CONGRESSO INTERNAZIONALE SULLA VITA CONSACRATA

UN POZZO TANTE FALDE

 

Riuniti a Roma gli “stati generali” della vita consacrata. Gli scopi del congresso, la voce dei relatori, i tanti gruppi di studio. I problemi di oggi e le prospettive di domani. Un evento forse irripetibile e un punto di riferimento per tutti i consacrati.

 

«Siamo molto dispiaciuti per il mancato incontro con il Santo Padre». Con queste parole la presidente Teresina Rasera ha aperto i lavori dell’ultimo giorno del congresso internazionale sulla vita consacrata, svoltosi a Roma dal 23 al 27 novembre, sul tema: Passione per Cristo. Passione per l’umanità. L’udienza era stata concordata nel giugno del 2003, riconfermata nell’ottobre del 2004 e sospesa un mese dopo, per ragioni che la presidenza del congresso si è riservata di chiarire nelle sedi opportune al termine dei lavori. Non è mancato comunque un significativo messaggio del Santo Padre ai congressisti, letto in aula direttamente dal prefetto della Congregazione per la vita consacrata, mons. Franco Rodà. Il dispiacere della presidente era quello degli oltre 850 congressisti, 394 dei quali provenienti dall’Europa, 250 dall’America, 95 dall’Africa, 92 dall’Asia, 16 dall’Oceania.

Per la prima volta, forse, nella storia della Chiesa, si sono ritrovati, in un albergo romano, gli “Stati generali” della vita consacrata, in rappresentanza di oltre un milione di consacrati, vale a dire 323 superiore generali, 160 superiori generali, 113 presidenti o delegati delle conferenze nazionali dei religiosi di altrettanti paesi, 114 teologi e teologhe, 60 religiosi in rappresentanza dei “giovani”, 17 direttori o responsabili di riviste sulla vita consacrata, 13 invitati.

Se qualche congressista era arrivato a Roma pensando di fare il turista durante i giorni del congresso, ha dovuto immediatamente ricredersi. Nell’assemblea conclusiva si sono persino sprecate parole di ringraziamento per il perfetto funzionamento di tutta la macchina organizzativa del congresso. Ma è stato grazie soprattutto a questa organizzazione che si sono potuti raccogliere a Roma i frutti di oltre tre anni preparatori di un evento che se non rimarrà unico nella storia della vita consacrata, sarà comunque difficilmente riproponibile.

 

UNA VC

“MEZZO MORTA”

 

Non è certo possibile, in questa sede, rendere ragione di quanto visto, udito, vissuto nelle intense giornate romane. Il programma, proprio a partire dallo strumento di lavoro, prevedeva relazioni di fondo, seguite immediatamente da alcune riflessioni “al pozzo”, vale a dire attorno ai tavoli di lavoro in cui erano stati suddivisi tutti i partecipanti, integrate poi dai gruppi di studio linguistici, continentali e tematici, e completate, infine, dalle assemblee aperte in sessioni plenarie. Vale forse la pena sottolineare il fatto che attorno al “pozzo” non si è solo ascoltato, riflettuto e discusso, ma anche intensamente pregato, cantato e sostato, non poche volte, nel più assoluto silenzio di tutta l’immensa sala dell’Ergife.

Lo scopo dichiarato del congresso era quello di discernere ciò che Dio sta facendo sorgere tra di noi per rispondere alle sfide del nostro tempo e costruire il regno di Dio. Era impensabile, in quella sede, un’opera di discernimento che approdasse poi a delle conclusioni operative valide e significative per tutti. Il compito più impegnativo è apparso con molta evidenza man mano si succedevano le giornate di lavoro: cosa portarsi a casa, proprio “a partire” dalle suggestioni, dalle provocazioni, dalle accentuazioni, spesso anche unilaterali, ascoltate nelle relazioni, nei gruppi di studio e in assemblea.

Le icone della samaritana e del buon samaritano hanno contrappuntato tutti i momenti più significativi del congresso. Ma se unico era il “pozzo”, quello dell’acqua viva di Cristo, molteplici invece erano le falde acquifere che prima confluivano e poi si diramavano dall’unica sorgente. Europa, Asia, Africa, America del Nord e America del Sud, Oceania, non esprimevano solo una diversità geografica, ma prima ancora una pluralità e una ricchezza culturale e religiosa.

Le relazioni di fondo ascoltate in aula non potevano non risentire delle molteplici e diversificate sfide di fronte alle quali la vita consacrata è chiamata a confrontarsi oggi. Non era facile per i relatori, in quella sede, rispondere alle attese non solo della presidenza, ma più ancora dei congressisti.

Non appena gli atti del congresso, di cui è stata assicurata una sollecita pubblicazione, saranno pronti, varrebbe la pena di riprenderli in mano. L’ampia e originale esegesi, ad esempio, di Dolores Aleixandre sulle due icone della samaritana e del buon samaritano è tutta da leggere. Perché non provare a lasciarsi prendere per mano dai vari protagonisti (la samaritana, il samaritano, lo scriba) per sentire cosa possono dire oggi, nel nostro contesto, nella diversità e nella pluralità culturale, sulla vita consacrata?

Se provassimo a chiederci, come ha fatto la relatrice, i nomi dei nostri tanti “mariti”, di quelle realtà cioè con le quali scendiamo a patti e che ci allontanano dall’acqua viva, se quell’uomo “mezzo morto” lungo la strada da Gerusalemme a Gerico, fosse il simbolo di una vita consacrata “mezzo morta” capace di farci scoprire tutte le dimensioni e le potenzialità che non pensavano neanche di avere, se avessimo il coraggio di riconoscerci, come in uno specchio, nel personaggio dello scriba, forse potrebbero cambiare più facilmente tante cose. Ci si accorgerebbe che il futuro della vita consacrata non sono le dichiarazioni, i documenti e le teorie sul carattere specifico della nostra identità. Il futuro non sta in ciò che proclamiamo ma in quello che viviamo. Sarebbe così più facile evidenziare il rischio di sprecare inutilmente energie per conservare una figura di vita religiosa e forme storiche che proprio perchè tali non possono non essere “provvisorie e criticabili”.

 

LA CULTURA

DEL CONTROLLO

 

Se poi volessimo cogliere lo spessore della denunzia, soprattutto latino-americana, delle “aberrazioni” a cui può portare un certo neo-liberismo economico, basta rileggere quanto ha detto il gesuita brasiliano J. B. Libanio. Se il Sud è «la metafora della sofferenza umana causata dal capitalismo», diventa allora più facile comprendere come «dalla periferia si rendono più visibili (anche in campo religioso) le strutture di potere e di sapere amministrate dal Nord». Anche la vita consacrata è inevitabilmente coinvolta in alcuni processi particolarmente preoccupanti del mondo contemporaneo: dalla paura della libertà e della responsabilità, alla perdita della coscienza storica ed etica, alla spersonalizzazione dei gruppi sociali più semplici e poveri, alla minaccia di una perdita crescente di credibilità che incombe anche sulla vita consacrata e sulle istituzioni ecclesiastiche, al ritorno dell’esteriorità e alla ricerca della visibilità sociale, al rischio sempre più diffuso di un “controllo delle coscienze”, al deterioramento della vita consacrata classica in confronto con le nuove forme di vita consacrata, alla problematicità dell’arrivo delle nuove generazioni e quindi al problema “cruciale” delle vocazioni. «Qualsiasi rifondazione, rinnovamento o rinvigorimento della vita consacrata, ha ribadito Libanio, passa dalla relazione con i poveri». La scelta dei poveri «è e sarà il maggiore segnale di credibilità della vita consacrata». Non si tratta di una questione puramente teorica sulla povertà, quanto piuttosto della relazione «con la persona del povero in senso fisico, nelle sue forme antiche e attuali». Una vita consacrata “cieca” di fronte al fenomeno dei poveri «passa come il sacerdote e levita accanto al ferito».

Sul controllo delle coscienze, o meglio ancora su una sempre più diffusa “cultura del controllo” si è soffermato a lungo Timothy Radcliffe o.p. Gli era stato chiesto di parlare della vita consacrata dopo l’11 settembre. Lo ha fatto introducendosi a parlare anzitutto di «una crisi di mancanza di casa». L’11 settembre ha reso visibile «la violenza latente della nostra cultura mondiale», la sofferenza e il disagio a cui è condannato il nostro pianeta. Ha cambiato «anche le storie che raccontiamo di noi stessi e del nostro mondo». Se noi abbiamo assoluto bisogno «di vivere all’interno di una storia che abbraccia un passato e guarda ad un futuro», allora dobbiamo concludere che oggi rischiamo di non avere più «alcuna storia del futuro nella quale sentirci a casa».

Ma il crollo delle torri gemelle ha purtroppo accelerato paurosamente l’avvento di una “cultura del controllo”. «Mai il pianeta ha subìto un controllo così serrato da parte di poche nazioni». Non sono stati colpiti soltanto i simboli dell’economia e della potenza militare occidentale. Sono aumentate la raccolta di informazioni, la militarizzazione del mondo, la perdita dei diritti umani. Questa cultura del controllo è così entrata nel sangue della vita pubblica. «Anche la Chiesa sta diventando una istituzione governata dalla cultura di controllo. Siamo osservati, si fanno rapporti e valutazioni su di noi». Non si tratta tanto di un “complotto maligno” del Vaticano. È semplicemente la conferma che sia la Chiesa che gli istituti religiosi «stanno vivendo la crisi della modernità», contro la quale, la vita consacrata dovrebbe ribellarsi con «una esplosione di libertà gioiosa».

Prevedere il futuro della vita consacrata, però, è forse l’operazione più azzardata che ci si poteva attendere da un congresso sia pure aperto e profetico come in tante voci si è rivelato quello romano. A Sandra Schneiders era stato chiesto proprio questo: tracciare “il futuro” della vita consacrata. Invertendo i termini del problema, ha provato invece a parlare della vita consacrata “nel futuro”, «qualunque possa essere questo futuro». Con molta onestà ha riconosciuto fin dall’inizio, però, di non poter andare oltre una “costruzione immaginativa” della vita consacrata. È quanto ha fatto, “immaginando” la vita consacrata “nel futuro” solo in riferimento ai voti di povertà e di obbedienza. Troppo poco, forse, perché i religiosi possano proiettarsi nel futuro creando «un mondo diverso che dia una testimonianza profetica nel mondo e al mondo e, qualche volta, contro il mondo e anche con la Chiesa istituzionale».

 

UN EVENTO

SENZA PRECEDENTI

 

Più che nelle relazioni di fondo i congressisti si sono forse ritrovati nelle diverse articolazioni dei gruppi di studio. E questo si è verificato soprattutto nella penultima giornata dei lavori pensata come momento di progettazione di alcune linee per il futuro. Anche la sola elencazione della (fin troppo) lunga lista di argomenti corrispondenti ad altrettanti gruppi di studio, dà la dimensione esatta dello sforzo compiuto dai partecipanti. Ci si è infatti confrontati su giustizia e pace, inculturazione, dialogo interreligioso, arte, mezzi di comunicazione di massa, solidarietà, celibato, sacra Scrittura, sete di Dio, formazione permanente, cultura congregazionale, comunità e missione, collaborazione con i laici, governo e autorità, dimensione ecclesiale della vita consacrata.

Le diverse sintesi ascoltate in assemblea plenaria l’ultimo giorno non potranno non costituire un obbligato punto di riferimento per una più approfondita comprensione dei lavori di questo congresso.

A queste sintesi, infatti, rimanda con molta convinzione anche la relazione conclusiva di otto “ascoltatori” qualificati, incaricati di raccogliere le linee emergenti di tutti i lavori. Rispettando sostanzialmente lo schema dello strumento di lavoro, hanno provato a fare, anzitutto, il punto della situazione della vita consacrata, evidenziandone ferite e piste di guarigione. Sulle orme della samaritana e del samaritano hanno quindi delineato alcuni percorsi della sequela, per suggerire, infine, alcune proposte per l’azione. «È stato un fatto senza precedenti, scrivono, quello che donne e uomini della vita consacrata di tutto il mondo, di diverse culture e lingue, abbiano potuto dialogare, dibattere e progettare insieme sul presente e sul futuro della nostra vita e della nostra missione». Sono stati proprio i gruppi di lavoro a segnalare «le piste di azione per affrontare le sfide del momento presente. Noi ci rimettiamo a queste relazioni, dal momento che lì è dato trovare in tutta la loro ricchezza le diverse proposte».

Sarebbe altrettanto importante, però, non perdere di vista la sintesi – curata e presentata in assemblea dal p. Bruno Secondin e da madre Diana Papa – del dibattito sullo strumento di lavoro che aveva preceduto la fase congressuale (cfr. Testimoni, n. 20). È stata molto apprezzata dai congressisti ma forse non adeguatamente valorizzata anche in vista di un lavoro meno dispersivo e più focalizzato su alcuni punti nodali del dibattito in corso sulla vita consacrata.

Durante il congresso, ha osservato nella sua relazione conclusiva fr. Álvaro Echeverrìa, presidente dell’unione dei superiori generali, si è respirato un clima di stimolante ottimismo da una parte e di una concreta disillusione dall’altra per il faticoso cammino che attende il futuro della vita consacrata. «Credo che tutti noi abbiamo fatto uno sforzo straordinario per recuperare i nostri carismi e lo spirito proprio delle nostre congregazioni. Non sono altrettanto certo del fatto che la regola suprema per tutti sia il vangelo». Se la persona umana è la ragione e il centro della missione della Chiesa, allora è il caso di chiedersi se a volte sulle persone non prevalgano le strutture, se non prevalgano «alcuni atteggiamenti e una certa rigidità che non hanno nulla a che vedere con il vangelo e la sequela di Cristo». Oggi più che mai abbiamo bisogno di inventare nuove risposte, rinnovare le strutture, e soprattutto «avanzare liberi», cercando di restituire alla vita consacrata quel “fascino”, quella attrattiva, quella novità di vita che la samaritana e il “mezzo morto” ai bordi della strada da Gerusalemme a Gerico hanno scoperto dopo l’incontro salvifico con Gesù e con il buon samaritano.

Lo strumento di lavoro si era spinto fino al punto di parlare di questo congresso come di una “pietra miliare” per il futuro della vita consacrata. È presto per dirlo. Ciò che, invece, possiamo affermare con certezza è il fatto che comunque non sarà possibile parlare della vita consacrata di oggi e di domani ignorando quanto, in senso problematico e costruttivo, è stato detto della “passione vissuta” di tanti consacrati nel mondo sia per Cristo che per l’umanità.

 

Angelo Arrighini