TESTO FINALE DEL CONGRESSO SULLA VC
FONDAMENTO E FUTURO DELLA VC
Il testo finale
rispecchia l’impostazione dello strumento di lavoro. Accanto ai blocchi da
rimuovere, i tanti germi di novità. Tante strategie per accorgersi, alla fine,
che il futuro della vita consacrata è già tutto scritto nel suo fondamento,
Gesù Cristo.
«La celebrazione del congresso è terminata, ma non sono
finite le sue implicazioni e le sue esigenze. È responsabilità di tutti – UISG,
USG, conferenze nazionali di religiose e religiosi, comunità e persone
consacrate – tradurle in atteggiamenti, iniziative, decisioni, progetti. Un
modo di intendere e di vivere la vita consacrata che ha dato frutti abbondanti
in passato, sta cedendo il passo a un altro modo più in sintonia con quello che
ora ci chiede lo Spirito. Non abbiamo soltanto una storia gloriosa da ricordare,
come si legge in Vita consecrata, ma abbiamo una grande storia da costruire!
Volgiamo lo sguardo verso il futuro, nel quale lo Spirito ci proietta per fare
ancora grandi cose!».
Con queste parole si chiude il testo finale del recente
congresso internazionale sulla vita consacrata (Testimoni n. 21/2004). È un
testo che ripropone in sostanza lo schema dello strumento di lavoro sul quale
si era aperto un ampio dibattito in preparazione del congresso stesso.
Dopo una messa a punto della situazione attuale della
vita consacrata, nelle sue ombre e nelle sue luci, nella società e nella
Chiesa, e dopo lo sforzo di cogliere i germi di novità che, nonostante tutto,
sotto l’azione dello Spirito non mancano neanche oggi, i consacrati vengono
sollecitati a lasciarsi illuminare dall’esempio della samaritana nella sua
“passione per Cristo” e del buon samaritano nella sua “passione per l’umanità”.
Dovrebbe diventare così più facile incamminarsi con convinzione e con coraggio
verso una nuova prassi di vita consacrata.
La redazione di questo testo finale è stata fatta da un
gruppo di esperti invitati al congresso con il compito specifico di “ascoltare”
quanto veniva detto in assemblea e nei gruppi di studio. Dall’ascolto si è poi
passati alla redazione di un testo, non sottoposto all’approvazione
dell’assemblea, un testo che conserva tutta e solo l’autorevolezza di quanti lo
hanno redatto e nel quale la presidenza si è poi pienamente riconosciuta.
IL CRITERIO
EVANGELICO
Dopo aver ricordato la prospettiva fondamentale del
congresso, fare «quello che lo Spirito dice», viene subito chiarito l’aspetto
predominante di tutto il lavoro congressuale, vale a dire l’aspetto
esperienziale. Al centro, cioè, dell’attenzione dei congressisti c’era
l’esperienza concreta della vita consacrata «nei diversi contesti
socioculturali ed ecclesiali». Se questa attenzione al vissuto da una parte è
stato di fatto il punto di forza del congresso, dall’altra però ha evidenziato
anche l’estrema complessità di una sintesi conclusiva, stante appunto la grande
diversità di contestualizzazioni della vita consacrata nei tanti paesi e nei
tanti continenti anche visivamente rappresentati nell’incontro romano.
Il tentativo di trovare un punto di convergenza a
proposito della situazione attuale, nei suoi aspetti positivi e in quelli
problematici, il testo finale lo ha forse raggiunto là dove con estrema
chiarezza si afferma che l’umanità di oggi «si sente in molti aspetti ferita e
mezzo morta, esclusa e povera, senza famiglia, violentata e insicura, inferma e
affamata (come l’essere umano caduto lungo la strada), a causa della violenza,
le guerre e il terrorismo, della concentrazione del potere e l’arbitrarietà
ingiusta, del perverso sistema economico e dell’egoismo accaparratore (i
banditi)».
Oggi più che mai allora è urgente recuperare il criterio
evangelico che in tutta la sua intensità è possibile intravedere proprio nelle
icone della samaritana e del buon samaritano. Grazie a questo criterio è così
possibile «scoprire le ambiguità, i limiti, la precarietà, l’influsso del male
nel nostro mondo e in noi. Però ci fa vedere anche che passione e compassione
sono energie dello Spirito: esse danno senso alla nostra missione, animano la
nostra spiritualità e danno qualità alla nostra vita comunitaria».
In questa umanità ferita è allora tutto da inventare il
posto dei consacrati sia nella società che nella Chiesa. «Abbiamo sete di una
nuova tappa di “mutue relazioni” coi nostri pastori, con altri gruppi e
movimenti della Chiesa, animati dall’uguaglianza, dalla fraternità e “sororità”
e da una grande fiducia e apertura reciproca». Vivere la propria consacrazione
come dono di Dio per tutta la Chiesa, in una forma nuova e generosa, nel
riconoscimento dei diversi carismi e ministeri ecclesiali, è più spesso, però,
un programma di vita che non un dato di fatto già consolidato. Nella stessa
prospettiva va colto lo sforzo di comprendere la vita consacrata «più in là
delle frontiere» dei tanti attuali istituti esistenti, nel campo
dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso, della promozione umana, della
giustizia e della pace, dell’ecologia. I consacrati però si stanno accorgendo
che oggi non ha più senso camminare da soli: «Accogliamo quelle sorelle e quei
fratelli laici che avvertono il nostro carisma e le nostre fondatrici e i
nostri fondatori come loro propri, in modo che ci identifichiamo non solo come
ordine o congregazione, ma anche come famiglia con vita e missione condivisa».
Già questa attenzione all’ampliamento dei confini della
vita consacrata è un segno evidente di qualcosa di nuovo che «sta nascendo fra
di noi, mentre contemporaneamente altre realtà muoiono (tradizioni e stili
obsoleti, istituzioni moribonde). Ci colpisce l’agonia di quello che muore e ci
dà fiducia quello che nasce». Non mancano evidenti segni di novità: da una
sempre più diffusa riscoperta della centralità del vangelo, all’individuazione
di conseguenti, nuove, audaci e profetiche iniziative nell’annuncio di Gesù
Cristo attraverso l’inculturazione, il dialogo interreligioso e interconfessionale,
l’opzione per gli ultimi e gli esclusi, le nuove forme di comunicazione, una
nuova esigenza di comunione con la Chiesa locale, la riscoperta di una
spiritualità meno disincarnata e più inserita nella storia come testimone della
trascendenza e di quel mondo che “è già e non ancora”.
Con molto realismo si afferma che la passione per Cristo
e la passione per l’umanità è un traguardo, un cammino aperto sul futuro e non
un semplice punto di partenza. È un cammino che i consacrati sono però chiamati
a compiere mettendosi responsabilmente alla sequela del Maestro, lasciandosi
educare e configurare a sua immagine e somiglianza, introducendosi nel suo
mistero e nella sua missione (come la samaritana), trasformando la propria
passione in gesti di compassione (come il samaritano), riscattandosi dalle
proprie ambiguità e dalle proprie infedeltà davanti al potere, all’avere, al
sesso, integrando armoniosamente contemplazione e azione.
Quasi a voler memorizzare il nuovo che lo Spirito sta
facendo nascere tra i consacrati, nel testo troviamo l’indicazione di “sette
virtù per l’oggi”, suggerite e ricavate in qualche modo da quanto detto e
ascoltato all’interno dei gruppi di studio: discernimento evangelico e
autenticità, ospitalità e fraternità, non violenza e mitezza, libertà di
spirito, audacia e capacità creativa, tolleranza e dialogo, semplicità, cioè
saper dare valore alle risorse povere e piccole.
ASCOLTO
DEI POVERI
Non basta certo questo elenco di “virtù” per cogliere la
ricchezza dell’apporto dei gruppi di studio. In attesa di leggerne le sintesi
complete negli atti che dovrebbero essere approntati in tempi molto
ravvicinati, il testo finale ne anticipa però i punti più significativi, una
specie di monitoraggio «dei segni di vitalità o, al contrario, dei blocchi che
la vita consacrata sperimenta oggi».
Per poter ascoltare i poveri si impone con urgenza la
trasformazione strutturale sia della vita consacrata che delle grandi opere.
Strutture più semplici e leggere, comunità accoglienti e aperte non potranno
che facilitare una solidarietà compassionevole, una rete di giustizia” una
cultura di pace.
Questo “ascolto dei poveri” sarà tanto più favorito
quanto più gli istituti di vita consacrata sapranno inculturare il proprio
carisma nel pieno rispetto delle diverse tradizioni storiche, sociali e
religiose in cui operano. Poveri, culture e religioni costituiscono oggi un
triplice dialogo a cui la vita consacrata non potrà più assolutamente
sottrarsi. Non è possibile garantire il futuro della vita consacrata in un
contesto in cui il cristianesimo viene percepito come estraneo, come una
religione di importazione. Il dialogo interculturale dovrà sempre più diventare
non un hobby, ma una scelta, uno stile di vita.
A tutto questo potrà sicuramente contribuire una
interazione più responsabile, creativa e professionalmente qualificata con i
mezzi di comunicazione di massa. «Dobbiamo avere il coraggio di mostrarci come
siamo realmente, con i nostri valori e le nostre debolezze, e parlare una
lingua che la gente di oggi possa comprendere». È difficile partire dai poveri,
cambiare stile di vita, rivitalizzare le opere senza il primato della parola di
Dio, l’esercizio abituale della lectio divina, la sete di Dio. Solo allora si
avrà il coraggio di «modificare le nostre strutture interne e ripartire
dall’amore sponsale, radicale per Cristo».
Le conseguenze si ripercuoteranno inevitabilmente e in
positivo su una formazione umana più personalizzata, su uno stile critico di
pensiero, su una più insistita formazione al dialogo «che conduce alla
trasformazione personale, a guardare il mondo e la vita con uno sguardo di
fede», su una formazione permanente intesa come disposizione attiva e
intelligente della persona spirituale a imparare dalla vita, per tutta la vita.
Proprio sullo stile di vita sono stati soprattutto i
giovani in congresso a evidenziare la loro sete di vita comunitaria, a vedere
nella comunità stessa non solo un’espressione della missione ma soprattutto un
luogo di condivisione della fede e di relazioni profonde, un luogo aperto e
ospitale in cui la vita comunitaria sia sempre più umana e significativa anche
in prospettiva vocazionale.
L’ecclesiologia di comunione è un altro argomento sempre
più di casa anche tra i consacrati. Essere in comunione con la chiesa locale,
con gli altri istituti, con i laici è oggi un percorso obbligato. In congresso,
per la verità, si è insistito molto sulla comunione inter-congregazionale e con
i laici anche e soprattutto in vista di un consolidamento delle sempre più
numerose “famiglie” che stanno fiorendo attorno a tanti istituti religiosi.
Si è parlato molto meno di chiesa locale, un tema oggi
molto più sentito e ricorrente, ad esempio, in casa nostra, in Italia. Si è
cercato di porre rimedio, in qualche modo, prevedendo un apposito gruppo di studio.
Questa disattenzione, più che una risposta “alla pari” per il risaputo e
diffuso disinteresse di tante realtà delle chiese locali nei confronti della
vita consacrata, ha forse ragioni più profonde.
È un fatto che da sempre tante forme di vita consacrata
sono presenti in realtà apostoliche di frontiera, dove la chiesa locale
istituzionale fa fatica a trovare un suo spazio e dove spesso non pensa neanche
lontanamente di arrivarvi. Quante volte le risorse, non solo economiche e
strutturali, per far fronte a queste sfide sono più facilmente reperibili
all’interno di un istituto religioso o in un più aperto e convinto dialogo
inter-congregazionale che non in una struttura di Chiesa locale. Ciò non
toglie, come leggiamo nel testo finale, che anche da parte dei consacrati non
si rinunci mai ad «uno sforzo maggiore per armonizzare piani congregazionali e
piani pastorali diocesani».
Una grossa responsabilità in tal senso ricade sicuramente
su quanti, all’interno di un istituto, hanno compiti di responsabilità. A loro
compete in prima istanza sviluppare l’ecclesiologia di comunione, la fondazione
teologica dei rapporti tra religiosi e laici, la formazione ecclesiale dei
membri dei propri istituti, una più concreta condivisione sia della missione
della chiesa locale, sia delle esperienze tra le varie congregazioni, nonché
l’adeguamento di tutte le strutture in vista di un più effettivo dialogo e
comunione all’interno di tutte le componenti del popolo di Dio.
«È senza precedenti, afferma in conclusione il testo finale,
il fatto che donne e uomini della vita consacrata di tutto il mondo, di diversa
cultura e lingua, abbiano potuto dialogare, dibattere insieme e far progetti
per il presente e per il futuro della nostra vita e della nostra missione.
Perciò le prospettive offerte e le azioni proposte, hanno un valore del tutto
speciale. Desideriamo che l’evento di questo congresso, non solo nel suo
discernimento, ma anche nel suo metodo e nella sua proposta, venga visto come
un nuovo punto di partenza per la bella avventura della sequela di Gesù nel
nostro tempo».
Prevedere il futuro della vita consacrata era in qualche
modo il “sogno nel cassetto” di tanti congressisti, soprattutto superiori e
superiore generali, alle prese ogni giorno con i problemi dell’invecchiamento e
della penuria vocazionale nei propri istituti.
L’ansia di sopravvivenza potrebbe facilmente giocare
brutti scherzi. Potrebbe soprattutto annebbiare la mente nella ricerca di un
fondamento sicuro e solido su cui programmare il proprio futuro. È stato proprio
un trappista, Bernardo Olivera, a prendere, in qualche modo, “in contropiede” i
più quotati strateghi del futuro della vita consacrata. Commentando in
assemblea la relazione di Dolores Aleixandre, si è limitato a dire: «il futuro
della vita consacrata è nel suo fondamento», Gesù Cristo».
Angelo Arrighini