UNA
PROVOCAZIONE AL MODERNO NEOPAGANESIMO
LA MORTE
E IL MORIRE
Oggi i credenti sono chiamati, in nome
della trascendenza, a contrastare la cultura dell’oblio che tende a nascondere
la morte. Una missione che viene prima dell’attenzione ai problemi tradizionali
della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato.
Parlando
della morte oggi, la prima considerazione da fare è quella della sua
dimenticanza. È stato detto che nella nostra epoca la morte è diventata tabù
come il sesso nell’era vittoriana. L’ostracismo della morte,
l’extraterritorialità della morte, per usare una espressione che Ernst Bloch
adoperava in altro significato. È sparita la morte, sono spariti i segni della
morte.
Studiando
il nostro passato, gli storici della Nouvelle histoire, Philippe Ariès in
particolare, erano arrivati a ben altre conclusioni. Quello che è accaduto
negli ultimi tempi ha le caratteristiche di una vera e propria rivoluzione
culturale. Un’affermazione da tener presente perché può indicare il cammino da
percorrere, a ritroso evidentemente, ai nostri giorni. Ciò che è stato può
essere ancora riesumato dalle ceneri della memoria e attualizzato al presente.
Una
pagina di Ariès può rendere conto di quello che è avvenuto. «L’uomo è stato per
millenni padrone assoluto della sua morte e delle circostanze della sua morte.
Oggi ha cessato di esserlo… [Nel passato] egli chiamava uno a uno i suoi
parenti, i suoi familiari, i suoi domestici… Diceva loro addio, domandava
perdono, dava loro la sua benedizione. Investito di una autorità suprema,
soprattutto nei secoli XVIII e XIX, per la vicinanza alla morte, dava ordini,
faceva raccomandazioni, anche quando il moribondo era una ragazza giovanissima,
quasi ancora infante. Oggi non resta più niente né della conoscenza che
ciascuno ha o deve avere della sua prossima fine, né del carattere di solennità
pubblica che aveva il momento della morte. Ciò che doveva essere conosciuto è
ormai nascosto. Ciò che doveva essere solenne è fatto sparire (escamoté). Ormai
è chiaro che il primo dovere della famiglia e del medico è quello di
dissimulare a un malato condannato la gravità del suo stato… Questo è divenuto
un dovere morale». Così si muore dietro le paratie di un ospedale, quasi di
nascosto e con vergogna, perfino col rimorso di turbare la pace e la serenità
dei viventi. La morte ai margini. Dalle Artes moriendi (piccoli opuscoli che
preparavano alla morte e che ebbero una straordinaria diffusione in Europa dal
tempo dell’Umanesimo-Rinascimento) apprendiamo che esisteva addirittura il
cosiddetto nuntius mortis, cioè colui che era ufficialmente designato a portare
al morente l’annuncio della sua prossima morte, in genere o il sacerdote o il
medico.
Ricordiamo
quanto accadeva ancora pochi decenni fa. Il viatico si portava ai morenti in
forma solenne, con una processione, il baldacchino, il suono delle campane. La
comunità si fermava domandando di cosa e di chi si trattasse, si univa nel
pensiero se non proprio con la preghiera a coloro che accompagnavano la piccola
processione, che aumentava lungo la strada. Tutti, o coloro che potevano,
entravano insieme nella camera del malato e ascoltavano le monizioni e le
preghiere del sacerdote. Non era solo la famiglia, ma la comunità intera a
partecipare a uno dei momenti più solenni della sua vita. La poesia di Giovanni
Pascoli ha immortalato questa suggestiva tradizione.
Intanto
sono venuti meno anche i segni della morte. A chi rimane è proibito di apparire
scossi dalla morte degli altri. Non c’è più il lutto e i cimiteri sono spariti
dal loro luogo primigenio per essere trasferiti nelle brumose e distanti
periferie, un provvedimento, questo, che faceva fremere di sdegno anche il
poeta dei sepolcri, Ugo Foscolo. Anche i cortei funebri sono ridotti al
massimo; rimangono i piccoli manifesti che comunicano la morte già avvenuta, ma
con un linguaggio talmente pulito e levigato che anche il termine morte è
sparito di circolazione. Se un extra-terrestre piovesse dall’alto sulla nostra
terra potrebbe anche essere illuso che la morte da noi non esiste più. Il
sociologo americano G. Gorer, nel suo saggio La pornografia della morte, cita
il caso di una sua cognata a cui era morto il marito, che fu messa al bando
dalle amiche perché anche la sua sola presenza disturbava la quiete del gruppo.
UN
PASSAGGIO
EPOCALE
Un passaggio
epocale nella società dell’indifferenza, del neo-paganesimo e del consumismo.
C’è da domandarsi se questo atteggiamento di repulsa del limite umano, che si
concentra e si condensa nella morte, non sia all’origine del comportamento
altezzoso che caratterizza l’uomo contemporaneo e, forse, anche della nevrosi
che sembra attanagliarlo e pervaderlo da ogni parte. Il pensiero della morte,
nessuno lo può negare, è certamente una medicina della superbia dell’uomo,
della sua sete di guadagno e di potenza, della sua disinvoltura comportamentale
nel campo della moralità. Una constatazione umana prima che cristiana o
religiosa in genere.
Su
questa diffusa mentalità è sceso con una quasi naturale ricaduta il moderno
neo-paganesimo che si diffonde a macchia d’olio fra le nostre popolazioni e che
ha trovato anche i suoi lucidi teorizzatori. Fra questi in particolare
Salvatore Natoli, che ne I nuovi pagani e in altri scritti posteriori ha
tracciato la storia e ha sistematizzato i principi della nuova mentalità. La
sequenza storica si svolge lungo la traiettoria di
paganesimo-cristianesimo-ideologie-neopaganesimo. Un sostanziale ritorno alle
posizione pagane, un cammino tipico del mondo occidentale e non degli altri
continenti sotto l’influsso delle altre grandi religioni. Un fenomeno
post-cristiano come rinuncia alla speranza che nel cristianesimo aveva avuto il
suo massimo centro di elaborazione e diffusione. L’apostolo Paolo aveva appunto
differenziato i cristiani dai pagani, cioè da coloro che non “hanno la speranza”.
Ora, al termine di questo lungo percorso, «il paganesimo riaffiora di nuovo
come un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna. In una parola,
una vita buona. Un’etica del finito nell’età della tecnica».
Altri
personaggi illustri si sono fatti promotori di queste idee. Norberto Bobbio ha
candidamente confessato la sua rinuncia all’immortalità. Essa non è vera e, per
di più, non interessa l’uomo di oggi, che ha visto prodigiosamente aumentare
gli spazi della sua esistenza. Andare oltre non solo non è possibile, ma
nemmeno auspicabile. «Io non credo. Arrivato a un’età in cui si sente che la
fine è vicina, se devo ascoltare me stesso e dare una risposta personale,
l’unico desiderio che ho, l’unico bisogno, non è certo quello dell’immortalità,
è quello di morire in santa pace: il riposo eterno è ciò in cui spero. Non
voglio risvegliarmi. Ma anche questo, in fondo, coincide profondamente con la
religione: requiem aeternam dona eis Domine!, sta scritto sul frontone di ogni
cimitero». Anche per il direttore di Micromega, l’ateismo contemporaneo si
caratterizza oggi come la negazione di ogni sopravvivenza ultraterrena. Forse
non alludeva a questo anche la famosa poesia di Salvatore Quasimodo:
«Ognuno
sta solo
sul cuor
della terra,
trafitto
da un raggio di sole.
Ed è
subito sera»?
A cosa
prelude la sera del poeta? C’è una notevole consonanza con una altrettanto nota
lirica del poeta greco Mimnerno (VII secolo a. C.):
«Noi
siamo come foglie, che la bella stagione / di primavera genera, quando del sole
ai raggi / crescono: brevi istanti come foglie, godiamo / di giovinezza il
fiore, né dagli dei sappiamo / il bene e il male. Intorno stanno le nere dee: /
reca l’una la sorte della triste vecchiezza, / l’altra di morte. Tanto dura di
giovinezza / il frutto quanto in terra spande la luce il sole. / Ma, quando
questa breve stagione è dileguata, / allora, anzi che vivere, è più dolce
morire».
Bertolt
Brecht è ancora più chiaro:
«Non vi
fate sedurre: / non esiste ritorno. / Il giorno sta alle porte, / già qui è
vento di notte. / Altro mattino non verrà. / Non vi lasciate illudere: che è
poco la vita. / Bevetela a gran sorsi, / non vi sarà bastata / quando dovrete
perderla. / Non vi date conforto: / vi resta poco tempo. / Chi è disfatto
marcisca. / La vita è la più grande. / Nulla sarà più vostro. / Non vi fate
sedurre / da schiavitù e da piaghe. / Che cosa vi può ancora spaventare? /
Morirete con tutte le bestie / E non c’è niente, dopo».
I SENZA
SPERANZA
La morte
della speranza, descritta anche da numerosi autori filosofi e letterati.
Ricordo soltanto il racconto Il tunnel di Friedrich Dürrenmatt: quel treno che
sprofonda nel cuore della terra senza più comando né direzione. «“Cosa possiamo
fare”, gridò il capotreno ancora una volta al ventiquattrenne (un obeso
giovanotto che si era accorto di come stava evolvendo la situazione), senza
distogliere lo sguardo dallo spettacolo, e mentre a causa della tremenda
corrente d’aria volavano nell’imbuto su di lui i batuffoli d’ovatta, rispose
con una spettrale serenità: “Niente”». Leggendo queste pagine possono venire
anche in mente le note espressioni di Friedrich Nietzsche: «Il nichilismo è la
situazione nella quale l’uomo rotola via dal centro verso la X». La X è proprio
il segno matematico dell’incognita.
Il credente,
almeno il credente cristiano, guarda con rispetto a questo mondo variegato e
di-sperato, che bussa alle porte della sua attenzione e delle sue convinzioni.
Con rispetto, ma anche con l’augurio che tutte queste affermazioni non siano
vere. Perderebbe altrimenti anche lui il suo unico punto di riferimento.
Un testo
di Ernst Bloch ci fa capire l’enorme differenza che, di fronte alla morte,
intercorre fra il credente e il non credente. Egli parla dell’eroe rosso che va
verso la fine privo di ogni consolazione tradizionale. «Proclamando fino al suo
assassinio la causa per la quale è vissuto, egli avanza lucidamente,
freddamente, coscientemente verso il Nulla al quale gli si è insegnato a
credere in quanto spirito libero. Il suo sacrificio è diverso da quello degli
antichi martiri: questi morivano, quasi senza eccezione, con una preghiera
sulle labbra, sicuri di avere così meritato il cielo. Ma l’eroe comunista,
sotto gli zar, come sotto Hitler o sotto qualsiasi altro regime, si sacrificava
senza speranza di risurrezione. Il suo venerdì santo non è confortato – e ancor
meno soppresso – da nessuna domenica di Pasqua, nella quale egli debba tornare
personalmente alla vita. Il cielo verso il quale i martiri tendevano le braccia
in mezzo alle fiamme e al fumo, questo cielo non esiste per il materialista
rosso; eppure egli muore come confessore di una causa, e la sua superiorità non
può essere confrontata se non con quella del cristiano dei primi tempi o con
quella di Giovanni Battista». Una descrizione drammatica che in qualche modo
comprende la morte di tutti coloro che non hanno speranze ultraterrene. Se sia
superiore al credente è difficile dirlo, certo però che si tratta di una morte
che può unicamente sperare nel ricordo dei posteri e nella certezza di aver contribuito
al benessere dell’umanità. Il credente è in una più fortunata condizione. Egli
sa che oltre la riva del fiume c’è una mano che l’attende, una persona che è
pronta ad abbracciarlo, che oltre la morte la vita non solo continua ma
continua nella sua forma più vera e più piena. L’uomo ha sempre combattuto
contro la morte, perché vede in essa la somma di tutti i mali, perché,
nonostante le rare voci in contrario, ha un desiderio di immortalità, di
felicità completa e senza fine. Il credente non avrà difficoltà a pensare che
questo desiderio gliel’ha messo nel cuore Dio stesso e che questo vuoto non può
essere riempito che da lui. Sant’Agostino parla a nome di tutti i credenti
quando afferma: «Tu ci hai fatto, Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore
fino a che in te non riposa». Il cristianesimo ha avvertito fin da principio
questo bisogno di assoluto che l’uomo porta nel più profondo del suo essere e
ha condensato il suo lieto annuncio in una formula che porta la certezza del
suo esaudimento totale. È il cosiddetto kerigma, che si rifà alla morte e
risurrezione del Signore e che può essere espresso con queste parole della
liturgia della Chiesa: «Il Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi
della sua vita immortale».
LA
VITTORIA
SULLA
MORTE
La
chiesa ortodossa, più della chiesa latina, ha espresso tutto questo con la
dottrina della divinizzazione. L’uomo è divinizzato, fatto simile a Dio, come
lui reso immortale ed eterno. Quando fin da principio l’uomo ha voluto essere
come Dio non ha sbagliato nel fine, perché c’è in lui un desiderio innato a
superare i limiti della creaturalità e della contingenza, ma ha sbagliato nel
mezzo: non si può usurpare il trono di Dio, non si può divenire dio senza Dio o
magari contro Dio. L’uomo ha bevuto il veleno del serpente e con Marx ha eretto
Prometeo a primo santo e primo martire del calendario filosofico. Prometeo che
ha rubato il fuoco agli dei e che si ride del Tonante che l’ha incatenato alla
rupe e lo colpisce coi suoi fulmini. Per due volte il Nuovo Testamento,
rispondendo all’antico mito, chiarisce che soltanto chi è disceso dal cielo può
risalire al cielo. In questa discesa e in questa risalita sta esattamente il
concetto fondamentale dell’incarnazione di Dio e della sua ascensione al cielo.
La dottrina della salvezza. Mi esprimo in termini cristiani perché questi sono
a me più familiari e perché sono convinto che il cristianesimo ha portato a
compimento i semi di verità che sono contenuti nella altre religioni,
specialmente in quelle monoteistiche del bacino del Mediterraneo. Ma concetti
del genere sono in qualche modo presenti in tutte le religioni. Si può pensare
ai martiri della Shoah, a coloro che sacrificano la propria vita per la
liberazione dei loro paesi nella fiducia assoluta di poter essere ricevuti
subito nelle braccia di Allah, a tutti coloro che muoiono nelle prospettive
della continuità della vita. Nell’inno La Pentecoste Alessandro Manzoni invoca
la presenza dello Spirito Santo perché brilli “nel guardo errante/ di chi
sperando muor”. Una luce, credo fermamente, che illumina e trapassa la morte di
ogni uomo indistintamente, a prescindere dalle sua convinzioni religiose. Per
l’evangelista Giovanni, Dio è più grande del nostro cuore.Vista in questa
ottica, l’ottica del credente, anche implicito, la morte non è più una fine ma
semplicemente una mutazione di domicilio. «La vita non è tolta, ma trasformata
e, mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata
un’abitazione eterna in cielo», canta la liturgia della Chiesa nella
celebrazione della morte stessa. Il sommo della sconfitta è trasformato nel
sommo della vittoria. L’apologetica cristiana, che prima si basava
essenzialmente sulla verifica dei miracoli e delle profezie, oggi preferisce
battere queste nuove strade. La fede come risposta ai bisogni fondamentali
dell’uomo e della società, cominciando dal bisogno di infinito che staziona
immancabilmente nell’animo di ogni uomo. Dimentichiamo pure i riti e le leggi
che fanno parte di ogni religione, ma conserviamo queste convinzioni di fondo.
L’uomo supera se stesso, direbbe Pascal. Senza trascendenza egli rimuore nelle
sue piccole miserie e nella sua inguaribile fugacità. È l’uomo absconditus e
non revelatus, l’uomo che manca all’appuntamento fondamentale della sua vita, un’esistenza
che non raggiunge mai la sua essenza. Septimo die nos ipsi erimus: dopo le sei
giornate lavorative, il settimo giorno sarà il giorno del riposo. La frase di
sant’Agostino, che Bloch ha fatto propria, rimanda il compimento al futuro, non
quello di Bloch senza trascendenza, ma al futuro definitivo e assoluto, oltre
le soglie della cronaca e della storia.
VIVERE
LA MORTE
Il
credente vero vive la vita alla luce di queste convinzioni, non per sminuirla o
comprimerla nelle sue pulsioni ed esigenze, ma per arricchirla continuamente in
vista dell’ultimo traguardo. Come hanno visto non pochi filosofi anche recenti,
la morte non è semplicemente la fine ma il fine. Per Heidegger l’uomo è un
essere-per-la-morte (Sein zum Tode) e quando l’uomo l’ha introiettata nel suo
spirito passa dalla esistenza inautentica all’esistenza autentica. L’uomo
diventa uomo maturo, uomo vero. In genere i filosofi esistenzialisti, anche se
non credenti, hanno tutti parlato lo stesso linguaggio. E non è azzardato
pensare che il loro pensiero sia stato ispirato da quel salmo 89 che potrebbe
essere chiamato il salmo della contingenza e della finitudine umana:
«Ai tuoi
occhi, mille anni / sono come il giorno di ieri che è passato, / come un turno
di veglia nella notte. / Li annienti: li sommergi nel sonno; / sono come l’erba
che germoglia al mattino: / al mattino fiorisce, germoglia, / alla sera è
falciata e dissecca… / Gli anni della nostra vita sono settanta, / ottanta per
i più robusti, / ma quasi tutti sono fatica, dolore; / passano presto e noi ci
dileguiamo… / Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla sapienza
del cuore».
Un
impegno umano, un impegno cristiano, un impegno religioso. Giuseppe Dossetti
affermava che ogni cristiano è chiamato a «celebrare liturgicamente la propria
morte come atto fondamentale di culto e atto supremo della vita». La diuturna e
ininterrotta preparazione all’ultima messa, che si celebrerà nell’ultimo
giorno, sul letto della propria morte.
Nei
secoli di fede così si celebrava la morte. Aleksandr Solzenitzyn parla della
morte in certe regioni della Russia in questi termini: «Adesso egli ricordava
come morivano i vecchi nei suoi luoghi nativi, fossero russi, tartari o votjak:
non facevano i fanfaroni, non si ribellavano, non si vantavano che non
sarebbero morti mai, accettavano tutti la morte con calma. Non differivano la
resa dei conti, anzi si preparavano in silenzio e piano piano, decidevano a chi
sarebbe toccata la cavalla, a chi il puledro. Spiravano tranquilli, quasi
traslocassero in un’altra isola». A questo proposito dobbiamo ricordare con
grande ammirazione e invidia che anche i contadini del Tibet, sul finire della
vita, si recano per diversi giorni nei monasteri del luogo per prepararsi
spiritualmente alla morte. I credenti uniti insieme, nel nome della
trascendenza, questa cultura sono chiamati a diffondere per contrastare la
cultura dell’oblio della morte che noi stiamo respirando. Una missione comune
che viene prima dell’attenzione ai problemi tradizionali della giustizia, della
pace e della salvaguardia del creato.
La
nostra società ne guadagnerebbe anche per quanto concerne la soluzione dei suoi
sempre più ingarbugliati problemi. Un programma e un augurio.
Giordano Frosini