FORMAZIONE DEI NUOVI MISSIONARI

PERSONE DA AVAMPOSTO

 

Una nuova visione della missione richiede persone con una mentalità nuova. Persone capaci di collocarsi negli avamposti, uomini e donne di fede e di dialogo. Persone libere e testimoni di un Vangelo totale, nella sua dimensione storica ed escatologica.

 

Quando si parla della missione ad gentes e ad extra tornano alla mente tutte le discussioni che sono state fatte su questi argomenti negli ultimi decenni nel campo della missiologia. In seguito ai cambiamenti intervenuti nel modo di percepire i problemi era infatti necessario ritornare a studiare i fondamenti, gli obiettivi e le esigenze della missione.

Oggi si è usciti dalle turbolenze intellettuali ed esistenziali che hanno accompagnato questo processo. La missione, pungolata dalle critiche rivolte al “proselitismo missionario” e dagli interrogativi sorti nelle varie chiese che sono a contatto con religioni quanto mai vive, e resistenti alla proposta cristiana, come per esempio in India, ha dovuto rimettere in questione la massima “fuori della Chiesa non c’è salvezza” che per secoli ne aveva fatto da filo conduttore. A partire soprattutto dal Vaticano II e dai diversi importanti documenti del magistero usciti in seguito è maturata la convinzione che la pluralità delle religioni appare come una realtà destinata a durare nel tempo e non superabile nell’orizzonte della storia. Approfondendo alcuni testi conciliari come Lumen gentium 16-17, Gaudium et spes 22,5, Nostra aetate 2 e alcuni documenti successivi come Redemptoris missio 56 e Dialogo e annuncio 23-29 si è giunti alla conclusione che anche le altre religioni sono dei luoghi autentici dove Dio vuole accompagnare il suo popolo nella verità di Cristo e la forza dello Spirito. Come del resto si può dire anche per tutti coloro che, al di fuori di ogni fede religiosa, si lasciano guidare dalla loro retta coscienza.

Questi punti di vista sono diventati oggi una delle grandi questioni della teologia, i cui dati acquisiti, certamente ancora da approfondire, sembrano ormai definitivi. È tutta la visione del rapporto tra l’uomo con la sua salvezza e di Cristo in relazione alla storia, soprattutto religiosa, dell’umanità a essere trasformata; di conseguenza anche quella della missione della Chiesa in questa storia. In questa prospettiva non si può più continuare a pensare la missione essenzialmente come un’impresa di “conversione” ad ogni costo. Naturalmente senza rinunciare alla convinzione centrale della nostra fede che Cristo, solo, è il Salvatore universale (cf. 1Tm 2,5-6; At 4,12). Ma se si vuole essere coerenti con la nuova visione è necessario trovare un altro modo di rivolgersi ad gentes nel nome di Cristo.

Scrivendo su questo argomento, nella rivista di esperienze e ricerche missionarie, Spiritus (dic. 2004), Daniel Mellier, membro della Società delle missioni africane, missionario per 15 anni nel Benin e per molti anni incaricato della formazione dei futuri missionari dell’istituto in Francia e Costa d’Avorio, si chiede quale formazione dare oggi ai giovani missionari tenendo presente il cambiamento di prospettiva intervenuto nel modo di intendere la missione.

A suo parere sono quattro le grandi linee, con le relative specificazioni, che devono presiedere a questa formazione: fare dei giovani missionari dei détachés, ossia persone da distaccamento, che si collocano agli avamposti; farne degli uomini di fede e di dialogo; delle persone libere e, quarto, dei testimoni di un Vangelo totale.

 

PERSONE

Da AVAMPOSTO

 

Anzitutto uomini da avamposto, da distaccamento, ossia chiamati a vivere dove la fede non è ancora sbocciata e dove la Chiesa ancora non è riunita. Si tratta di una formazione da modulare su vari registri. Prima di tutto psicologicamente. Il giovane deve imparare a vivere e a lavorare fuori della calda complicità di una comunità in cui egli ritrova i suoi fratelli nella fede, dove è riconosciuto e valorizzato come il “padre”, dove esercita un’autorità accettata, è servito e cercato, dove il suo compito è definito e apprezzato. Da questo punto di vista egli dovrà sopportare la solitudine o l’isolamento che nasce da questa “alterità”, a volte profonda, da parte dell’ambiente che lo circonda.

È questo un registro che tocca anche l’aspetto spirituale. Il giovane missionario dovrà uscire dalla dipendenza nei riguardi della comunità, dovrà convertire la sua spiritualità a questa solitudine cristiana e trovare i riferimenti e le risorse in se stesso, e imparare a vivere a partire dalla convinzione che il suo popolo, quello in cui Dio l’attende e parla sono gli “altri”, quelli di fuori. La sua gioia e il suo conforto stanno nell’essere prossimo ad essi in maniera quanto mai intima, in nome dell’Amico comune, anche se essi ancora non lo riconoscono.

Ma questo non avviene senza un contenuto dottrinale appropriato. Intellettualmente, pertanto, c’è un lavoro enorme da compiere. I nostri giovani missionari, osserva Mellier, sono ancora formati, come tutti i preti o i religiosi del mondo, a una teologia che, nel suo orientamento e nella sua problematica, è quella del mondo cristiano. Tutto è pensato a partire dalla Chiesa e per la Chiesa, e il popolo dei fedeli: il Cristo, lo Spirito, la redenzione, la vita ecclesiale, il sacerdozio ministeriale, ecc. Da questa visione deriva una modo quanto mai orientato di leggere la Scrittura. Per i missionari bisogna avere il coraggio di prevedere un altro approccio del mistero tenendo presente ciò che si scopre volgendosi verso l’ “altro”, verso quelli di fuori.

Dal punto di vista cristologico, se il problema basilare riguarda sempre la relazione di Cristo verso i suoi discepoli e la salvezza che egli offre loro all’interno di questo quadro, per il missionario è importante anche il problema della relazione di Cristo con il mondo che è fuori della Chiesa. Chi è il Cristo per coloro che lo ignorano? In che cosa l’opera dell’incarnazione li tocca? Quale salvezza offre loro?

Allo stesso modo si può dire dell’economia universale dello Spirito del Risorto, di cui, sottolinea Mellier, si parla così poco nei seminari e nelle facoltà di teologia, ma che invece era molto sentita nei primi secoli da uomini, per esempio, come Cirillo d’Alessandria. Il problema del rapporto, così poco trattato, tra il Regno e la storia universale, e non solo quella dei battezzati, deve essere posta in primo piano.

Così pure per quanto riguarda l’ecclesiologia: bisogna comprendere che cos’è la casa per quelli di fuori, qual è questa casa, cosa deve essere per coloro di fuori? Con quale idea di casa parte il missionario? Da questa concezione, sottolinea Mellier, dipenderanno il rapporto che egli tesserà con essi e la sua capacità a entrare umilmente, come servitore e semplice testimone nel compito comune a tutti di costruire l’umanità del Regno, senza conquista intempestiva, senza rigidezza, senza esclusiva. Da questo punto di vista, sottolinea Mellier, il missionario ha bisogno di una visione più teocentrica e cristocentrica che ecclesiocentrica.

Un altro campo di conversione riguarda il sacerdozio ministeriale. I nostri giovani missionari sono fortemente investiti della coscienza di essere “preti”, vale a dire, uomini della Parola (soprattutto intraecclesiale, predicazione, insegnamento) di governo e dei sacramenti: “preti, profeti e re”. È un fatto tremendamente pericoloso per un missionario per il quale la comunità cristiana non è più normalmente il campo principale delle sue attività, il centro della sua vita. È perciò urgente rettificare questa immagine di sé. Non perché i tre poli che definiscono il presbiterato siano imprecisi, ma perché egli li deve vivere secondo un’altra logica. Certo egli deve essere profeta ma per il mondo: una persona che è segno al mondo (con la parola e l’azione), che decifra i segni del Regno nel mondo (con tutti i cercatori di vita), che è testimone di senso per il mondo (da approfondire nel Vangelo). Inoltre egli è prete, certamente, ma il suo sacerdozio non è chiamato a esprimersi prima di tutto nell’amministrazione dei sacramenti. La sua celebrazione dell’eucaristia, spesso individuale o senza una numerosa assemblea, sarà una “messa sul mondo”; la sua alleanza di vita con il popolo di Dio che sta al di fuori sarà il suo “culto spirituale”, un’“offerta spirituale” di ostie viventi.

Egli è certamente re e pastore, ma le sue “pecore non sono ancora nell’ovile”: egli le cerca, le chiama, le riconosce e le accoglierà nella misura del dono di Dio. «In una parola, è un cambiamento molto radicale che deve attraversare i modelli offerti e un certo insegnamento ricevuto se si vuole preparare i giovani missionari a essere uomini che sanno e hanno coscienza di essere per le genti.

 

UOMINI

DI DIALOGO

 

Il secondo grande campo della formazione riguarda la coscienza che il missionario deve avere di non essere inviato al suo mondo cristiano, ma al mondo che è lontano dalla sua fede. Suo compito è pertanto quello di dialogare con esso.

A questo scopo è urgente accelerare l’uscita da un’epoca in cui la filosofia non era che l’ancella della teologia, in cui questa si costruiva in una regale ignoranza delle scienze sperimentali o contro di esse, in cui la fede passava per l’ultima parola della ragione e quindi pretendeva di essere l’unico accesso al mondo e al divino. Non è questione di entrare in “una schizofrenia della duplice verità”. C’è una razionalità del credere che associa la teologia alla filosofia, all’etica e alle altre scienze in un’unità di intenti: comprendere il mistero del mondo e vivere in esso il meglio possibile.

Bisogna pertanto formare i missionari a dialogare con le diverse razionalità: con la filosofia, l’etica, le scienze naturali e quelle antropologiche che non devono essere considerate come estrinseche o accessorie al sapere credente. In secondo luogo, dialogare con la pluralità religiosa. Perciò, il giovane missionario deve diventare un buon conoscitore delle diverse religioni o dei movimenti derivati dal cristianesimo con cui entrerà in contatto; ma prima ancora è necessario che sia iniziato a una riflessione seria sul fenomeno religioso stesso, nella sua genesi, il suo sviluppo e il suo ruolo. Anche la stessa risposta di fede cristiana si inscrive in questo fenomeno, partecipa delle sue leggi e dei suoi segreti. Come pertanto non averne coscienza per scoprire i legami sotterranei che si intrecciano tra essa e le altre religiosità, e il dialogo che esse devono vivere?

 

In terzo luogo, fare dei missionari degli uomini liberi. Liberi dal punto di vista psicologico e affettivo, nel senso che se il missionario non fa attenzione rischia di vedere il suo orientamento verso gli “altri” indebolito dalla sua attrattiva verso la sua famiglia, la sua etnia, la sua nazionalità ritrovati nel paese di invio. Non è un pericolo illusorio, sottolinea Mellier.

Libero, in secondo luogo, per il servizio alla creatività dello Spirito: occorre giungere a interpretare la vita dell’uomo che riceve il messaggio e il senso della Rivelazione che penetra questa sua vita assumendo nuovi significati. Si tratta in altre parole dell’inculturazione intesa come cammino di evangelizzazione autentica a cui il missionario deve attribuire un’attenzione tutta particolare fin dall’inizio del suo annuncio.

Una terza libertà sta nel far comprendere al missionario che la sua presenza in quel luogo, un giorno non sarà più né auspicata né auspicabile. Egli pertanto dovrà ritirarsi e andare altrove. Dovrà essere capace di dire a se stesso: «non sono indispensabile».

Il missionario, infine, deve essere testimone del Vangelo totale, sia storico che escatologico: due aspetti che dopo la venuta di Cristo sono tra loro indissolubili. Il missionario dovrà cioè essere formato a questo pensiero totale che rende giustizia sia alla verità della Rivelazione sia alle giuste attese del mondo. Nella sua formazione si dovrà consentirgli di approfondire il problema del rapporto del Regno con il mondo e la sua storia; sarà iniziato alla percezione della lotta per la giustizia nei problemi sociali, economici e politici come dimensione costitutiva della missione della Chiesa.

Il missionario, conclude Mellier, dovrà resistere al riflesso della paura, alla ricerca di sicurezze che minacciano sia gli individui sia i loro responsabili. Dovrà evitare di ripiegarsi sulla sua comunità cristiana ed essere piuttosto presente nei luoghi dell’angustia, della precarietà della vita, del pericolo. È la ragion d’essere del suo messaggio: il Regno può e deve venire in questi luoghi. Colui che annuncia ne è anche il servo ma se non lo è, chi lo sostituirà?

 

A.D.