ANGLICANI E CATTOLICI

 

Qual è lo stato di salute del dialogo fra anglicani e cattolici, nell’orizzonte del postconcilio? Per coglierlo, mi pare si possa parlare di due momenti successivi, il primo dei quali prendeva le mosse dal Rapporto di Malta (1968) per chiudersi nel 1981 con la pubblicazione del rapporto finale di quella che – tecnicamente – si era autodefinita Commissione internazionale anglicana-romano cattolica (ARCIC I): temi trattati, la dottrina sull’eucaristia, il ministero e l’ordinazione e l’autorità nella chiesa, su cui si giunse ad un sostanziale accordo. A partire dall’anno successivo, su mandato di Giovanni Paolo II e dell’arcivescovo di Canterbury Robert Runcie, si diede vita ad ARCIC II, col compito di proseguire il lavoro intrapreso, di avviare a soluzione le permanenti differenze dottrinali, di verificare quanto ancora si frapponesse al riconoscimento reciproco dei ministeri e, infine, di indicare itinerari concreti in vista di una piena comunione. Nel corso del tempo, la commissione aveva sinora prodotto quattro documenti: La salvezza e la chiesa (1987), La chiesa come comunione (1991), Vivere in Cristo: la morale, la comunione e la chiesa (1994) e Il dono dell’autorità (1999). Nel 2001, infine, è stata costituta una Commissione internazionale cattolica-anglicana per l’unità e la missione (IARCCUM), struttura a livello episcopale che dovrebbe promuovere iniziative pratiche che sappiano esprimere il grado di fede condivisa dalle due confessioni cristiane.

Frattanto, però, l’approvazione dell’ordinazione femminile da parte della chiesa d’Inghilterra, nel 1992, era destinata a far riemergere i nodi irrisolti del problema relativo al riconoscimento dei ministeri: cosa che, com’è noto, è puntualmente avvenuta. Tanto che è apparsa importante la decisione del cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, di incontrare ufficialmente il canonico John L. Peterson, segretario generale del Consiglio consultivo anglicano, per discutere del futuro del dialogo cattolico-anglicano, il 25 novembre 2003: con un comunicato congiunto conclusivo che sprona a procedere nel cammino intrapreso, nonostante le evidenti difficoltà in atto.

Il 13 febbraio del 2004 si è svolto il Sinodo generale della chiesa d’Inghilterra, guidato dal nuovo primate Rowan Douglas Williams, che ha messo a fuoco le tesi de Il dono dell’autorità. Durante i lavori sinodali, si è sottolineato come fosse necessario qualche chiarimento sul ruolo del vescovo di Roma, nell’auspicio che i documenti ecumenici debbano «essere coerenti con la nostra eredità di fede»: un’espressione che testimoniava apertamente il timore, avvertito da una buona porzione del mondo anglicano, che quel testo rifletta molto più le dottrine cattoliche che quelle elaborate dalla chiesa inglese sin dal XVI secolo. Da parte sua, lo stesso Williams ha aggiunto che andrà ulteriormente esplorata la questione cruciale del rapporto fra chiesa locale e chiesa universale, tanto più alla luce delle forti polemiche suscitate dall’ordinazione, nello stato americano del New Hampshire, di un vescovo episcopaliano dichiaratamente gay, Gene Robinson, oltre che dalla decisione della diocesi canadese di New Westminster di benedire le unioni omosessuali. A tale proposito è stato creato di recente un nuovo organismo, la Eames Commission, con l’obiettivo di rendere più unitaria la Comunione anglicana, i cui risultati dovrebbero essere resi noti nel prossimo settembre (si noti che i tradizionali strumenti di unità, dall’arcivescovo di Canterbury alla Conferenza di Lambeth, dall’Assemblea dei primati al Consiglio consultivo anglicano, non sono stati in grado di risolvere la crisi perché chiamati a esercitare solo un’autorità morale e non un magistero dottrinale). È stata nel frangente approvata una mozione che chiede formalmente all’ARCIC di rimpolpare opportunamente i punti chiave del documento sopra citato, dando voce in particolare al nervosismo degli anglicani evangelical (corrente in grande ascesa anche all’interno di tale confessione), che non gradirebbero per nulla di esser trascinati ad accettare l’idea di un papa infallibile e un modello verticale di autorità. Mentre fra i presenti non è mancato chi ha ricordato il vulnus procurato dalla ben nota dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede guidata dal cardinal Joseph Ratzinger, la Dominus Iesus, del 2000, che «tratta gli anglicani come cittadini di serie B».

Come si vede, un panorama in notevole ebollizione, rispetto al quale varrà la pena di spendere qualche parola in più sulla personalità del primate Williams, già arcivescovo del Galles, nominato 104° arcivescovo di Canterbury e capo della Comunione anglicana (settanta milioni di fedeli) il 23 luglio del 2002. Già all’indomani delle dimissioni di Carey, attorno a lui si era creata parecchia curiosità: teologo di vaglia, a soli 36 anni già cattedratico a Oxford, autore non solo di testi teologici ma anche di svariate opere di spiritualità e di poesia, e dotato di una cultura laica vastissima; membro dal 1990 dell’Accademia Britannica e strenuo oppositore prima della politica inglese sull’Afghanistan, ed ora sull’Iraq. Durante l’intronizzazione, spiazzò i media (che l’avevano presentato fra l’altro come il teologo dei Simpson, alludendo alla sua passione per la celebre famiglia dei cartoons USA, e come un radicale politico, ironizzando persino sul suo aspetto fisico, in particolare sulla barba) offrendo un chiaro assaggio del proprio valore teologico e spirituale: «Il mio compito principale come prete e vescovo è celebrare Dio e ciò che Dio ha fatto in Gesù Cristo allora e continua a fare adesso… Devo imparare a parlare di Dio oggi, in questo contesto culturale, generalmente scettico verso la chiesa e il cristianesimo; parlare alla Comunione anglicana, che deve affrontare diverse sfide». Di fronte a lui, la consapevolezza di un panorama caldo, come si diceva, nel contesto del quale risulta tanto più significativo l’accordo sul documento firmato da anglicani e cattolici, annunciato da qualche mese come imminente, incentrato sulla figura di Maria.

Per chiudere. A fine marzo dell’anno scorso, fra il 26 e il 27, si è tenuto a Roma, presso la Pontificia Università Salesiana, un Simposio fra rappresentanti illustri anglicani, cattolici e luterani al fine di stilare insieme «Un bilancio dell’ecumenismo a 40 anni dall’Unitatis Redintegratio». Nell’occasione George Carey, fino al 2002 arcivescovo di Canterbury, ha sottolineato come questo sia un tempo profondamente difficile per tutti gli anglicani, segnato da vistose fratture interne che rischiano di mettere in discussione il loro stesso impegno a favore del dialogo ecumenico e tra le fedi. «Dobbiamo – ha concluso Carey – continuare a curare le ferite del passato. Siamo tutti nello stesso tempo eredi delle ricchezze del passato e eredi dei suoi errori e delle sue confusioni… Quarant’anni dopo, l’unità di tutti i cristiani rimane una necessità urgente; non per bisogni istituzionali, ma perché Dio la vuole e il mondo ne ha bisogno».

B. S.