UNA RELAZIONE D‘ATTUALITA’
L’ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE
Si moltiplicano oggi
metodi e approcci per un aiuto personalizzato, con la promessa di guarigione
interiore. Che cosa differenzia l’accompagnamento spirituale da altri approcci?
Qual è il suo rapporto con le ferite e la guarigione interiore?
L’ambito “spirituale” non si sottrae all’influsso
dell’immenso mercato consumistico che offre, senza sosta, sempre nuovi
prodotti. Le proposte, gli approcci e i metodi si moltiplicano rivendicando
efficacia e successo anche sul terreno specifico della guarigione delle ferite.
Davanti a questa profusione di mezzi, e in vista di un
autentico servizio alla persona, è importante avere chiari criteri per
discernere la specificità dei diversi approcci. Padre Frank Janin, un gesuita
belga, ha offerto in un recente articolo1 alcune linee guida che permettono di
comprendere gli aspetti peculiari dell’accompagnamento spirituale, tenendo
conto anche del rapporto che esso ha con le ferite e la loro guarigione.
UN TENTATIVO
DI DEFINIZIONE
Definire il più precisamente possibile in che cosa
consista l’accompagnamento spirituale permette di delimitare con esattezza il
suo raggio d’azione e di verificare se questa particolare relazione raggiunga
il suo scopo.
Padre Janin, forte di un’esperienza pluriennale in questo
campo, sceglie una definizione di accompagnamento spirituale piuttosto
restrittiva: «l’accompagnamento spirituale ha come scopo di aiutare
l’accompagnato a sviluppare una relazione personale cosciente e affettiva con
Dio». In ciò consiste il suo obiettivo essenziale. Niente di particolare, si
potrà dire, ma tale definizione permette di intuire subito che cosa non è
l’accompagnamento.
La constatazione empirica del gesuita belga è che spesso
molte persone cercano un aiuto che non si configura esattamente come
accompagnamento spirituale. Se chi accoglie la richiesta si adatta all’attesa
di chi chiede aiuto, l’accompagnamento spirituale diverrà di volta in volta un
incontro psicologico o psicospirituale – ciò che in inglese prende il nome di
counselling – o di preghiera d’ascolto, o d’insegnamento morale o teologico.
Chi accoglie richieste d’aiuto deve avere ben chiaro come
primo obiettivo di palesare quale tipo d’aiuto può e vuole fornire, al fine di
non ingenerare attese irrealistiche. È vero che, spesso, la persona chiede un
aiuto spirituale ma ha attese inconsce di trovare un sostegno psicologico, un
consigliere morale e teologico, una guida nel discernimento, un fratello nella
preghiera, ecc. Lasciar credere di poter essere tutto questo nello stesso tempo
è un’illusione. Paradossalmente si finirebbe per impedire alla persona di
ottenere l’aiuto specifico e competente di cui ha bisogno.
L’accompagnamento spirituale – afferma p. Janin – non ha
quindi come scopo di migliorare la vita morale di chi è accompagnato, né di
risolvere i suoi problemi, né di farlo progredire nella conoscenza teologica,
né di aiutarlo a fare delle scelte, a sentirsi bene o essere più felice… o guarito.
Lo scopo è essenzialmente la relazione con Dio. A partire da questa relazione
potranno trovare adeguato sviluppo anche una migliore vita morale, la soluzione
dei problemi, il fare buone scelte, crescere nella felicità, il buonumore, la
guarigione e tante altre conseguenze.
Quanto accade sovente nella pratica, purtroppo, è proprio
il contrario: ci si concentra sui problemi, sulla scelta da compiere, sul
desiderio di felicità per andare, solo in seguito, a Dio. Con la conseguenza
che non si va realmente a Dio, dal momento che egli non è più il soggetto
centrale della relazione d’accompagnamento. Questo ultimo, se vuol essere
veramente tale, deve porre un’attenzione primaria a Dio e alla sua relazione
con l’accompagnato e, viceversa, la relazione dell’accompagnato con Dio. Potrà
accadere che «lo sviluppo della relazione con Dio sia frenato o impedita da
difficoltà o sofferenze fisiche o psichiche a tal punto che bisognerà lavorare
specificamente nei campi della sofferenza e delle difficoltà, ma allora siamo
chiari e riconosciamo che stiamo uscendo dal campo di competenza tipico
dell’accompagnamento spirituale».
ACCOMPAGNARE
È AIUTARE…
Se l’accompagnamento spirituale si definisce come un
aiuto a sviluppare una relazione personale affettiva e cosciente con Dio, va da
sé che in questa relazione la figura dell’accompagnatore non si mette al posto
di, ma al servizio di chi chiede di essere accompagnato. Lo stesso termine
“accompagnatore” si mostra più adeguato di quello usato fino ad oggi di
“direttore”, che fa pensare a qualcuno che dirige il corso delle cose. Ma anche
il termine accompagnatore rivela il limite di evocare una prossimità eccessiva,
dannosa quanto una relazione in cui non c’è spazio per la reciprocità.
Sant’Ignazio di Loyola raccomanda al direttore degli
Esercizi spirituali di «lasciare che il Creatore agisca senza intermediari con
la sua creatura e la creatura con il suo Creatore e Signore» (ES 15). A un
certo punto della relazione – confida p. Janin – «io non accompagno più. Sono
il testimone di Dio che accompagna l’accompagnato e io contemplo questa
relazione. Si potrebbe dire che l’accompagnatore spirituale è un contemplatore
o semplicemente un contemplativo, chiamato ad aiutare, cioè a rendere più
facile, a facilitare lo svelamento, lo sviluppo di quanto è già presente. E
l’attenzione contemplativa, da parte dell’accompagnatore, deve essere rivolta
in primo luogo non all’accompagnato e ai suoi problemi, ma a Dio e al modo del
tutto personale e particolare con cui si rivela all’accompagnato. Non è il
“mio” Dio, cioè la mia immagine di Dio che deve guidare la relazione
d’accompagnamento, ma il Dio dell’altro».
…AIUTARE
A SVILUPPARE…
Chi accompagna spiritualmente una persona, non deve
creare o produrre nulla. Deve aiutare a sviluppare una relazione personale
cosciente e affettiva con Dio. Il presupposto di tale compito sta nella
convinzione che «Dio stabilisce con ogni creatura umana, senza eccezioni, una
vera relazione personale. Anche se la persona non lo sa, non lo percepisce
(coscienza) o non lo sente (affettività). Dio non si impone mai alla libertà
dell’uomo».
Nel rispetto della libertà individuale Dio potrà farsi
discreto e tenersi a distanza, ma ciò non significa affatto che egli abbandona
la relazione. Anche se una persona non parla di Dio o, al contrario, afferma di
non credere ciò non significa che Dio non ha una relazione con lei. Gli occhi
dell’accompagnatore attento possono contemplare i segni di questa relazione.
Ciò diviene un presupposto perché anche l’accompagnato impari a leggere tali
segni, entrando in una dimensione relazionale con Dio più personale e
maggiormente segnata dalla propria affettività.
Sviluppare una relazione personale, significa stabilire
una relazione tra un “io” e un “tu” personale, e non con un’idea o un’entità astratta,
sia essa una “forza” o una “energia”. Se agli inizi di un cammino spirituale la
persona può sperimentare anche in tali modi la presenza di Dio, proseguendo il
suo rapporto con Dio deve risultare sempre più segnato dal dialogo, evitando i
rischi del monologo tipici di una relazione impersonale.
Una relazione cosciente è una relazione in cui posso
nominare colui con cui sono in relazione: il Padre, il Figlio, lo Spirito
Santo, Maria vergine…? Non solo nominare, ma specificare le caratteristiche di
questa relazione. «Come per ogni relazione, la presa di coscienza si compie
dandole espressione verbale. L’assenza di parole è spesso un segno di debole
coscienza. Non crediamo troppo presto che l’accompagnato abbia raggiunto un
piano spirituale in cui non abbiano più importanza le parole».
Una relazione affettiva, infine, è una relazione in cui è
impegnata la propria affettività con tutti i colori dei sentimenti e delle
emozioni: gioia o tristezza, prossimità o lontananza, calore o freddezza, pace
o inquietudine…
GUARIGIONE
DELLE FERITE?
A proposito di guarigione delle ferite è necessario
distinguere le ferite che sono d’ostacolo alla relazione con le ferite che non
solo non sono d’ostacolo ma, paradossalmente, possono essere d’aiuto nel
cammino di unione con Dio.
In un cammino spirituale non è affatto necessario guarire
da tutto, poiché la guarigione non è lo scopo della vita spirituale. Come
ricorda sant’Ignazio di Loyola nel Principio e fondamento, ogni realtà umana e
naturale – salute o malattia, vita lunga o breve, onore o disonore… – è
relativa di fronte all’unico scopo di amare, lodare e servire Dio (ES 23). Dal
punto di vista spirituale l’essenziale non è guarire ma incontrare Dio e vivere
alla sua presenza, riconosciuta e accolta. Basti ricordare, a questo proposito,
l’esperienza di s. Paolo che chiede di essere liberato dalla «spina nella
carne». Il Signore gli risponde: «ti basta la mia grazia, la mia potenza,
infatti, si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
Porre al centro il desiderio di guarigione può divenire
talvolta un ostacolo nel cammino spirituale, poiché distoglie dalla centralità
di Dio, che viene invocato soprattutto per la guarigione. Questa accentuazione
sulla guarigione riflette una delle caratteristiche più attuali della nostra
società: il culto della salute e la paura della morte e della sofferenza. Lo
dimostra la maggior capacità d’attrazione di corsi che promettono la guarigione
rispetto a quelli che propongono un’esperienza di Dio. «Nel quadro
dell’accompagnamento spirituale si tratterà di ascoltare la domanda e la
sofferenza che vi è sottesa, ma soprattutto di invitare l’accompagnato a
mettere nelle mani di Dio la sua preoccupazione, il suo desiderio di guarigione
e delicatamente, progressivamente, centrarsi su di lui così come la persona lo
percepisce, lo sente in quel momento». Man mano che la relazione si stabilisce
e la persona entra in una relazione sempre più intima con Dio, si potrà
assistere a una trasformazione che talvolta lascia sbalorditi.
Quando la persona incontra veramente Dio fa l’esperienza
di un amore incondizionato. Si sente amata così com’è, con tutte le sue luci e
ombre, i suoi aspetti sani e feriti, e non sente il bisogno di essere diversa
per poter essere amata. Non bisogna essere speciali per essere amati da Dio, e
neppure per poter amare lui. Se avviene tale incontro autentico, si assiste a
una guarigione diversa da quella che la persona si attendeva. Ciò che cambia e
“guarisce” è l’immagine di se stessi e di Dio, per cui si può essere – anzi, si
ha il diritto di essere – anche feriti, perché Dio non chiede di cambiare per
poterci amare. «La vera guarigione che Dio desidera offrirci e ci offre sempre
è di aiutarci ad accettare di riceverlo così come siamo e non come sogniamo di
essere. Molte guarigioni avvengono allora, ma non sono più cercate per se
stesse, poiché Dio solo è cercato per se stesso. Esse avvengono in
sovrabbondanza…».
GUARIRE
L’IMMAGINE DI DIO
Uno dei più importanti obiettivi dell’accompagnamento
spirituale consiste nella guarigione delle immagini di Dio. L’immagine che
abbiamo di Dio condiziona tutto il resto: la nostra preghiera, la nostra vita
morale, ecc. Si tratta del passaggio da un’immagine ricevuta, in modo più o
meno consapevole, a un’immagine personale e vissuta.
Non conta tanto quanto una persona dice su Dio, ma conta
come uno vive realmente. Si può sapere o dire che “Dio è amore”, ma vivere una
relazione con un Dio iroso. È il Dio dell’interiorità e non quello della testa
di cui bisogna aiutare la persona a prendere coscienza affettivamente. E si
sradica una falsa immagine di Dio soltanto confrontandosi con essa, prendendosi
il coraggio di starci davanti e di dirla a chi accompagna nel cammino.
La contemplazione concreta, affettiva di Cristo, immagine
perfetta di Dio è un punto essenziale di confronto, in grado di guarire le
immagini di Dio. Nella consapevolezza che questo genere di purificazione è un
obiettivo e una fatica permanente. «Imparare una vera preghiera personale che
sia un vero incontro con Dio e non solo delle riflessioni su Dio è di estrema
importanza perché si realizzi una vera assimilazione personale
dell’insegnamento spirituale ricevuto».
Spesso nei noviziati e nei seminari – annota p. Janin – i
formatori sono preoccupati di dare una struttura ai giovani: un orario che
articoli i tempi della preghiera, del lavoro, dello studio, dei servizi, del
gioco. Questa “impalcatura” è necessaria, ma il lavoro della formazione
consiste nel far sì che a poco a poco questa impalcatura si interiorizzi per
divenire una “colonna vertebrale”. Così il giovane potrà passare dal
conformismo all’identificazione per giungere all’integrazione. Bisogna che la
persona non creda che la vita cristiana sia fatta di pratiche, gesti e riti da
compiere alla perfezione per poter essere davvero cristiani.
«L’accompagnamento spirituale che aiuta a centrarsi su
Dio aiuterà a riordinare i “mezzi” in funzione del “fine”. Dio è colui che si
cerca. È in funzione di lui che le pratiche della fede acquistano il loro vero
senso». La questione non sta tanto nel “che cosa posso fare per Dio”, ma nel “
che cosa vuole il Signore che io faccia”.
Il più grande pericolo per l’accompagnatore spirituale è
di prender il posto di Dio, di pretendere di sapere meglio di lui che cosa può
aiutare, salvare, guarire l’altro. Egli dovrebbe sempre chiedersi se lascia che
sia sempre Dio il conduttore dell’incontro. L’arte dell’accompagnatore –
conclude p. Janin – consiste nel cercare di essere nel “ritmo” di Dio senza
anticiparlo, senza precederlo, affinché si costruisca questa relazione unica
che Egli, come creatore, vuole avere con la sua creatura.
E. B
1 JANIN F., «Spécificité de l’accompagnement spirituel.
Blessure et guérison», in Vies consacrées, 4/2004, pp. 241-253.