OPZIONE CHE ABBRACCIA TUTTO IL VISSUTO(12)

LA VERGINITÀ IN VITA E IN MORTE

 

La verginità non è solo voto di castità, ma abbraccia tutta la vita: è un modo di essere e di vivere, e anche di andare incontro alla morte che in qualche modo è attesa e preparata, come l’incontro con l’Amato, come la celebrazione delle nozze eterne con colui che il cuore ha desiderato sempre più.

 

La verginità non si riduce al voto di castità. Specie se inteso come qualcosa di rigidamente delimitato a un’area precisa della propria personalità, scandito da una serie di regole, di limiti da non oltrepassare e rinunce da adottare.

La verginità è un modo d’essere e di vivere. Lo è perché è relazionata col modo d’amare, dunque con tutto l’uomo.

Se dunque la sessualità è in relazione con tutte le diverse aree della personalità, un’opzione verginale di vita, avendo a che fare con la sessualità (è sessualità pasquale), si riflette in tutti gli angoli del vissuto, si diffonde ovunque nella persona, ha bisogno di formazione permanente.

È importante, allora, specificare questo modo di vivere nella verginità, per esser coerenti ed evitare il rischio opposto, per nulla infrequente e rovinoso dal punto di vista della testimonianza.

 

L’INGANNO

DELLA COMPENSAZIONE

 

Quando la verginità è solo un voto che chiede alcune rinunce, e non s’estende a tutta la vita e a tutta la persona, è come gestito e “supportato” solo da una parte dell’organismo psicologico-spirituale, non dalla sua totalità.

Potrà, allora, scattare una sorta di conflitto interno, per cui il cuore, ad es, non segue le direttive della ragione: sarà facile accorgersene, anche perché questo, prima o poi, creerà un contrasto insostenibile nella persona, una dicotomia pericolosa.

Oppure potrà scattare un altro meccanismo, quello della compensazione, attraverso il quale la rinuncia o il vuoto creato dal voto, vengono in qualche modo recuperati in altri settori di vita, con comportamenti di solito ambigui ed eccessivi o cercando surrogati. Ma senza che la persona si renda conto del trucco. Classico il caso del celibe che compensa la mancanza d’una certa relazione accumulando cose o moltiplicando contatti o gratificando certa curiosità, o buttandosi senza controllo nell’attività o nel mangiare o nel bere; o che diventa rigido e autoritario per dire a se stesso che lui non ha bisogno di nessuno accanto; o che sviluppa in varie forme (dalla masturbazione alla cura eccessiva del proprio corpo) un’attenzione centrata su di sé (il tipico narcisismo del reverendo).

In tali casi non solo la testimonianza è contraddetta, ma viene dato il messaggio, molto negativo, che la verginità non è appagante né sana, crea uno scompenso in chi la sceglie, che deve ricorrere, poveretto, a delle compensazioni per sopravvivere e… conservare la castità. In effetti, poi, non dimentichiamo che la stessa compensazione è di per sé qualcosa d’illusorio e contraddittorio, “è un piatto di frutta finta” che crea “sazietà finta”,1 se non droga che gonfia e basta, perché consente solo una gratificazione di ripiego e di scarsa qualità; lascia l’amaro in bocca o un retrogusto doloroso, poiché è come lo sfogo d’un disperato che è costretto ad accontentarsi di molto meno (e per questo molte volte esagera).

Inoltre, lo stratagemma della compensazione finisce per render ancor più insicura l’osservanza della verginità stessa, perché la lega e condiziona alla gratificazione in un altro settore di personalità; per cui, se cessa quella gratificazione (ad es. un fallimento nel lavoro), o quell’atteggiamento non è più appagante (come quando non basta più gratificare gli occhi), anche il voto è in pericolo. Di solito accade proprio così, e allora o aumenta la dose di gratificazione o è crisi vera e propria. Ecco perché normalmente il vergine… compensato è un triste e finto vergine.

Vediamo, invece, cosa avviene quando la verginità diventa stile di vita generale del consacrato, estendendosi idealmente a ogni suo gesto. Naturalmente prenderemo qui in considerazione solo alcuni aspetti. Come ogni cellula reca l’impronta dell’appartenenza sessuale, così ogni gesto del vergine dovrebbe esprimere verginità.

 

Preghiera vergine

 

È preghiera che esprime in varie forme la libertà del cuore e del rapporto con Dio. Ad esempio, è preghiera di chi non si sente protagonista dell’orazione, ma accoglie come un dono il poter stare dinanzi a Dio, e gode di lasciarsi guardare da lui, gode di questo sguardo che l’avvolge, come ombra che lo cinge e rende fecondo (cf. Lc 1,35), non per generare e moltiplicare parole (=atteggiamento “impuro” di sottile pressione sull’altro), ma per lasciare che la Parola fecondi il piccolo grembo della sua vita vergine.

O, ancor prima, stile vergine orante è stile di chi, quando legge la Parola, in realtà si lascia leggere dalla Parola stessa;2 non la domina, non le fa violenza alcuna, nemmeno per capirla, ma le fa spazio perché si depositi lentamente nel suo cuore vergine, perché metta casa e radici nella sua dimora, la conserva come un tesoro… Come Maria. Infatti è preghiera mariana, di attesa e pazienza, di fiducia e intimità, di abbandono e speranza.

Ma il vergine per il Regno conosce anche l’orazione sofferta, sa bene che in certi momenti la fedeltà alla sua promessa di celibato è stata sorretta solo dalla preghiera, e questa è stata come una lotta orante. è convinto, in particolare il prete celibe, che la questione del celibato riguarda “una parte della teologia che si acquista in ginocchio nella preghiera”.3

Verginità vuol dire tempo dedicato al Signore, in quantità e soprattutto in qualità; è tempo che celebra la centralità di Dio nella vita umana, il gusto di stare con l’amato del proprio cuore.

 

La libertà del vergine

 

Verginità è scoprire la dignità dell’uomo, e porre tale dignità non all’esterno, ma all’interno dell’uomo, non nelle cose che si possiedono, ma nella capacità di relazionarsi con gli altri (specie con l’Altro), nell’amore che si riceve e si dà. No, dunque, a quelle forme di possesso che sono forma sottile d’impurità e violenza a se stessi, alle cose e a chi ne viene privato; no all’accumulo, perché indicherebbe il vuoto divenuto insopportabile del cuore e la pretesa di negarlo riempiendolo con la quantità di oggetti, che poi non bastano mai; con relativo affanno e frustrazione e maledizione.

Il rapporto con Dio riempie e appaga, rende liberi e leggeri, fa gustare sobrietà e bellezza, spegne l’inquietudine legata al che mangerò, come mi vestirò… e consente di relazionarsi con le cose e i beni di questo mondo con rispetto e libertà.

Povertà che arricchisce

La verginità è povertà, è rinuncia a qualcosa di molto bello, a una relazione importante, crea un vuoto o una povertà realissima: inutile nasconderselo. Per questo c’è una naturale affinità tra vergine e chi è afflitto da varie povertà umane, come un’intesa tra poveri. Il vergine, in ­particolare, è povero coi poveri d’amore,4 con chi è solo o per vari motivi è condannato alla solitudine.5 Lui la solitudine l’ha scelta anche per ­questo, perché altri siano meno soli. E scegliendola ha sperimentato e ­sofferto la propria povertà d’amore, vi ha riconosciuto quella ferita radicale o vuoto d’amore che è in tutti e in qualcuno in particolare, ma l’ha trovata alla fine colma d’amore. Per ­questo può ora arricchire l’altro con la sua povertà (come il Figlio, cf. 2Cor_8,9).

In concreto questo vergine è povero, non va in cerca di cose grandi proprio perché… non ne ha bisogno o perché, come il bimbo svezzato (cf. Sal 131), è certo dell’amore ricevuto e sereno “in braccio a Dio; per questo sta accanto a chi soffre la propria povertà ed è tentato dalla disperazione…

Al contrario, un vergine che se la fa coi potenti, o che mira ai primi posti e cerca fama e visibilità… è proprio un povero celibe, che ha tradito la sua verginità.

 

Gioia vergine

 

Il vergine fa l’esperienza dell’amore pieno, ha scoperto in particolare che non esiste la solitudine perché in fondo a essa ha trovato l’Emanuele, colui che è sempre con noi; per questo è felice, come racconta p. Latourelle: «Signore, durante le lunghe ore di apparente solitudine, nella camera, di fronte al muro, davanti ai miei libri, e alla pagina bianca che a fatica cerco di riempire, so di non essere solo, ma che siamo in due. So che sei con me, intensamente presente, che mi avvolgi nel tuo amore, e che leggi, dietro alle mie spalle, quello che abbozzo a proposito di te e sono felice».6 Il vergine offre con discrezione quest’esperienza e la felicità che ne sgorga: è lì per questo, per far contenti gli altri, versando il vino della gioia. E il celibato è questo vino nuovo, segno inedito e forte, che dà la certezza d’un amore-per-sempre agli incerti affetti terreni.

E allora basta con quelle autocom­miserazioni (melo)drammatiche sulla solitudine del celibe, magari venate di sottile rimpianto per l’intimità perduta e malcelata invidia per chi se la può godere; ma attenzione pure a quella gioia un po’ artefatta, intesa quasi d’obbligo o di categoria, che alla fine non convince nessuno; per non dire di quell’allegria di gusto decisamente scadente, chiassosa e in fondo amara, del celibe che ha bisogno di ricorrere a trivialità per apparire disinibito intorno alla sessualità o fingere d’esser superiore al problema, finendo per suscitar più compassione che ilarità.

La gioia del vergine è… gioia vergine, non contaminata, determinata unicamente dalla certezza dell’amore, dunque pacata ma anche contagiosa, non limitata alla sensazione privata del proprio benessere, ma capace di godere del bene altrui, specie dell’amore che vede, senza invidia. Dice Rahner: «Solo il celibatario che è in grado di gioire per una giovane coppia ha compreso la sua vocazione».7 Il vergine non fa da padrone sulla fede altrui (altro segnale di possesso impuro), ma è il vero “collaboratore della gioia” (cf. 1Cor 1,24).

 

Obbedienza fraterna e amicizia vergine

 

Il vergine sa quant’è duro cercare Dio lungo i sentieri tortuosi del proprio mondo interiore, sa che è facile sbagliarsi quando c’è di mezzo il cuore, e allora non presume di sé, non fa da solo, ma si mette in ascolto della vita e degli altri, quell’ascolto ob-audiens verso tutti (non solo verso i superiori), che lo rende cercatore autentico in ogni persona ed evento d’ogni traccia dell’Eterno.

Se la verginità, poi, crea e ricrea la fraternità e porta per sua natura ad amare tutti intensamente in Dio, a esser amico di tutti, il vergine impara ad accogliere l’altro, qualsiasi altro, come la via lungo la quale Dio giunge a lui e lui giunge a Dio; per questo si dispone anche a obbedire a suo fratello. Se un’amicizia non è vissuta con questa disponibilità obbedienziale, non è amicizia vera, è qualcosa d’impuro. Se l’obbedienza non conduce a camminare insieme, da fratelli e amici, verso il Regno, è solo dipendenza o potere, ancora qualcosa d’impuro.

L’obbedienza fraterna è segno adulto dell’obbedienza evangelica, e frutto maturo della ricerca verginale di Dio!

 

Il vergine è un pellegrino

 

Abbiamo già detto che è il vergine è un pellegrino della relazione. Lo è perché deve annunciare a ogni terreno amante che ogni amore umano è penultimo, che lo sposo deve ancora venire, che tutti siamo in attesa, che non esiste affetto di creatura che possa appagare e riempire completamente…

Per questo il vergine “non s’attacca” a luoghi, ruoli, ambienti, titoli, cariche, promozioni, lustrini, persone… o a ciò che in qualche modo illude cuore e mente d’aver lì trovato quiete per sempre. Non consuma amori nascosti, traditori e adulterini. Mantiene il cuore libero e giovane, non l’appesantisce nelle crapule e orge di quanto lo rende schiavo, lo tiene a dieta intelligente,8 perché possa continuare ad andare ovunque per annunciare a chiunque che lo sposo… sta per venire, anzi è già venuto, lui l’ha incontrato…

 

La verginità è umiltà

 

Sappiamo quanto i Padri abbiano rimproverato certi/e vergini per la superbia con cui vivevano la loro scelta, quasi sentendosi superiori agli altri. è essenziale per esser vergini la consapevolezza della propria incapacità a vivere la verginità. Chi presume di sé e non ha problemi in quest’area, è lui stesso un problema, perché gli viene a mancare l’esperienza fondamentale attraverso cui la debolezza umana diventa luogo della grazia.

Quante volte tale esperienza, vissuta proprio nell’ambito dell’affettivi­tà-sessualità, non è diventata poi provvidenziale, abbattendo quella presunzione narcisista e lussuriosa che impediva di entrare nell’intimità con Dio e sperimentare la sua tenerezza. Quanti vergini sono diventati tali solo dopo avere sperimentato l’amarezza della colpa, solo dopo aver sofferto e accolto fino in fondo la loro fragilità e impotenza, scoprendo proprio in essa la realtà d’un amore inedito, più forte d’ogni debolezza… La verginità, non dimentichiamolo, è soprattutto esperienza d’amore sovrabbondante e immeritato, esperienza che molte volte accompagna e segue proprio l’esperienza della caduta.

Per questo il vergine è anche tipo mite e misericordioso, non alza la voce, non spezza una canna incrinata; ha il carisma della delicatezza verso chi sbaglia, specie se a sbagliare è un altro vergine.

 

Maranatha

 

Se la verginità abbraccia tutta la vita, è anche un modo d’andar incontro alla morte. Anzi, la verginità significa morte nei confronti d’un istinto che è il segno della vita, mentre fedele alla scelta verginale è solo chi “vive” la mortificazione ogni giorno.

Allora la morte non capita improvvisa e sinistra, ma in qualche modo è attesa e preparata, come l’incontro con l’Amato, come la celebrazione delle nozze eterne con colui che il cuore ha desiderato sempre più…

Il vergine “muore” quando tutta la sua vita e la sua persona, la sua carne e i suoi istinti, la sua sessualità e affettività…, tutto in lui non esprime più che una sola preghiera: “Maranatha, vieni, Signore Gesù!”.

 

Amedeo Cencini

 

1. Danieli M., Liberi per chi?, Bologna 1995, p. 41.

2. “Siano le tue Scritture per me come casta gioia”, prega Agostino, desideroso di essere “tra le tante pagine di fitto mistero come uno dei cervi che in quelle foreste si rifugiano e ristorano, spaziano e pascolano, si adagiano e ruminano” (Confessioni, XI, 2,3).

3. Rahner K., Lettera aperta sul celibato, Brescia 1967, p. 39. Il noto teologo continua dicendo: “Io spero che questa teologia sia ancora presente tra i preti”.

4. “L’ultima povertà dei poveri si chiama amore” (Fuschini F., Mea culpa, Milano 1990, p. 32).

5. “C’è chi vorrebbe sposarsi e non può. Ci sono le donne che hanno investito tutto nella speranza di un matrimonio, e invecchiano zitelle. Ci sono i vedovi, i separati, i divorziati senza colpa. Ci sono i malati, gli handicappati costretti a fare a meno del sesso. Gli omosessuali, i carcerati. Chi è legato a un partner malato o paralizzato, sessualmente inattivo. Tutti questi, se vogliono vivere da cristiani, sono obbligati alla castità, per di più non scelta, non voluta. Perché il prete dovrebbe identificarsi con gli sposati e non piuttosto con tutti questi altri? Dove va a finire l’”opzione preferenziale per i poveri”? Il matrimonio, l’amore di coppia, è pur sempre una ricchezza. Allora è la solita storia: i preti stanno dalla parte dei ricchi?” (Lettera alla redazione di un settimanale in seguito a un’inchiesta sul matrimonio dei sacerdoti, cit. in Bolla E.C., La castità questa sconosciuta, Torino 1992, p. 86).

6. Latourelle R., Signore Gesù, mostraci il tuo volto, Torino 2004. Simpatico l’aggancio col passato: “Come ai tempi del liceo, quando solo, con mia madre che sferruzzava, studiavo Omero e Virgilio, entrambi presenti, entrambi in silenzio e profondamente felici… Signore, tu ci sei sempre e io sono felice perché noi siamo insieme”.

7. Rahner, Lettera aperta, 22.

8. “Dio non ha dato il corpo perché faccia ostacolo col suo peso… Una carne più leggera risusciterà più presto” (Tertulliano, Il digiuno, 17, PL 2, 978).

 

Avvertenza

 

Con questa dodicesima scheda termina la serie di articoli sulla verginità di Amedeo Cencini. Tutto il materiale, riveduto e ampliato dallo stesso autore, sarà raccolto e pubblicato in un apposito volumetto dalle nostre edizioni dehoniane. L’uscita è prevista per la prossima primavera.