UNA RICHIESTA IN CRESCITA

SOGGIORNO IN MONASTERO

 

Si moltiplicano le richieste, soprattutto di giovani, di vivere qualche giorno in monastero. Senza ignorare che il fenomeno è diffuso anche in Italia, riportiamo alcune esperienze di monasteri e abbazie francesi attraverso le impressioni di alcuni abati e abbadesse.

 

 

Da diverso tempo è diventato un fenomeno abbastanza diffuso, per quanto discreto, quello di voler trascorrere qualche giorno nelle abbazie e nei monasteri. In genere a chiedere sono dei giovani, ragazzi e ragazze, ma a volte anche persone più adulte e già inerite nel mondo del lavoro. Nello stesso tempo sono cresciute anche le comunità monastiche che aprono le loro porte offrendo volentieri non solo ospitalità nelle foresterie, ma anche la possibilità di condividere la stessa vita comunitaria.

A volte sono le stesse abbazie a invitare i giovani a vivere questa esperienza. In questo caso, si potrebbe pensare che dietro a una proposta del genere sia latente un’intenzione vocazionale. In realtà l’invito ha come unico scopo di offrire a chi ne sente il bisogno l’opportunità di un po’ di silenzio, di riflessione e di preghiera, e un luogo dove poter fermarsi, lontani dal rumore del mondo e dal proprio ambiente consueto.

 

LE ABBAZIE

APRONO LE PORTE

 

In Francia, come riferisce il quotidiano La croix (30 luglio), sono state numerose le esperienze di questo genere. Una delle abbazie che hanno aperto le porte è stata, per esempio, quella di Notre-Dame-de-Bon-Secours, un edificio immerso nei boschi di Bleuvac, ai piedi del monte Ventoux. La proposta era di passare cinque giorni assieme alle monache e di condividere la loro vita di comunità. Niente esortazioni, niente di strutturato: solo un invito a “gustare”. L’invito è stato accolto da cinque giovani, tre ragazze e due ragazzi tra i 18 e i 32 anni. Ospitati nella foresteria, poco alla volta essi si sono inseriti nel ritmo della vita monastica: alzata prima del sorgere del sole per i tre più coraggiosi, desiderosi di partecipare alle 4,30 alla preghiera comune della notte; poi ripresa alla 6,45 per un tempo di preghiera, seguito dalle Lodi e dall’Eucaristia; quindi, in alternativa, la lectio divina, l’ufficio e il lavoro manuale in silenzio. E naturalmente il tempo per i pasti, presi in comune con le suore e, il venerdì, la possibilità di partecipare al capitolo.

«Ci sono tanti cliché sulla vita monastica» – ha detto una giovane suora, da poco professa. «Noi vogliamo consentire ai giovani di vivere giorno per giorno il ritmo della comunità, offrire un’ospitalità più aperta che permetta loro di fare un’esperienza nuova e di approfondire maggiormente la loro vita cristiana».

Ma, qual è stata la reazione della comunità? Essa, commenta il quotidiano La croix ha accettato di buon grado di essere guardata così da vicino nel suo modo di vivere e ha saputo anche trovare le parole adatte per dire la propria esperienza, senza mai considerare questi/e giovani come dei “potenziali novizi”. Un fatto questo che essi hanno apprezzato.

Uno di loro, descrivendo l’esperienza vissuta, ha definito questi giorni un “tempo privilegiato”, “molto leggero, senza niente di pesante”, “un’immersione molto concreta” nella vita monastica e nel suo ritmo “regolare e sostenuto”. E ha aggiunto anche di aver avuto “la sensazione di essere stato accolto in una famiglia spirituale.

Ma l’esperienza del monastero di Notre-Dame-de-Bon-Secours è lungi dall’essere un caso unico. Sono numerosi i monasteri e le abbazie che propongono settimane monastiche, e tutti concordano oggi nel dire che attualmente coloro che vi partecipano sono più anziani rispetto a una decina di anni fa. Spesso sono persone già inserite nella vita professionale, sposate o che si trovano a una svolta cruciale di una vita “a volte tormentata”, come rileva la maestra delle novizie dell’abbazia La Joie-Notre Dame de Compénéac. Molti vengono per “fare una sosta”, “prendersi un po’ di distacco”, “vivere un’esperienza forte”, mentre sono rari coloro che dicono di voler approfondire la loro vita cristiana.

Un’altra abbazia aperta a quest’accoglienza è quella di Timadeuc. Qui fino a una ventina d’anni fa venivano accolti anche una decina di giovani. Oggi non più di tre o quattro. Vengono per vivere qualche giorno “nel cuore della comunità”, e col desiderio di incontrare monaci “in carne e ossa”. Al termine della settimana molti si dicono sorpresi dal ritmo continuo e regolare della vita monastica, dal silenzio “abitato”, e affermano di sentirsi interpellati dal bel viso dei vecchi monaci e dal modo in cui i fratelli vivono insieme. «Naturalmente, afferma l’abate p. Paul Houix, essi vedono anche le nostre piccole debolezze, ma scoprono che è possibile vivere insieme con le nostre differenze».

«La maggior parte, prosegue p. Houix, sono in ricerca spirituale, ma ignorano tutto della parola di Dio, della preghiera della Chiesa, della vita cristiana più elementare. Per essi è spesso l’occasione di sperimentare un tempo di preghiera, di incontrare degli uomini che credono alla loro vocazione e che vivono con gioia il loro impegno».

Anche l’abbazia di Citeaux da cinque anni invita giovani e ragazze a venire e a vedere. Accolti per cinque giorni in foresteria, essi partecipano agli uffici divini e svolgono dei lavori manuali; ricevono anche un’istruzione nel contesto della lectio divina. «Molti di essi, sono persone in ricerca che si pongono il problema del senso della vita. Qualunque sia la loro professione, vengono con piena fiducia perché ritengono che noi abbiamo qualcosa da insegnare loro. Scoprono che la nostra vita è molto strutturata e che una struttura forte sostiene la nostra vita spirituale».

È interessante notare il modo in cui le comunità monastiche si pongono di fronte a questo fenomeno. Anziché parlare troppo in fretta, come avveniva in passato, di vocazione e di discernimento, esse sentono soprattutto il desiderio di condividere la propria esperienza e concepiscono queste settimane di permanenza dei giovani come un tempo di testimonianza e di accoglienza della Parola. Sr. Béatrice, celleraria e maestra della novizie dell’abbazia di Nôtre-Dame-des-Gardes, parla a questo riguardo del dovere della “visibilità”, mentre per sr. Claire, priora del monastero di Bouzy-la-Fort, si tratta invece di un ruolo “di apostolato e di evangelizzazione”. “Facciamo opera di Chiesa”, afferma da parte sua fr. Bérnard di Citeaux.

 

ACCOGLIENZA

DEI VISITATORI

 

Ma oltre ad accogliere coloro che vengono per sostare qualche giorno, i monasteri e le abbazie sono anche meta di un susseguirsi continuo di visitatori alla ricerca non solo delle bellezze degli edifici, ma a volte anche per trovare una risposta ai loro problemi. In effetti, come rileva l’abate dell’abbazia di Bec-Hellouin, fr. Paul-Emmanuel in un’intervista raccolta da La croix (15 ottobre), questa gente si reca all’abbazia non tanto per conoscere, per esempio, che cosa pensano i monaci dei problemi socio-politici del mondo, ma per sentire parlare di Dio. È un rilievo che ha qualcosa da dire non solo ai monaci, ma a tutta la vita consacrata, nel senso che a volte noi siamo troppo sbilanciati su problemi che riguardano ogni altra cosa, all’infuori di Dio: con la gente parliamo cioè di tutto eccetto che di Dio.

Ricordando che cosa hanno rappresentato in passato i monasteri e le abbazie per il nostro continente, è stato chiesto all’abate quale punto di riferimento può costituire oggi la presenza monastica nella nostra società europea. «Oggi, ha risposto, il monaco vive nel deserto, per cui egli non offre molti punti di riferimento visibili. E anche là dove è un punto di riferimento lo è per la storia e l’istituzione monastica. In passato la vita monastica ha avuto una grande importanza nel senso che ha dato una notevole impronta alle nostre società: economia, politica, democrazia... In realtà, l’unico punto di riferimento che oggi dovrebbe offrire è quello del significato che ha la vita davanti a Dio».

In effetti, ha proseguito l’abate, «il monaco ha lasciato tutto per Dio. Al limite, poco importa la struttura. L’essenziale per noi – e forse non lo diciamo abbastanza – è Dio». Ha raccontato un episodio che gli è capitato di recente. «Poco tempo fa, ha detto, ho compiuto una visita guidata dell’abbazia. Ero molto contento perché il contatto con i turisti era andato bene. Ma alla fine, una ragazzina ha buttato lì la domanda: “Perché non ci hai parlato di Dio?”. Avevo detto tutto riguardo all’architettura, la storia, la vita monastica e all’improvviso mi sono accorto che mi era mancata una parola».

Ma, gli stato chiesto ancora, come rispondere alle attesa profonde dei visitatori? «Essi, ha affermato l’abate, scoprono qui un mondo che tocca i loro interrogativi. Da parte nostra, temiamo di fare violenza alle coscienze ed evitiamo di dire ciò che ci motiva. È qualcosa di delicato: non sappiamo chi sono queste persone, perché vengono da tutti gli orizzonti, da tutte le fedi. Per avere il coraggio di dire che noi ci troviamo qui perché siamo stati sedotti da Cristo, dobbiamo accettare di comprometterci di più. Forse insistiamo troppo sull’organizzazione e non mettiamo abbastanza in risalto l’amore profondo che ci ha indotto a vivere in questo luogo».

Ma la permeabilità tra il mondo e le comunità, è stato chiesto ancora, non è forse tropo insufficiente? «Le comunità, ha risposto l’abate, portano un gravame troppo pesante di belle tradizioni, che però impediscono loro di avere uno scambio desiderabile e fanno da schermo ai fedeli. Certi monaci sono troppo prigionieri di queste tradizioni. Una delle attrattive delle nuove comunità, sta nel fatto che esse consentono un incontro più diretto. I fedeli trovandosi più vicini ad esse, più associati, possono vivere una reale esperienza. Qui invece, e anche in altre monasteri, essi prendono parte a un bello spettacolo, ma che resta troppo estraneo alla loro ricerca. I tempi, tuttavia ci porteranno poco alla volta ad aprirci, nel senso buono del termine, e a fare meno opera da museo. I cistercensi, più sensibili ai bisogni d’oggi, sono giunti a questo scambio. Il mondo benedettino porta una pesante eredità di una bella tradizione liturgica. Ma, attenzione, la nostra vocazione non si pone nell’ordine della cultura, ma in quello della fede. E la nostra fede in quanto monaci oggi deve raggiungere la fede della gente del secolo XXI, non quella dei nostalgici».

Ma come è possibile oggi giungere a questo scambio? Le comunità monastiche ne hanno i mezzi umani e materiali? «Per quanto ci riguarda, ha risposto l’abate, il numero ridotto di monaci è un handicap, nel senso che se siamo troppo pochi in una grande casa, siamo tutti presi dal suo funzionamento e non abbiamo più tempo per l’accoglienza e l’ascolto. Non dobbiamo tuttavia aver paura di essere una piccola comunità. Non dobbiamo fare sfoggio di potenza, anche se è duro rinunciare a un certo ascendente culturale. Quanto ai mezzi materiali, se vogliamo giungere alla scambio autentico di cui parliamo, io porrei prima di essi la necessità di una vita interiore. Nella misura in cui vivremo più autenticamente la nostra vocazione di monaci, potremo ascoltare anche gli altri. L’internet, la televisione possono essere utili per rimanere in contatto, ma non è a noi che la gente chiede che cosa si deve pensare, per esempio, dell’allargamento dell’Europa. Noi possiamo avere le nostre convinzioni, ma ciò che conta per gli altri è che siamo ben situati nel nostro stare davanti a Dio. Questo è quanto essi si attendono da noi».

«Parlo della mia comunità, ha concluso l’abate, e a questo proposito abbiamo sempre da lavorare su questo essenziale. Ciò vuol dire che non sono del tutto sicuro che noi monaci non abbiamo bisogno di conversione. I monaci del resto fanno voto di conversione. Non voglio giudicare nessuno, ma dico che avremo sempre bisogno di essere fedeli a questo voto. Se non prendiamo sul serio questa necessaria presenza a Dio, rimaniamo a custodire le nostre pompe, mi perdoni l’espressione e non diremo al mondo ciò che è in diritto di aspettarsi da noi. D’altronde, non dobbiamo più aver paura di essere tirati a destra e a sinistra dai nostri vescovi che avrebbero bisogno di noi. Il bisogno è che noi siamo nella Chiesa dei luoghi di riferimento per gli altri. Sono stupito del resto di vedere, specialmente dopo questi ultimi decenni, come la Chiesa riscopra la preziosità della vita contemplativa».