ALCIDE DE GASPERI A 50 ANNI DALLA MORTE

UNA FEDE FATTA STORIA

 

Abituati come siamo alla testimonianza di santità che viene dai conventi, _ci stupisce la grande statura morale e spirituale di un personaggio come _De Gasperi, che ha saputo incarnare la fede cristiana nelle complesse realtà socio-politiche del suo tempo. Di De Gasperi dal 1992 è stata avviata la causa di beatificazione.

 

La notte del 19 agosto 1954 si spegneva a Sella di Valsugana Alcide De Gasperi.          _Da tempo malato, era venuto a morire nella silenziosa bellezza dei suoi monti, circondato dall’affetto della famiglia.

«Adesso – confidò in quei giorni alla figlia Maria Romana – ho fatto tutto ciò che era in mio potere, la mia coscienza è in pace. Vedi, il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita, poi, quando credi di essere necessario, indispensabile al tuo lavoro, ti toglie tutto, improvvisamente. Ti fa capire che sei soltanto utile, ti dice ora basta, puoi andare. E tu non vuoi, vorresti presentarti al di là con il tuo compito ben definito e preciso. La nostra piccola mente umana ha bisogno delle cose finite e non si rassegna a lasciare l’oggetto della propria passione incompiuto».

Mentre dunque la sua piccola barca si allontanava dalla riva, tutto stava lì a ricordargli che su quella riva aveva combattuto e pianto, lì aveva investito tutti i sogni, le passioni, gli amori di una vita.

Ma quando la morte arrivò, il suo sguardo era altrove. «Alcide, non mi dici niente!», invocava la moglie Francesca inginocchiata accanto al suo letto, tenendolo per mano. Gli videro sul volto lo sforzo di un ultimo sorriso. Racconta la figlia Maria Romana: «...guardando uno strano Cristo dai capelli rosati piagato nell’agonia, spirava ripetendo il nome di Gesù… Anche noi eravamo già lontani dal suo tempo, dimenticati; ci aveva abbracciato con lo sguardo senza una parola».

Se ne andava così, quasi schivo e silenzioso, come sempre era vissuto.

«De Gasperi – scrive Randolfo Pacciardi – era uno di quegli uomini che praticano il dovere silenzioso, che danno in intensità quello che tolgono in espressione, che esprimono la gioia senza rumore, il dolore con umiltà, talvolta col silenzio ma senza disperazione, senza trasformarlo in una specie di voluttà lamentosa».

 

UNA FEDE

SEMPLICE E TENACE

 

Anche la sua fede era così, semplice e schiva, fatta di gesti più che di parole, ma forte, schietta, tenace, come l’aveva ricevuta dalla gente delle sue valli.

«La fede e la condotta religiosa di De Gasperi – scrive Giulio Delugan – non è stata una bella facciata che nasconde il vuoto, come certe facciate di palazzi in città bombardate durante la guerra: non è stata un abito da cerimonia per certe solenni occasioni, o una luce tardiva sorta nel suo spirito solo negli ultimi anni, ma qualcosa di intimo, di profondo, di incarnato nella sua anima; di sostanziale e di genuino che ha informato, plasmato e guidato il suo spirito fin dai suoi giovani anni e l’ha poi accompagnato ispirandone parole e azioni per tutta la vita. La fede è stata la sua bussola e la sua lucerna costante, il valore sostanziale e supremo al quale egli ha subordinato tutti gli altri».

A cinquant’anni dalla morte, forse è giusto riprendere i fili di una testimonianza di vita cristiana che conserva ancora oggi intatto il suo valore.

 Lo faremo ripercorrendo le tappe della sua vita, aiutati dai ricordi, dalle testimonianze, dagli scritti dello statista amorosamente raccolti dalla figlia Maria Romana in alcuni volumi ora riproposti al pubblico in occasione, appunto, del cinquantennio dalla morte.1

«Ci sono molti – scrive De Gasperi – che nella politica fanno solo una piccola escursione come dilettanti e altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio senza importanza. Per me fin da ragazzo era la mia carriera, o meglio la mia missione».

A 17 anni, per la Federazione della società cattolica operaia, se ne andava tra gli emigrati del Vorarlberg a spiegare la Rerum novarum «fra difficoltà d’ogni specie – racconta lui – battendomi con socialisti ed anarchici, mietendo applausi e fischi, sorrisi di compassione, molte busse e una bronchite di tre settimane».

Era alto e magro – scrive Maria Romana – con occhi che passavano velocemente da una grande dolcezza all’azzurro freddo dell’acciaio.

Aveva scoperto che la «via» dei cattolici «s’era fatta tutta di spine, ma si chiamava la via del dovere».

Studente universitario a Vienna, finì nelle carceri asburgiche di Innsbruck in seguito a incidenti con studenti di lingua tedesca, e cominciò a esprimere le sue idee su La voce cattolica e Fede e lavoro. Neppure la fame e il freddo riuscirono a fermarlo. Per mantenersi agli studi dava qualche lezione di tedesco, e per mangiare, si adattò ad andare alla mensa dei frati minori. Eppure percorreva tutta Vienna, riunendo gruppi di studenti viennesi nelle birrerie per spiegare la Rerum novarum.

Una passione, la sua, per la giustizia sociale, che trovava il suo impulso, la sua radice proprio nella fede. «Perché – scrive – in noi sentiamo una vocazione verso una perfezione sociale che è la stessa vocazione del nostro spirito. Quello spirito che non ci ha messi in stato di servitù, ma in stato di adozione verso Dio, figli di Dio e fratelli di Cristo. Questo senso di fratellanza cristiana è quello che alimenta il nostro spirito di riforma… che anima il nostro sforzo in tutte le fatiche della vita».

Se negli ultimi anni mostrava di più la saggezza dello statista consumato, in quelli giovanili mise in campo tutte le sue qualità di combattente, quale fu poi per tutta la vita, forgiato alla scuola di un vescovo d’eccezione.

 

UN VESCOVO

PER AMICO

 

L’incontro con mons. Celestino Endrici, futuro vescovo _di Trento, avvenne nel 1904, in occasione di un convegno universitario. «Avere carattere, mostrare carattere, difendere il proprio carattere». Così lo udì parlare De Gasperi mentre, alto e quadrato, in piedi, sottolineava i concetti battendo sul tavolo. Fu l’inizio di una grande amicizia, destinata a durare negli anni e a maturare nella sofferenza di entrambi, che pagarono a caro prezzo la loro testimonianza cristiana.

«Dio arma ogni cristiano alla propria battaglia e ognuno deve guadagnarsi il proprio posto», scriveva De Gasperi in quegli anni. E ancora, mal sopportando il disimpegno di molti cattolici: «È ora che i cristiani stiano in piedi».

Teneva ben desto il dialogo interiore con Dio, e a lui offriva e dedicava ogni sua fatica.

«Perdonami, Signore, – scrive in un appunto – ma porto con me, nelle mie occupazioni, la tua preghiera, penetra tutta la mia attività, prega tu nel mio lavoro e in tutta la donazione di me stesso».

Fondato il Partito popolare trentino, si diede da fare intensamente per promuovere, attraverso cooperative, istituti di credito e altre iniziative sociali, le condizioni di vita della sua gente, specie dei contadini. Se il progetto e gli strumenti della sua azione politica e sociale erano rigorosamente laici, come è giusto che sia, le motivazioni profonde del suo agire venivano dall’anima, nascevano sempre dalla sua fede appassionata e creativa, che non si fermava e non si arrendeva mai.

Questo attivismo intenso, questa stessa passione li portò nel parlamento di Vienna, quando vi fu eletto, a difesa della sua gente.

 

LA TRAGEDIA

DELLA GUERRA

 

E presto esplose, con tutta la sua atrocità, la prima terribile guerra mondiale.

 «Il Trentino – racconta De Gasperi – con i comuni disciolti, le associazioni perquisite, i deputati internati o fuggiti, era scomparso e su quel cimitero c’era una scritta che diceva: prima zona di guerra».

Privato dell’immunità parlamentare, diffidato dalle autorità a ritornare nel Trentino, De Gasperi mise a rischio la sua personale incolumità fisica e andò ad assistere i suoi connazionali, condividendone povertà e umiliazioni, nel campo di concentramento di Pottendorf, dove erano stati fatti confluire gli italiani.

Quando, un anno dopo, a Vienna riprese l’attività parlamentare, si batté con altri deputati per l’abolizione degli internamenti, la protezione dei profughi e l’amnistia per i condannati politici.

E fu l’unico che in un impaurito e spettrale silenzio, che veniva anche dai banchi dei socialisti, ebbe il coraggio di protestare per l’esecuzione di Cesare Battisti. «Fu come una commemorazione lugubre di silenzio comandato dalla vergogna e dalla paura», annotò nei suoi appunti.

Anche il vescovo di Trento, mons. Endrici, venne arrestato e deportato. Di sentimenti profondamente italiani, non aveva potuto tacere di fronte all’oppressione del suo popolo. De Gasperi riuscì a incontrarlo nell’abbazia di Heiligenkrenz, dove era internato. Ci arrivò a piedi, camminando per alcune ore in mezzo ai boschi viennesi. Lo trovò mentre dinanzi a un leggio meditava sul capitolo primo de La città di Dio, dove Agostino spiega che «la divina Provvidenza suole emendare e trasformare con le guerre i costumi corrotti degli uomini e anche mettere a prova la vita giusta dei mortali, e cambiarla in una migliore o sostenerla ancora quaggiù sulla terra per utilità altrui».

E nelle parole di Agostino cercarono entrambi luce e conforto, alzando i loro sguardi sulle cose invisibili che la fede cristiana fa intravedere agli occhi del cuore.

Finita la guerra, aderì al Partito popolare di Sturzo e nel 1921 venne eletto deputato a Roma per il Trentino.

 Mentre già le nubi del fascismo si addensavano minacciose su una Italia ancora ignara e inconsapevole, Alcide De Gasperi si trovò a vivere la stagione appassionata dell’amore.

 

IL TEMPO

DELL’AMORE

 

Francesca Romani l’aveva conosciuta a Borgo di Valsugana, in casa di Pietro, fratello di lei, suo collaboratore e amico. Alta e bella, sportiva, vivace, anche se molto più giovane di lui era in sintonia profonda con i suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua fede.

Le lettere che le scrisse negli anni del fidanzamento, rubando il tempo alla sua impegnatissima vita parlamentare,2 mettono a nudo la profondità e la forza del suo sentimento d’amore. Vi ritroviamo la stessa totalità, la stessa passione che metteva nella politica. Ma, soprattutto, vi ritroviamo la stessa ispirazione, la stessa profonda radice che tutto guidava e orientava nella sua vita: la fede.

Anche qui, in queste righe a volte bellissime e piene di poesia, notiamo l’attitudine di De Gasperi ad andare al di là delle cose, a inserire tutto nella dimensione superiore e misteriosa, eterna della fede cristiana.

Se vuole stringere il corpo dell’amata, vuole però anche la compagnia della sua anima. Se la desidera come compagna di vita per condividere le cose, gli avvenimenti, le situazioni, questo non gli basta. La cerca e la vuole anche come compagna nel cammino verso Dio, come sorella nella fede.

 I brani che riportiamo si commentano da soli.

«Ti voglio libera compagna, amica di pari iniziativa e indipendenza, e nulla mi ripugna di più che il farti da maestro e di frugare nella tua coscienza… È l’amore che ci domina, ci unisce, ci fonde in uno. Io ho un grande temperamento fisico e un grande temperamento spirituale. Del primo tu senti la stretta, quando le mie braccia si chiudono attorno al tuo bel corpo, del secondo tu hai la sensazione quando ti guardo e quando ti parlo. Ma come t’abbandoni sicura al mio abbraccio, così sento che tu liberamente, da pari a pari, corrispondi al mio impulso spirituale e lo ricambi della tua bontà. Così, Francesca, non è vero?» (28/12/1921).

«Anche oggi in mezzo a un tumultuante spettacolo di fede, mentre i romani si riversavano verso il Vaticano a venerare il Papa morto3 il mio pensiero volava a te… Gli uomini che non hanno la stessa fede, come potranno misurare la stessa profondità di un amore che si prolunga oltre la morte? Per questo, Francesca mia, mi pare talvolta di prenderti robustamente per le ali del tuo spirito come talvolta afferro le tue braccia, e chiamarti a gran voce in mezzo alla folla delle piccole cose terrene, affinché ti slanci con la stessa sicurezza di volo, quale io desidero e forse ho l’illusione di raggiungere io stesso. In questo volo non posso rimanere separato da te e se io ti dovessi immaginare assente, mi parrebbe di essere dimezzato. Io sento che quando ti abbraccio sarebbe troppo limitata fortuna se stringessi il tuo bel corpo e non abbracciassi anche l’anima» (22/1/22).

«Francesca non voglio essere più solo innanzi a Lui. Non sono bigotto e forse nemmeno religioso come dovrei essere; ma la personalità del Cristo vivente mi trascina, mi soggioga, mi solleva come un fanciullo. Vieni, io ti voglio con me e che mi segua nella stessa attrazione, come verso un abisso di luce» (15/10/21).

«Destino? Non credo alle stelle, credo in Dio. Domani avrò un piccolo rendezvous e gli dirò di rinvigorirmi lo spirito e di farmi più buono, perché d’ora in avanti devo essere buono anche per te» (22/4/22)... «...con le mie attitudini posso, se vorrò, guadagnare di più: l’avrei potuto anche finora, ma mi sono tracciato norme di severo disinteresse, perché mi preme sovrattutto la valutazione morale e politica. ... Io sono tranquillo che tu condividerai con me le larghezze – se potranno venire – e le strettezze della vita e che in te troverò un sostegno per addolcire qualche preoccupazione che venisse, non un aculeo verso guadagni che potessero turbare la limpidezza della mia vita politica».

Si sposarono nel giugno del 1922. Lui aveva 41 anni, lei 27. Fu l’ultima pausa gioiosa prima degli anni della prova, gli anni cupi e dolorosi del fascismo.

 

L’ORA

DELLA PROVA

 

Gli avvenimenti precipitarono. Nel 1924 sostituì Sturzo, costretto all’esilio, nella direzione del partito. Poi l’assassinio di Matteotti, l’Aventino, la persecuzione. Nel 1925, all’ultimo Congresso del PPI, De Gasperi incitava i suoi a resistere richiamandosi ancora una volta alle radici cristiane del loro essere e operare politico.

«Cosa gioverebbe tutto il resto se a chi soffre ingiustizia e violenza non sapessimo ripetere la parola che deriva dal precetto essenziale del cristianesimo? Così con quale diritto ci vanteremmo d’ispirarci anche nella vita pubblica ai comandamenti di Cristo se nella presente situazione non sentissimo il dovere di levare la voce per l’amore, per la carità, per la giustizia? Il PPI se oggi tacesse e sfuggisse con formule equivoche al contrasto che è nella dottrina e nella pratica, avrebbe perduto per sempre i titoli della sua caratteristica. Noi vogliamo la pace e l’ordine, ma l’ordine che nasce dalla giustizia».

Ritiratosi in Trentino e minacciato dalle camicie nere, fu costretto per qualche tempo alla clandestinità. Vagava da una città all’altra dell’Italia finché nel 1927 non venne arrestato a Firenze con la moglie. Accusato di tentato espatrio, fu condannato a una ingente multa e a quattro anni di carcere. Scontò la pena prima nel carcere di Regina Coeli e poi presso la clinica Ciancarelli a Roma.

L’anno dopo fu scarcerato grazie all’intervento di mons. Endrici. Ma, costretto dal regime a rimanere a Roma, si ritrovò praticamente sul lastrico, senza alloggio, senza lavoro. Molti lo abbandonarono e gli negarono aiuto, per paura di ritorsioni da parte dei fascisti.

«L’ uomo non vive di solo pane – commentava amaramente in quei giorni – ma ogni volta che la persona De Gasperi vuol farsi valere, e pur nel solo cerchio degli amici, viene rigettata nel suo nulla. Che il Signore mi perdoni e mi aiuti!».

Nel 1929 riuscì ad ottenere un modesto impiego presso la Biblioteca Vaticana, dove rimase per 14 anni.

Furono anni di povertà, di sofferenza, di tenebre. Una prova terribile per il suo spirito.

Una lunga, dolorosissima notte.

«O Signore – scrive a mons. Delugan – quando mi manderai un raggio di sole? Dice il Savonarola nel commento al salmo In te Domine speravi che bisogna combattere le cose visibili con l’aiuto delle invisibili. Ma è roba da santi e non ci riesco. Quando passando per le vie mi accorgo di essere divenuto timor notis meis e che qui videbant me foras fugerunt a me mi sento davvero come un coccio da buttare nell’immondizia tamquam vas perditum.

Preghi per me – continua nella stessa lettera – perché diventi un po’ cristiano. Ah, era facile credere di esserlo, quando pareva agevole superare le difficoltà della vita. Ora ti voglio ragazzo mio! Non è, veda, che non capisca. Comprendo bene che la Provvidenza mi va distaccando dal corpo le squame del male, ma la debole natura sanguina e stride per il dolore come una lama arrugginita sotto la lima del fabbro…»

 

LE LETTERE

DALLA PRIGIONE

 

Le lettere che dal carcere inviò soprattutto alla moglie Francesca, ci raccontano in qualche modo la «notte» del suo spirito, la sofferenza profonda per essere stato condannato innocente, per essere costretto all’inattività e all’impotenza. Ci raccontano i suoi sensi di colpa per aver coinvolto le persone a lui care in quelle disgrazie, le pene e i sacrifici della detenzione, la nostalgia bruciante della famiglia e dei suoi monti, la preoccupazione che lo prendeva per una storia che sembrava intrisa di male. Ci raccontano le lotte di ogni giorno per elevare lo sguardo verso Dio, per «indurire» come lui dice, la sua fede.

«Talvolta, nella cella,… ho qualche momento di buio. Allora dico con Agostino: mio Dio, dove sei? Respiro in te un pochino quando l’anima mia si leva sopra di me nella voce dell’esultazione e della lode tra cantici celebranti la tua festa. Ma poi si contrista, cade giù di nuovo e torna nell’abisso. Gli è che il carcere lo sento come un’umiliazione che arroventa l’anima… il sentirsi reietto proprio in questa patria sospirata è troppo grave; e ne deriva un senso nostalgico di silenzio e di pace» _(20 maggio 1927).

La lettera del 31 maggio del 1927 è quella in cui racconta la delusione provata al momento della condanna. Era uscito «con la sicurezza dell’assoluzione». Avviandosi recitava tra sé: «Converti o Signore la mia cattività, come fa il torrente del deserto…»; «Di sopra – dice alla moglie – tu hai sentito e visto. Quando mi rimisero le manette, ti vidi afferrata alla balaustra e quasi mancare. Il colpo era troppo forte anche per te… Quando si rinchiuse su di me il silenzio tombale non piansi, perché ero impietrito… mi buttai sul letto, presi in mano il tuo rosario che s’era spezzato, come la mia speranza, ma non potei pregare. Mormoravo solo il nome di Dio; oh, ma non mormoravo contro di Lui!… Perché il Signore mi ha lasciato colpire così?... Dio mio, com’è difficile trovare le ragioni ontologiche del dolore!.. io sono un granello rimesso dalla sua mano potente nel vortice del mondo, un sassolino con cui impasta il suo edificio. Qual vortice, quale edificio? Non lo so, ma Dio ha un disegno imperscrutabile innanzi al quale m’inchino adorando».

«Un giorno – scrive sempre alla moglie Francesca – con uno spillo di sicurezza ch’era sfuggito per miracolo alle infinite perquisizioni corporali, avevo inciso sulla bianca parete della cella in lettere maiuscole così: Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur. E in un altro cantuccio avevo cominciato a incidere l’altra beatitudine: Beati quelli che hanno sete di giustizia. Ma la guardia attraverso lo spioncino mi aveva visto ed era corsa a denunciarmi. Il sottocapo fu generoso e si accontentò di obbligarmi a raschiare la parete col manico del cucchiaio di legno. Ma non si raschiano dal cuore, quando ci sono incise fin dall’adolescenza e quando le ricordavo, anche in prigione, non era tanto come personale conforto quanto come il riassunto di un programma del quale era intessuta la vita, programma che mi aveva imposto di lavorare per l’elevazione degli umili e per la giustizia e per i diritti – diritti relativi lo so – popolari» (6 agosto 1927).

«La vera preghiera è quella che si rimette completamente alla sua volontà ed è vero anche che nelle Beatitudini a chi soffre per la giustizia egli promette il regno dei cieli. Noi ci inganniamo, perché teniamo troppo basso l’obiettivo e troppo angusta la prospettiva. Non finisce la vita quaggiù, essa non è che un passaggio alla vera vita. Vero però ancora che a Giobbe egli ridonò ogni prosperità materiale… Imparai sempre a cantare Regina coeli laetare, alleluia: eppure oggi Regina Coeli è per me nome di amarezza. In paradiso, secondo Dante si canta: Regina Coeli, cantando sì dolce! Eppure qui il canto mi si ammorba nella gola. Ma coraggio, miei cari, verrà giorno in cui canteremo in letizia ed io confido ancora, per la sua bontà, non molto lontano» (3 giugno 1927).

«Io faccio ogni giorno la scuola di indurimento e di adattamento. Mi sforzo cioè a eguagliare la mia volontà a quella di Dio… Ma è difficile, e quando mi pare di aver fatto dei progressi, un urto mi offende sul vivo e mi respinge un bel tratto indietro. Certe cose è più facile predicarle che farle. Tuttavia bisogna tentare e ritentare… Guai a pensare agli uomini. Di fronte ad essi non posso né umiliarmi né giustificarmi. Umiliarmi vorrebbe dire riconoscere giusto l’ingiusto, giustificarmi vorrebbe dire protestare. Onde non posso cercare la pace che in Dio» (17 giugno 1927).

«No, non sono un martire – scrive a Giovanni Ciccolini – ma forse posso concederti senza iattanza, d’essere un confessore delle nostre idee. Le ho confessate e ancora confesso nel tempo del pericolo, onde mi diventano più care e più sacre, come un tesoro che si porta in salvo lungo il margine di un abisso. Sono l’unica ricchezza che mi rimane e la rendo più fine e più cristallina al fuoco purificatore del sacrificio… Da un pezzo non sento più gli inni trionfanti della Chiesa accompagnati dall’organo, ma rinchiuso nell’ombra a cantare, anzi a mormorare i canti davidici, solo una tenue arcaica armonia d’arpa e di timpano mi arriva al cuore. Talvolta mi sorprendo fra pastori e agnelli, nel Vecchio Testamento, come se il Messia fosse ancora invece che nella realtà, soltanto nel nostro sospiro. O amico caro dei giorni febbrili, ritorneranno mai i tempi delle opere?»

 

LA STAGIONE

DEI GOVERNI

 

Quei tempi ritornarono. Finita la guerra e caduto il fascismo, Alcide De Gasperi tornò alle sue responsabilità politiche. Fu presidente del Consiglio quasi ininterrottamente dal 1945 al 1953, segnando la storia della ricostruzione italiana. Tutti i problemi del dopoguerra passarono nelle sue mani: il referendum istituzionale, la firma del trattato di pace, la Costituente, il Patto atlantico, l’Unità europea, Trieste, le riforme. E lui vi portò, sempre, la ricchezza dei suoi sogni.

«Qualcuno – disse nel discorso al senato del 15-11-1950 – ha detto che la Federazione europea è un mito. Se volete che un mito ci sia, ditemi un po’ quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti tra stato e stato, l’avvenire della nostra Europa, l’avvenire del mondo, la sicurezza, la pace se non questo sforzo verso l’Unione? Volete il mito della dittatura, il mito della forza, il mito della propria bandiera sia pure accompagnato dall’eroismo? Ma noi allora creeremmo di nuovo quel conflitto che porta fatalmente alla guerra. Io vi dico che questo è mito di pace. Questa è la strada che dobbiamo seguire».

Aveva il senso delle sue radici: «Nel loro istinto oscuro, ancor prima che si faccia luce nei loro cuore, gli uomini portano già ciò che, secondo la parola di Cristo, Dio desidera da parte loro: ut unum sint». E sapeva anche, in un comizio sulla questione di Trieste, pregare così: «Signore, Tu che sai radunare le foglie sparse e ricostruire un albero dalle fronde stesse, tu potrai radunare anche le fronde sparse del popolo italiano e farle ricostruire in un’unica famiglia».

L’umiltà cristiana per lui era anche una virtù politica. Aveva forte il senso dei suoi limiti. In un congresso della DC romana nel giugno 1945, diceva testualmente: «Vi prego di fare un certo sforzo per superare il metodo della mitologia politica. Non ci sono uomini straordinari. Vi dirò di più, non ci sono uomini dentro il partito e fuori pari alla grandezza del problema che ci sta di fronte. Bisogna presentarsi dinanzi agli avvenimenti esteri e interni con l’umiltà di riconoscere che essi superano la nostra misura… Per risolvere i problemi vi sono vari metodi: quello della forza, quello dell’intrigo, quello dell’onestà. Sono un uomo che ha l’ambizione di essere onesto. Quel poco di intelligenza che ho la metto al servizio della verità… mi sento un cercatore, un uomo che va a ricercare i filoni della verità della quale abbiamo bisogno come l’acqua sorgente e viva delle fonti. Non voglio essere altro».

Dopo il successo delle elezioni del 1948, a Sergio Paronetto che, fra i tanti, si congratulava con lui, scrisse così. «Di una cosa sola vorrei vantarmi, di avere creduto nella coscienza morale e civile del popolo italiano. Ma.. anche questo non è vanto mio. Perché ho creduto? Perché sono figlio del popolo e partecipo alla sua tradizione di civiltà cristiana e sento lo stesso impegno categorico della sua coscienza. In noi confluisce la civiltà millenaria e attraverso la nostra voce parlano i morti di tutti i secoli. Mi inchino al soffio del loro spirito e chiedo perdono di essermi vantato».

«De Gasperi, che cos’hai? È la fortuna o il fiuto che ti guida?» gli chiese un giorno un parlamentare mentre, dopo una difficile battaglia, vinta, raccoglieva in silenzio le sue carte. «Cosa vuoi? – rispose senza neppure alzare il capo – è il Signore».

Negli ultimi anni appariva a tutti come un uomo saggio e paziente. Che anche della saggezza e della pazienza aveva fatto delle virtù politiche. «Preghiamo Iddio – aveva scritto nei giorni bui del fascismo – perché faccia tornare tra gli uomini la saggezza. Poiché non sono le istituzioni che la creano, ma è la saggezza che migliora e rende efficaci le istituzioni».

«Una volta – è Randolfo Pacciardi che scrive – io avevo provocato una seduta tempestosa alla Camera cercando di tener testa ai comunisti che si erano scatenati contro di me. De Gasperi mi manifestava il suo consenso con la discrezione che metteva in queste manifestazioni, per esempio, versando l’acqua nel mio bicchiere, ma avendo cura nello stesso tempo di togliere penne, calamai, zuccheriere e altri ingredienti che, non si sa mai, avevo accumulato davanti a me con una certa cura e con non troppo pie intenzioni in caso di attacco. Alla fine del discorso, sedendomi, mi si dovevano leggere negli occhi pensieri non molto vezzosi. De Gasperi mi si avvicinò e mi disse: “Mi immagino quel che pensi. Ricordati, bada bene, ricordati che non è difficile montare a cavallo. Il più difficile è scendere”».

Una volta, nel giorno della vittoria, il 4 novembre, quale ministro della difesa lo stesso Pacciardi lo invitò ad andare in mezzo ai soldati, a mangiare il rancio in una caserma. «Vidi che gli avrebbe fatto piacere – racconta – ma poi rifletté un momento e declinando cortesemente l’invito disse: «Queste cose le faceva quell’altro».

«Tu sai quanto ho sofferto per il fascismo – confidò un giorno a Enrico Medi – Quando ero in carcere ogni giorno ho detto un Pater noster per Mussolini».

«L’essenza della democrazia – aggiunge Medi in un ricordo commosso dell’amico – è l’umiltà, che sa le proprie insufficienze, le labilità, la stanchezza, la capacità di errare e cerca di completarsi con l’aiuto degli altri, di tutti, senza nulla disprezzare. Un uomo umile non diventerà mai un dittatore: suo scopo è servire con dedizione, senza nulla pretendere». Così fu Alcide De Gasperi. La democrazia, più che proclamarla a parole, la testimoniava con la vita.

Nel vorticoso occuparsi delle cose politiche, aveva un filo segreto per ritrovare il suo Dio: gli appunti, le note, le lettere della figlia suora, sulle quali meditava appena poteva. Spesso le confidava i suoi crucci, le sue preoccupazioni e si raccomandava continuamente alle sue preghiere.

La crisi di governo del 1951 per lui fu particolarmente dura e dolorosa..«La crisi – le scriveva – lascia una scia di scontento, di risentimenti, di avversioni. L’irrequietudine dei gruppi parlamentari continua. Non riesco più a dominare gli istinti deteriori. Mi pare davvero di essere solo, abbandonato. Come mi ha fatto bene la tua assicurazione che Dio m’assiste. Pregalo, perché abbia misericordia di me e si faccia sentire, perché senza questa Presenza non posso avere coraggio, non so portare il grande peso, che forse temerariamente (ma non c’era altro da fare) ho preso sulle spalle».

Un’estate, dal letto in cui l’aveva relegato una flebite, le scriveva: «... il Signore permette che la mia presunzione di fare e provvedere sia limitata e per i contatti personali paralizzata da una puntura d’un insetto ignoto… è il Bene che vuol provare la mia insufficienza e piegare il mio orgoglio?... Sento bene che dovrei profittare di questo ritiro per parlare a Dio ma le voci degli uomini mi chiamano al loro servizio e non li servo in nome di Dio?... Prega il Signore che mi dia un più chiaro lume sulla sua volontà, che altra non vuol essere la mia!».

 

L’ORA

DEL TRAMONTO

 

Nel 1953 ebbe termine la stagione dei suoi governi. Qualcosa stava cambiando. Nel suo partito da tempo serpeggiavano le tentazioni verso un uso pragmatico e talora spregiudicato della mediazione politica, a scapito dei valori. Le divisioni interne, inoltre, erano il segno che il clima politico andava in qualche modo deteriorandosi.

 «Più amore, più fraternità, più pace!». Fu questo l’appello che rivolse in quella che per lui sarebbe stata l’ultima campagna elettorale, nel giugno del 1953. «Troppi predicarono l’odio, l’odio della demolizione l’odio della vendetta. Il popolo italiano ha bisogno di fraternità e di amore».

Consapevole che la sua stagione politica si avviava al tramonto, in quell’occasione dichiarò ai giornalisti che lo interrogavano sul futuro. «Gli organismi possono mutare, ma quello che non deve spegnersi mai è il lume della coscienza morale, qui è la responsabilità innanzi alla storia, innanzi ai padri che ce l’hanno tramandata, innanzi a Dio che ci giudica».

Si sentiva isolato e stanco. Il suo intervento al Consiglio nazionale della DC nel giugno del 1954, ebbe il sapore di un testamento e anche di una profezia: «Se siamo divisi o indeboliti dalle nostre discordie diventiamo schiavi della situazione parlamentare. Non sarà più il nostro pensiero programmatico che creerà congruenze e convergenze, ma sarà la situazione parlamentare, la ferrea necessità di avere un governo che ci costringerà a qualunque coalizione, senza condizione… con ciò anche il partito rischia di perdere la fiamma dei suoi ideali, né può alimentare la speranza dei giovani; e diventa una macchina elettorale che arrugginisce. Noi siamo sull’orlo di questo destino».

Anche i rapporti col Vaticano erano freddi. Soffriva di questo, tuttavia, anche in quell’occasione rivendicò la laicità del suo agire politico: «Il credente – disse – agisce come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione ed impegna se stesso, la sua categoria, la sua classe, il suo partito, non la sua Chiesa».

Anche negli ultimi giorni di vita aveva inseguito i suoi sogni. Sognava l’Europa, l’Europa dei popoli, libera e democratica. La figlia ricorda la concitazione dei giorni della Conferenza di Bruxelles, alla quale non poteva partecipare. Ricorda una drammatica telefonata a Scelba, le lacrime che gli rigarono il volto, e le sue parole sconsolate: «Se l’Unione europea non la si fa oggi, la si dovrà fare inevitabilmente fra qualche lustro, ma che cosa passerà tra oggi e quel giorno Dio solo lo sa». Anche queste parole avevano il sapore di una profezia.

«Come concepire un’Europa senza tener conto del cristianesimo, – aveva detto a una tavola rotonda l’anno precedente – ignorando il suo insegnamento fraterno, sociale, unitario? Nel corso della sua storia, l’Europa è ben stata cristiana; come l’India, la Cina, il vicino Oriente sono quelli che sono stati sul piano religioso. Come escludere dall’Europa il cristianesimo? So bene che anche il libero pensiero è europeo. Ma chi di noi ha mai sognato di proscriverlo nell’Europa libera che vogliamo edificare? Soprattutto il cristianesimo è attivo, perennemente attivo, nei suoi effetti morali e sociali. Esso si realizza nel diritto e nell’azione sociale. Il suo rispetto per il libero sviluppo della persona umana, il suo amore della tolleranza e della fraternità si traducono nella sua opera di giustizia distributiva sul piano sociale, di pace sul piano internazionale».

Era un uomo che sapeva guardare lontano. Un santo? Sì, se i santi sono quelli che intridono di fede la loro vita e le loro azioni. Se lo fanno silenziosamente, nelle situazioni di vita in cui si trovano. Se non sempre, anzi quasi mai hanno il dono dei miracoli, eppure un miracolo lo fanno, sempre: mostrano a tutti quelli che li incontrano il volto misericordioso e bello di Gesù.

Alcide De Gasperi ci lascia una testimonianza straordinaria di vita cristiana vissuta nella storia.

 In un momento in cui la Chiesa italiana invita i cattolici a partecipare più attivamente alla vita politica e sente il bisogno di offrire a tutti un compendio dettagliato della dottrina sociale della Chiesa, non possiamo non constatare con amarezza che questa, di fatto, è come una confessione di assenza, o per lo meno di insignificanza. De Gasperi ha portato nella difficile e tormentata storia dei suoi tempi la passione di una fede tenace a autentica. Ci auguriamo che il suo esempio possa aiutare i cattolici dei nostri giorni a ritrovare, con l’impegno, il senso profondo e il coraggio delle loro “radici”.

Liliana Lattanzi

 

1 DE GASPERI M.R., Mio caro padre, Marietti 2003; DE GASPERI A., Lettere dalla prigione, Marietti 2003; DE GASPERI M.R., De Gasperi, ritratto di uno statista, Oscar Mondadori 2004. Tutti i riferimenti e le citazioni riprodotti nel presente articolo sono tratti dai volumi sopra citati.

2 DE GASPERI A., Cara Francesca. Lettere, Morcelliana 1999.

3 Benedetto XV.