza correre rischi. In questo caso ci si dimentica che non tutto è stato fatto al nostro posto, ma che resta ancora molto che non è stato ancora tentato e che in ogni futuro c’è così tanto di bello che deve ancora germinare. In questo caso c’è troppo poca speranza.

 

Rimanere vigilanti e oranti

 

C’è in realtà una sola strada per esercitare la speranza: una costante vigilanza fatta di preghiera. Lo stare in silenzio con Dio in atteggiamento di attesa è il migliore esercizio della speranza. Attraverso tutta la Bibbia la preghiera è descritta come uno stare svegli, attenti al ritorno del Signore. I salmi sono un libro di preghiere di lamentazione, di attesa della giustizia, di richiesta di protezione per il giusto, di domanda di perdono del peccatore e di pazienza nel tempo della prova.

La preghiera è anche il sospendersi pazientemente tra passato e futuro. Infatti coloro che pregano prendono in mano la Bibbia e si immergono nella sua memoria: “Egli medita sulle grandi opere di Dio”. Pregare è consultare la propria memoria e alimentarla, ma è anche guardare avanti verso i giorni futuri con un cuore ardente, guardare avanti verso il ritorno dello Sposo: “Marana tha”. Pregare è esprimere riconoscenza per tutto quello che è dietro a noi, ma anche scavare nelle promesse che non si sono ancora adempiute. Per una cultura (e anche per una chiesa!) in tempi di depressione ci può forse essere una terapia così efficace come quella della preghiera?

 

Impegno

 

C’è una seconda strada per esercitare la speranza: l’impegno. La speranza non si concretizza se non ci si impegna, non si decide e non si arriva a fare mai delle scelte. Una cultura senza speranza non si sente spinta ad assumere un impegno, a scegliere, a decidersi per qualcosa. Una specie di incapacità di decidere domina la nostra società e anche la chiesa e questo vale per il matrimonio, per un impegno di tutta la vita, per promettersi perpetua fedeltà in un impegno totalizzante e per consacrarsi per sempre a qualche cosa.

È possibile trovare delle spiegazioni, più o meno accettabili, per questo fenomeno. Ma ci sono anche altre ragioni meno belle che stanno sotto a questa incapacità di decisione. C’è una specie di narcisismo che non sa come liberarsi dalla preoccupazione per il proprio comodo, dal bisogno di garanzia assoluta, da una mentalità che pretende sicurezza per ogni cosa.

C’è nel nostro tempo qualcosa che riguarda l’esperienza del tempo: nessuno può attendere, tutto deve essere immediato.

Il tempo è diventato il nostro nemico. Dobbiamo invece imparare a farcelo alleato nella speranza di diventare ancora sensibili ad un articolo di fede che è completamente scomparso: la divina provvidenza. Quando ci renderemo conto di nuovo che Dio si prende cura di noi meglio di quanto lo facciamo noi di noi stessi?

 

La speranza guarda avanti

 

La speranza ripara i danni e offre protezione.

La speranza non si dà per vinta, cerca di riparare gli sbagli del passato e si prende cura del presente. Ma la speranza guarda soprattutto avanti: opera in modo preventivo.

Dove si colloca nel nostro tempo questa prevenzione, dove sta la garanzia che la nostra speranza si compirà? Anzitutto nelle scuole e nelle famiglie. Non dovremmo forse investire maggiormente in questi campi, se vogliamo che la nostra speranza sia giustificata?

La mancanza di speranza in questo tempo non è forse dovuta al fatto che i genitori e gli educatori troppo spesso cedono e si scoraggiano? Un appello profetico deve essere proclamato a voce alta: “Aiutiamo i genitori e gli insegnanti”. Tutto ciò che non viene fatto in casa o nella scuola diventa poi una responsabilità per la società.

 

IL LIBRO

DELL’APOCALISSE

 

E la Chiesa?

 

C’è una speranza anche per la Chiesa? Non c’è bisogno di andarle tanto vicini per vedere che anche qui la speranza è spesso assente. Perché non va di nuovo bene per la Chiesa? È lecito chiederselo quando si sentono le critiche che nascono proprio tra la gente di Chiesa. Certamente ci sono delle ragioni che lo spiegano: tensioni interne, critica e disagio, una chiesa stanca e una chiesa respinta indietro nel “privato”, la diminuzione della pratica domenicale, il calo numerico delle vocazioni.

 

Eppure …

 

Nella storia della chiesa ci sono state spesso ragioni per cadere nella depressione. Ma ci sono anche state sempre delle persone che si sono alzate per trasformare queste sofferenze in gioia. Un esempio affascinante ci viene da Caterina da Siena. Raimondo di Capua, suo confessore e direttore spirituale, ritornava da una viaggio di predicazione completamente scoraggiato. Aveva visto anche troppe cose tristi: una chiesa e un clero in declino, negletto, abusato e perseguitato: un disastro! Troppo per lui. Lo volle dire a Caterina: «Tutto ciò non ebbe altro effetto che di alimentare i desideri di Caterina. Essa sentì la sofferenza per l’insulto recato a Dio, ma ebbe anche la grande gioia di poter crescere di fiducia e di speranza. Tutto doveva essere rivolto a Dio per permettere la possibilità di aiutare questi malanni» (Dial. c. 1).

La Bibbia è piena di “parole di consolazione e incoraggiamento”, che vengono, soprattutto, dalla bocca dei profeti. Isaia ha scritto un intero libro su questo tema: Il Libro dell’Apocalisse. Ma anche nel Nuovo Testamento c’è un libro che tratta come si può sopravvivere in un tempo di paura: è il libro dell’Apocalisse o della Rivelazione. È un libro pieno di immagini e di visioni. Secondo certi sarebbe un libro pieno di fantasmi e di cose che devono avvenire. Ma, ancora più, un libro scritto come lettura incoraggiante per la comunità cristiana durante un tempo di persecuzione.

Molto più che un libro sulla paura e la morte, è un libro sulla speranza. Che cosa ha da dirci il veggente di Patmos?

 

Chi dirige il corso della storia?

 

Chi ha in mano il corso degli eventi, si domanda Giovanni? Coloro che non credono risponderanno: il destino cieco, il caso e il fatalismo. Quelli che credono danno un’altra risposta: Cristo, dice Giovanni, dirige il corso degli eventi: «Colui che tiene le sette stelle nella sua mano e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro» (Ap 2,1). È Gesù che cammina in mezzo alle sette chiese perseguitate, le custodisce e le protegge, giudica il male e ricompensa il bene.

L’Apocalisse dice che Cristo rimuove il fatalismo dalla storia e controlla la spirale del male e della violenza nel mondo. Nulla è ineluttabile, dato che egli è il Signore di tutta la storia e dell’universo. Molta della nostra depressione nel mondo e nella Chiesa deriva dal fatto che non siamo capaci di leggere questo libro. Noi vediamo solo l’esterno della storia. Ma quelli che leggono l’Apocalisse ricevono nelle loro mani la chiave dalla storia del mondo. «Ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli» (Ap 5,5).

 

Le sette chiese

 

L’Apocalisse comincia con sette lettere a sette chiese, lettere di minaccia scritte a sette comunità cristiane in Asia Minore. Ma sono lettere indirizzate a noi, dato che le sette chiese esistono ancora.

Ciascuna delle sette chiese ha il suo aspetto positivo e ciascuna ha anche un aspetto che attende una conversione e, alla fine, ciascuna riceve una promessa differente. Le lettere sembrano essere scritte per oggi e per noi.

All’inizio c’è la chiesa di Efeso (2, 1-7). È una chiesa che funziona; vista dal di fuori, è perfino fiorente. Piena di zelo apostolico, di iniziative, perseverante e vigilante, non soccombe al canto delle sirene che viene dalle sette e dai falsi profeti. Ma è accusata di aver “abbandonato il suo amore di prima”. È una chiesa che fa molte buone cose, molto organizzata, che lavora duro e che è ragionevole. Tutto va abbastanza bene, ma è fredda e soffre di vuoto interiore. Dove sono finiti i tempi stimolanti dei suoi inizi, l’intimità piena d’affetto, l’ingenuità che osava correre i rischi? Dove è finito l’amore senza calcoli e lo spirito di preghiera? La gioia? Chiese come questa ne esistono anche oggi.

C’è anche la chiesa di Laodicea (3,14-22). È ancor peggio: è una chiesa che non ha più speranza. Non è né calda né fredda, ma tiepida. Ha, si direbbe, tutto, ma si sente autosufficiente e tiepida. Non sa nemmeno più di aver bisogno di convertirsi. È una chiesa autosufficiente e per questo merita la critica più forte: “Sto per vomitarti dalla mia bocca” dice Gesù. Questa chiesa deve finirla di contare su di sé, deve ritornare da Gesù: “Vieni a comperare da me”, questo è il consiglio di Gesù.

C’è poi Smirne (2,8-11), una chiesa povera. Non ha un elenco di opere buone. La sua unica virtù è di essere povera, senza potere e perseguitata. Non fa conto su di sé. Non ha nulla di cui vantarsi. È però l’unica delle sette chiese che non riceve rimproveri. È una chiesa che è così povera e mal combinata che, a vista umana, sembra non avere un futuro, ma è l’autentica chiesa delle otto Beatitudini. Riceve la promessa più ricca : non abbia paura, perché riceverà la corona della vita.

Infine c’è la chiesa di Filadelfia (3,7-13). Come quella di Smirne, è una chiesa perseguitata e molto debole. “Conosco che tu hai poca forza”, dice Gesù. Ma ha invece una grande forza: è attaccata con tutto il suo essere alla Parola di Dio e si fida si essa. Vive della sola Parola e non viene a compromessi, non annacqua il Vangelo con il cosiddetto buon senso, ma onora e accetta il Vangelo in tutta la sua radicalità. Alla comunità di Filadelfia è promessa una meravigliosa fecondità.

 

Le sette chiese ci sono ancora oggi…

 

Le sette chiese sono ancora in piedi. Sono chiese in cui tutto funziona bene a livello organizzativo, una gestione impeccabile, traboccanti di programmazioni e organizzazione. Ma a che punto è la loro vita di preghiera?

Chiese autosufficienti ce ne sono ancora: sono chiese ricche che contano sulle proprie risorse. Non sono né calde né fredde, ma efficienti e prammatiche. Si credono ricche e invece sono molto povere. Siccome comperano tutto a casa propria, sono diventate … fornitrici di se stesse.

Ma ci sono anche delle chiese povere, come quella di Smirne, perseguitate e criticate, sprovviste di mezzi.

Si fidano però di Cristo e in realtà non è ancora loro capitato il peggio. A queste chiese molto è promesso: la fede e una grande fecondità apostolica, la forza di una colonna del tempio e la piena rivelazione dei segreti di Dio.

Ci sono poi anche delle chiese come quella di Filadelfia, il cui unico punto di sostegno è la Parola di Dio. Esse fanno fatica ad avere l’Eucaristia e i sacramenti, eppure possono sperare un grande futuro.

 

Il martire come icona della speranza

 

L’immagine per eccellenza della persona di speranza è il martire. Come persona, non ha nulla in più su cui contare. Solo “Dio rimane la loro roccia e la loro fortezza”. Davanti alla morte, ogni autosufficienza scompare. Il martire non può fare più nulla. Si deve consegnare completamente. L’unica cosa di cui vive il martire è la speranza: una speranza teologale che può trovare sostegno solo in Dio. Senza questa pura e radicale speranza in Dio, “che può far risorgere dalla loro tomba i morti”, il martire è perso. Per questo il martire è un figlio della grazia di Dio più che un eroe.

I martiri ricevono il loro martirio, non lo producono. Non sono degli eroi. Ma se si consegnano al Dio della speranza, anch’essi sono liberati completamente e sono salvi.

Di martiri ce ne sono ancora tanti nella Chiesa; non sempre versano il loro sangue. Ci sono anche i martiri «bianchi». Sono coloro che osano parlare nei Gulag della nostra società, che perseverano nella loro fede in Cristo, anche quando sono sbeffeggiati e ridicolizzati, che resistono all’impulso del razzismo, dell’esclusione e dell’emarginazione e agli slogan dell’opinione pubblica. Sono quelli che sempre perdonano, anche quando è loro stato fatto molto danno e che sanno rendere bene per male. Sono degli splendidi testimoni – lo dice il loro nome martire-testimone – sono le icone della speranza nella chiesa e nella società. Finché ce ne saranno, la speranza non morirà mai.

 

X Godfried cardinale Danneels

arcivescovo di Malines-Bruxelles

 

1 Riflessione dal titolo Cristo speranza per il nuovo millennio, del cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles per il recente lancio della Catholic Agency to support Evangelization, dei vescovi d’Inghilterra e Galles.