RADUNO DI FORMATORI CAMILLIANI

VOCAZIONI E CULTURE IN AFRICA OGGI

 

Appartenenza a una tribù, valore della vita, famiglia, voto di povertà: sono il realistico banco di prova delle vocazioni in Africa e Madagascar. Vi hanno riflettuto _in un recente raduno a Fianarantsoa i formatori camilliani.

 

Con un messaggio di rilevante spessore sapienziale p. Frank Monks, superiore generale dell’ordine di san Camillo de Lellis, ha commentato i lavori, ai quali ha presenziato, di un importante raduno del segretariato regionale per la formazione in Africa e Madagascar.

Il raduno ha avuto luogo nell’isola, a Fianarantsoa, dal 19 al 23 giugno 2004; ne leggiamo il messaggio del superiore, unitamente a una sintesi della riflessione avvenuta, in Camilliani-Camillians 3/2004,156-XVIII.

Hanno partecipato al raduno i rappresentanti dei sei paesi africani – Kenya, Tanzania, Uganda, Burkina Faso, Benin e Madagascar – nei quali i camilliani sono presenti con il loro specifico carisma. Un carisma – ha osservato p. Monks richiamando le esigenze della specifica identità dell’ordine camilliano – che «ha un taglio preciso e non ha bisogno di un Einstein per venire fuori con una definizione e per indovinare quello che contiene. È una chiamata a testimoniare l’amore misericordioso di Cristo per i malati nella realtà in cui ci troviamo». E ha ribadito con chiarezza che il risultato del processo di formazione di un individuo che abbia espresso la vocazione all’ordine debba essere la consapevolezza del fatto che i religiosi di s. Camillo non sono solo camilliani, né semplicemente religiosi consacrati: «Siamo piuttosto “religiosi consacrati camilliani”».

Il contenuto di tale affermazione è molto meno ovvia di quanto possa sembrare, anzi p. Monks insiste confermando che tale processo di chiarificazione dell’identità non solo deve essere continuo ma è di capitale importanza nella relazione con il resto del popolo di Dio, ossia il clero diocesano e i laici con i quali l’ordine collabora nella sua missione: «Uno dei compiti principali come formatori è di approfondire questo concetto con gli individui in formazione e dare corpo a tale comprensione con ciò che ognuna delle tre parole “consacrato”, “camilliano” e “religioso” significa».

 

TRA VOCAZIONE

E CULTURA

 

Al tema dell’identità camilliana i lavori dei formatori nel raduno avevano dato infatti particolare importanza, poiché proprio verso quel fondamentale dato costitutivo si è orientata la riflessione su alcuni elementi culturali propri dell’antropologia africana, che caratterizzano anche quella malgascia e attraversano in positivo e in negativo il discernimento vocazionale.

La riflessione su tali elementi caratteristici della cultura africana è stata condotta – scrive fr. Luca Perletti dell’Archivio generale camilliano che ha curato la sintesi dei lavori – dal gesuita p. Louis Augustin Rabotoson.

Presupponendo noti gli elementi comuni della vocazione religiosa e delle sue tappe di sviluppo fino alla consacrazione definitiva in una famiglia religiosa, p. Augustin ha illustrato anzitutto l’aspetto tipico dell’appartenenza a una tribù, a una etnia, a un paese natale: aspetto di importanza vitale per un malgascio, per il quale una delle principali preoccupazioni è quella di «sapere a quale Grande Antenato – generalmente paterno – egli appartenga, il suo stato o rango sociale, l’albero genealogico, evocato nei momenti rituali fondamentali della sua vita, che gli conferisce il diritto di essere sepolto nella terra o nella tomba degli antenati»; questi infatti formano la Grande famiglia tribale alla quale egli sa di doversi ricongiungere nell’aldilà. Ciò comporta il diritto naturale di ogni individuo ad avere un padre (e per estensione un’etnia e un paese natale), il quale gli assicura l’appartenenza a un passato ed è per lui una sicura garanzia per il futuro.

Che un candidato alla vita religiosa possieda tale consapevolezza non è irrilevante se egli, ad esempio, non ha per cause varie un padre, o ha un padre sconosciuto o che non riconosca il figlio, o che solo la madre a motivo di una separazione se ne assume la responsabilità ma non può conferirgli una identità giuridica all’interno della tribù.

È vero che il candidato religioso che non ha padre può integrare la propria situazione mediante altre figure importanti; ma se non può integrarla è lecito dubitare che possa farlo attraverso la vita religiosa, e pertanto «la congregazione deve domandarsi se essa può accoglierlo o meno». La stessa «esperienza dei padri spirituali mostra con quanta difficoltà il candidato potrà pregare ad esempio il “Padre nostro”».

Sulla stessa linea è la considerazione relativa all’avere una tribù, un’etnia, un paese natale proposta da p. Rabotoson, il quale conclude questa parte con una domanda: «Se, come voi camilliani pensate, “il dono fatto ai camilliani non è solamente di fare opere di misericordia, ma di essere misericordiosi”, come potrà colui che è senza padre, senza patria, senza tribù comprendere la misericordia in un mondo senza pietà?».

 

LA VITA, VALORE

PRIMORDIALE

 

Non minore enfasi ha avuto il ­tema del valore della vita nella cultura malgascia, che celebra la vita in tutti i momenti importanti dell’esistenza di ogni persona, quali la nascita, la circoncisione, il matrimonio, il funerale, la rievocazione, e il ritorno degli Ante­nati: tutte celebrazioni il cui elemento qualificante è la trasmissione della vita da parte degli ­Antenati attraverso le successive generazioni.

In questo elemento sono stati considerati due aspetti: la trasmissione della vita, riconosciuta attraverso il ruolo assegnato in particolare all’uomo, e la sua conservazione contro la malattia, che contiene la protezione contro la “cattiva sorte” e chiama in causa anche la stregoneria.

«Anche la morte – leggiamo – che sembra immediatamente una contraddizione della vita, costituisce per la famiglia-tribù un momento di riunificazione con gli Antenati, attraverso un ritorno allo stato di vita ancestrale, al caos primordiale», e il funerale celebra in modo orgiastico il trionfo della vita contro la morte.

Essere fecondi, avere molti figli è considerato elemento di prestigio e di benevolenza da parte degli Antenati, mentre la sterilità è ritenuta per la coppia una maledizione di cui la responsabilità viene attribuita alla moglie. In tale visione della fecondità «il valore della trasmissione della vita può portare la famiglia non cristiana di un candidato a richiedergli di lasciare una discendenza prima di entrare in seminario»; sarà la famiglia d’origine di lui ad assumersi la responsabilità del neonato.

Ora – dice concludendo questa parte p. Augustin – poiché la castità e il celibato non rientrano nella mentalità esposta e quindi occorre lavorare molto per far acquisire il valore del voto di castità e il senso del celibato, rimane la domanda sul come si possa presentare il celibato consacrato e il voto di castità in una cultura che esalta tanto la trasmissione della vita.

C’è inoltre il punto riguardante la protezione della vita contro il maligno e la conservazione di essa contro la malattia: un punto che non poteva non sollecitare lo specifico carisma camilliano, anche perché si tratta di andare incontro a un intreccio di due mali, aggravati sia dal fatto che la malattia viene ritenuta effetto di infrazioni che intaccano il rapporto con gli Antenati, sia dagli alti costi dell’ospedalizzazione e dei medicinali così che spesso il malato viene curato in casa mediante preparati a base di erbe e con l’intervento di stregoni.

Il relatore ha coinvolto così i formatori con precise domande, tra le quali: «Che tipo di religiosi formiamo? Di che tipo di religiosi camilliani si ha bisogno? E inversamente, quale tipo di aiuto i malati degli ospedali attendono? Sarà un intervento che si appoggerà sulle paure ancestrali e le angosce, o che presenterà un Cristo Maestro e Signore, protettore contro la sorte avversa?». Ed è chiaro l’accenno a strategie pastorali che favoriscano la presentazione più efficace dell’amore misericordioso di Dio.

 

FAMIGLIA

E POVERTÀ

 

Nell’illustrare il bene che è per le vocazioni e la loro perseveranza il sorgere da una famiglia profondamente cristiana, p. Rabotoson ha sottolineato il fatto che il momento della scelta decisiva di un candidato riceve dai suoi cari un gesto significativo: «La “benedizione” che il capo famiglia pone sul figlio ha un valore di autorizzazione, di incoraggiamento e di rinuncia della famiglia a ogni diritto sul candidato sacerdote o religioso». E tale benedizione – ha commentato – diventa «evangelizzazione per la stessa famiglia, in quanto accettando l’annuncio del Vangelo e non attendendosi una posterità dal proprio figlio, la famiglia accetta di condividere la povertà stessa del figlio religioso, rinunciando a tutti i servizi di riconoscenza e di doveri che ogni figlio deve ai propri genitori e parenti. La famiglia vi rinuncia definitivamente».

Viene così in evidenza l’intreccio tra il valore della famiglia anche in ordine alla vocazione, e decisamente affermato nella cultura africana, e quello del voto di povertà che esige una coerenza alla quale tuttavia non è difficile oggi sfuggire.

La famiglia infatti può vedere emergere dalla stessa citata benedizione una serie di “capitali” a proprio vantaggio: un capitale materiale, in quanto essa potrebbe richiedere un giorno aiuto anche finanziario per le proprie necessità; un capitale socio-culturale che «si manifesta nella ricerca di onori e di prestigio sociale, soluzione per vincere la paura del disonore e della “perdita della faccia”. C’è spesso una ricerca spasmodica di onori e titoli (lauree, episcopato...), tanto che vengono rifiutati alcuni servizi (cucina, lavanderia, portineria...) all’interno della comunità a causa della perdita di onore che si attribuisce a queste mansioni». Ma ci si può attendere anche un capitale simbolico e spirituale, che si manifesta nella pace di una sicurezza simbolica nell’aldilà, se si pensa al richiamo del simbolo costituito dalla “tomba ancestrale” o “degli Antenati”.

Ci si può e deve pertanto domandare nei diversi casi – suggerisce il relatore – quale influsso abbia tutto ciò sulla vita dei religiosi e quale aiuto possa essere offerto almeno ai familiari dei “chiamati” affinché la vita religiosa venga vissuta in maniera armonica tra consacrati e loro famiglie. Tanto più che i problemi che possono sorgere in ordine al voto di povertà coinvolgono gli uni e le altre in maniera spesso drammatica. Infatti, come «per il voto di castità il religioso rinuncia a dare una posterità alla famiglia, ugualmente con il voto di povertà rinuncia a darle una ricchezza materiale».

Benché all’inizio del cammino, ad esempio in noviziato – osserva p. Augustin – il voto di povertà sembri semplice, capita che dopo la professione i giovani si scontrino con la povertà nella quale versano i propri familiari.

Sorge allora «la domanda nel religioso:  “Devo lasciare i miei familiari nell’indigenza, mentre io con il mio voto di povertà ho acquisito sicurezza economica e un’elevazione dal precedente status sociale? Inoltre, essendomi fatto religioso per aiutare i poveri, i poveri più prossimi non sono forse i miei familiari?”».

Infine, p. Rabotoson osserva che la stessa percezione dei malgasci sui missionari in generale non è del tutto chiara. Li vedono ricchi, con belle auto e case, temono che vogliano impadronirsi della loro terra e sembrano non credere alla gratuità che i missionari proclamano.

Un raduno, in conclusione, denso di provocazioni, l’ultima della quali è stata lanciata dal superiore p. Monks: la maggiore tristezza sarà quando nei cuori non brucerà più il fuoco del carisma di s. Camillo.

Zelia Pani