SPUNTI PER L’ANNO EUCARISTICO

EUCARISTIA E VITA CONSACRATA

 

L’apertura dell’anno eucaristico ci offre l’occasione di riflettere sul rapporto tra eucaristia e vita di speciale consacrazione. Lo facciamo presentando questa riflessione di padre McSweeney, tenuta a Roma il 26 ottobre scorso ai membri delle curie generalizie.

 

Comincerò con l’Ultima Cena di Luca. Osserviamo il forte contrasto fra la figura di Gesù e quella dei discepoli.

Gesù ha molto curato la preparazione della cena. Dichiara i suoi sentimenti con franchezza. “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15). Dopo aver parlato dell’imminenza del Regno, ha tradotto – come i profeti di Israele – le sue parole in gesti profetici, prendendo in mano prima il pane e poi il calice del vino facendone strumenti di auto-donazione. Identificandosi con il pane, dichiara che essi, mangiandolo, diventeranno un solo corpo con lui. Offrendo loro il calice, dichiara che chi lo beve entrerà nella nuova alleanza che sta per realizzare col suo sangue.

Solo dopo queste dichiarazioni e questi gesti, entrano in scena i discepoli. Il contrasto con Gesù non potrebbe essere più forte. Dopo le parole di Gesù, che annunziano il tradimento, Luca racconta: “Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò” (Lc 22,23). La risposta dell’evangelista sarà chiara: proprio loro, tutti quanti, fra poco faranno esattamente ciò. Seguono allora tre esempi di tradimento che si ripeteranno costantemente lungo la storia della Chiesa. Poiché il tradimento si siederà sempre alla mensa eucaristica.

In primo luogo sorge una discussione su chi di loro sarà il più grande. Segue la predizione da parte di Gesù del rinnegamento di Pietro. E terzo, in risposta all’avvertimento di Gesù riguardo ai tempi duri che stanno per arrivare, i discepoli sguainano due spade, simbolo derisorio di sicurezza, ma soprattutto segno che non avevano capito niente dell’insegnamento di Gesù riguardo alla violenza.

“Basta” risponde Gesù (Lc 22,35). Sì, davvero! Le due spade bastano per condannarli, come i due testimoni esigiti dalla legge. Pochi minuti dopo tutti si disperderanno per paura, abbandonando Gesù alla sua sorte.

Il contrasto fra Gesù e i discepoli è accentuato anche dal fatto che il discorso fra Gesù e loro non si limita solo al tema della loro debolezza, ma viene illuminato dalle sue promesse. Pur costatando lucidamente la loro fragilità, Gesù guarda oltre la loro caduta e assicura che dopo la prova diventeranno davvero discepoli. “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove”, dichiara; “e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio Regno e siederete a giudicare le dodici tribù di Israele” (Lc 22,28-30). Rassicura Pietro, ancora incapace di immaginare la forza che la paura avrà su di lui: “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

 

LA VISIONE LUCANA

DELL’EUCARISTIA

 

Anche se la storia della cena contiene elementi essenziali per capire la teologia lucana dell’Eucaristia, non è, però, completa. Segue l’incontro di Emmaus, vero punto culminante del Vangelo e complemento essenziale per una comprensione del sacramento (Lc 24,13-35). Qui lo scandalo del Messia che deve soffrire è superato e l’enigma delle Scritture è sciolto. Dopo l’incontro a mensa e il momento della “frazione del pane”, Gerusalemme non è più il luogo da sfuggire, la scena insopportabile della disfatta e della dispersione. Ora i due discepoli ritornano a Gerusalemme, che diventa il luogo della ricomposizione della comunità dispersa, luogo di incontri ripetuti con il Signore risorto e dell’effusione dello Spirito pentecostale. Ormai la frazione del pane vissuta in comunità diventerà il momento più intenso dell’incontro della Chiesa con il Signore risorto.

Luca, grazie allo spazio offerto dal fatto di aver scritto un secondo libro, gli Atti degli Apostoli, è in grado di sviluppare più ampiamente il suo insegnamento. Attraverso lo schema dei quaranta giorni, che intercorrono tra l’ascensione e la pentecoste, ci fa vedere i discepoli riuniti, “concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui (il Signore risorto)” (At 1,14). Non si fa menzione dei pasti, anche se nel capitolo dieci Pietro ricorderà il periodo precedente all’ascensione, in cui “noi abbiamo mangiato e bevuto con lui” (At 10,41). Invece dopo l’esperienza della Pentecoste, ci dirà che i discepoli “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42). Solo dall’effusione dello Spirito nascono insieme la Chiesa e i sacramenti e in particolare, l’Eucaristia. Sono frutti della Pasqua del Signore e del suo compimento, la risurrezione.

Occorre ora notare una cosa. Quando leggiamo i testi del Nuovo Testamento che parlano dello Spirito, la prima cosa che viene facilmente in mente è la terza persona della Trinità. Non è questa però la prospettiva biblica. Spirito santo o spirito di santità significa innanzitutto potenza di trasformazione che investe gli esseri umani, azione di Dio che raggiunge le persone nel più intimo di sé stessi, producendo segni, cioè, fenomeni come la gioia, l’esaltazione, la lode, la glossolalia, la capacità di testimonianza e di guarigione e via dicendo. Certamente la riflessione teologica scorgerà in quest’azione di Dio la presenza di fenomeni attribuibili alla terza persona della Trinità, però non dobbiamo invertire i piani. In primo piano nel Nuovo Testamento è proprio questa la nuova realtà verso la quale hanno guardato con speranza e desiderio intenso tanti profeti, cioè l’arrivo degli ultimi tempi, il tempo del compimento della speranza di Israele, l’era nuova, il tempo escatologico. Ogni volta che i discepoli si radunano per spezzare insieme il loro pane e bere al calice della benedizione lo faranno nella luce della risurrezione e nell’esperienza gioiosa dello Spirito dei tempi nuovi, consapevoli di vivere ormai nel mondo nuovo di Dio – o più precisamente nell’intersezione dei due mondi, il mondo vecchio che dura ancora e il mondo nuovo che si rende già presente e agisce all’interno della realtà attuale. Il credente si rende conto che, come dice Paolo, “passa la scena di questo mondo” (1Cor 7,31), perché la sua fede nel Risorto confortata dall’esperienza eucaristica scorge la novità di vita all’opera nella nostra storia pur duramente inquinata dalla presenza del male e segnata dalla fatica, la sofferenza e la morte.

 

LO SPIRITO CONFIGURA

I DISCEPOLI A GESÙ

 

È in un tale contesto che Luca ci fa vedere la trasformazione dei discepoli che hanno fatto, come abbiamo visto, una figura così patetica all’Ultima Cena. Coloro che si erano mostrati allora tanto preoccupati di rango e di potere alla mensa dell’Ultima Cena, ora si vedono occupati nell’umile servizio delle tavole delle vedove. Gli uomini troppo sicuri di sé, ma in realtà facile preda della paura in presenza della minaccia della violenza, ora si dimostrano capaci di affrontare le autorità con coraggio e ad assumerne le conseguenze con serenità, accettando il castigo e la prigione, “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). Non hanno più voglia di affidare la loro sicurezza alle armi, ma confidano nella forza dello Spirito e nella chiamata a testimoniare il nome di Gesù.

Tali fatti rientrano nel quadro di corrispondenze che Luca ha tracciato fra le vicende di Gesù nel Vangelo e le vicende dei discepoli negli Atti.1 Il quadro è assai dettagliato, ma per riferire l’esempio che forse colpisce di più, possiamo ricordare il parallelo fra la morte di Gesù e quella di Stefano. L’intento di Luca è di mostrare come i discepoli, cioè la Chiesa, oramai investita della potenza dello Spirito, riproduce nella sua esistenza quotidiana gli stessi tratti della vita di Gesù. Ritengo che questo quadro ci aiuta a ritrarre anche la vita consacrata, in quanto un tale modo di vivere mira a riprodurre la forma di vita scelta da Gesù, anche se, naturalmente, questa non appare ancora come tale negli Atti. Quale legame possiamo scorgere fra tali corrispondenze e l’Eucaristia?

 

EUCARISTIA E CARISMI

DELLA VITA CONSACRATA

 

Nel quadro riassuntivo dell’esistenza della Chiesa, che abbiamo citato sopra, l’Eucaristia è semplicemente enumerata con gli altri elementi costitutivi dell’esistenza della comunità – la Parola, la fraternità e la preghiera. Bisogna allora ricorrere al racconto dell’Ultima Cena e a quello di Emmaus, situati nel piano dell’insieme del Vangelo, per poter approfondire l’argomento.

Nell’esortazione post-sinodale Vita consecrata, alla vita religiosa è data un’impostazione fortemente trinitaria. L’origine della chiamata alla vita consacrata è attribuita al Padre che, secondo Gv 6,44, attira le persone a Gesù, il suo Figlio (17). L’amore del Padre sceglie le persone che egli vuole per vivere esclusivamente al suo servizio nel mondo in una forma di vita che la tradizione descrive in termini di “olocausto”. Tali riferimenti ci pongono in un contesto eucaristico, come vedremo più tardi. Come ‘via’ al Padre, il Figlio chiama a sé tutti coloro che il Padre gli ha dato per conformarli a sé stesso. Nel caso dei consacrati questa configurazione assume i tratti di una forma di vita, strutturata secondo le coordinate dei consigli evangelici, che tende a riprodurre più da vicino il modo di esistere di Gesù nella sua vita terrena, e a condividerne la missione (18). Tutto ciò è reso possibile esistenzialmente dallo Spirito Santo, che distribuisce carismi e doni, e guida, modella e accompagna i credenti sulla via della conformità con Cristo (19).

È proprio nella Cena del Signore che viene costantemente riproposto il cammino della nostra vocazione e missione. Seduti alla mensa del Signore, contempliamo e celebriamo il mistero in cui anche noi siamo immersi e coinvolti. È il momento centrale in cui la Chiesa incontra il suo Signore, che l’attira a sé, la configura a sé nello Spirito per presentarla al Padre “senza macchia, né ruga o alcunché simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27).

Nell’Eucaristia la Chiesa riprende tutto il contenuto della Cena ma ora nella pienezza dello Spirito, grande dono del Risorto. La nostra celebrazione terrena è assunta dal Signore, il protagonista principale. Egli loda e ringrazia il Padre attraverso la preghiera della sua Chiesa, che costituisce il suo corpo presente nella storia; rinnova la sua consacrazione battesimale, rinsalda i legami fraterni, specialmente attraverso la comunione sacramentale, rivitalizza il suo amore, immette in esso nuovamente l’energia dello Spirito perché possa testimoniare, annunziando l’amore del Padre per gli uomini e il suo progetto per la loro definitiva felicità.

 

L’EUCARISTIA

MISTERO DI OBBEDIENZA

 

Essendo memoriale del suo mistero pasquale, la celebrazione è il momento in cui contempliamo con stupore l’amore del Padre che ha condotto Gesù, in obbedienza al suo disegno, di consacrare la sua vita per noi (Gv 17,19). La preghiera eucaristica riprende il clima di benedizione in cui Gesù ha vissuto la Cena. «Nella sera in cui fu tradito, scrive il padre Giovanni Odasso, Gesù non solo accettò di compiere la volontà del Padre, donando se stesso fino alla “morte di croce”, ma anticipò, sulla terra, con i suoi discepoli, quel sacrificio di lode che egli avrebbe inaugurato, con la sua risurrezione, per l’eternità. In tale ottica la Chiesa, che celebra l’eucaristia, è la comunità del Risorto, che si unisce al suo Signore nella lode del Dio vivo e vero. In Gesù, Messia e Signore, il Padre ha veramente adempiuto la sua promessa di salvezza, inaugurando il mondo della risurrezione. Al tempo stesso, in ogni eucaristia i discepoli anticipano, come aveva fatto Gesù, il proprio sacrificio di lode nella certezza che il loro dare la vita, per Cristo e il Vangelo, è la via che conduce alla risurrezione, è evento salvifico che compie, nella esistenza di ogni giorno, la promessa racchiusa nella parabola del chicco di grano che, morendo, produce molto frutto» (cf. Gv 12.24).2

 

Benedicendo il Padre per il pane e il vino, Gesù accetta dal Padre la sua vita intera e perfino la sua morte, come dono con cui il Padre distruggerà il male e sconfiggerà il potere della morte. Avendo rinunciato alla dignità divina, diventando uno di noi, ora accetta di scendere ancora più in basso per sondare le profondità del dolore, dell’abbandono e della distruzione della sua umanità nella morte

(cf. Fil 2,5-11). Traccia per noi il cammino pasquale, il transitus o passaggio dalla vita nel mondo, soggetta alle condizioni dovute al peccato e alla mortalità, fino al regno del Padre.

Questo cammino pasquale è anche quello che i nostri voti ci mettono davanti, in quanto rappresentano un traguardo altissimo impossibile da raggiungere senza l’aiuto dello Spirito del Signore e un impegno quotidiano da parte nostra estremamente esigente. Nell’Eucaristia questo cammino è presentato e celebrato non tanto dal basso, come un compito arduo da realizzare, quanto dall’alto, dalla prospettiva della gloria, da quello del traguardo raggiunto da Gesù, e con lui e in lui, dalla sua Madre e dai santi, e in particolare dai suoi commensali dell’Ultima Cena (eccetto Giuda). Perciò l’Eucaristia è innanzitutto un canto di vittoria; è veramente eucaristia, cioè rendimento di grazie e lode. Per questo motivo i racconti della cena non parlano del pane azzimo, pane di afflizione della Pasqua giudaica, ma usano la parola artos, termine con il quale si indica il pane fermentato. Nella stessa linea, Paolo chiama il calice “calice di benedizione” (1Cor 10,17) e tramanda le parole sul calice nella forma, “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1Cor 11,25), indicando che nella celebrazione eucaristica, il calice è “alzato” per proclamare la salvezza realizzata nella risurrezione di Gesù e comunicato alla sua Chiesa nel dono della Alleanza Nuova. Perciò l’Eucaristia è “sacrificio di lode” dell’umanità nuova, portando a compimento quel particolare sacrificio di comunione dell’Antico Testamento (cf. Lv 7,11-15) offerto da chi aveva ottenuto dal Signore la liberazione da un imminente pericolo di morte e confortato anche dalla presenza dei suoi familiari e amici che si associano con lui nella lode e ringraziamento del Signore. Padre Odasso (sopra citato) nota l’eco di questa tradizione anche nelle parole del canone romano: “Ricordati di tutti i presenti … per loro ti offriamo e anch’essi ti offrono questo sacrificio di lode e adempiono i loro voti a te, Dio eterno, vivo e vero”.3

Associandoci così al canto di ringraziamento e lode di Gesù risorto, l’Eucaristia ci invita a rinnovare in noi l’ascolto profondo all’attrazione che il Padre opera in noi attirandoci verso Gesù (cf. Gv 6,44) e, in pari modo, la consapevolezza di essere per Cristo un dono affidatogli dal Padre (cf. Gv 6,37), e ci stimola a ripristinare la voglia di proseguire il nostro cammino al suo seguito. Accettando dalle mani del ministro il calice dell’Alleanza, sentiamo riecheggiare in noi la sua domanda rivolta a Giacomo e Giovanni: “Potete bere il calice che io devo bere?” (Mt 20,22). Lo Spirito vuole suscitare in ognuno di noi un ‘sì’ incondizionato che ci rilancia sul cammino pasquale della nostra propria vita. Se lui, prima di noi, ha dovuto imparare “l’obbedienza dalle cose che patì” per essere ”reso perfetto” e così diventare “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8) è perché il Padre vuole condurre tutti noi per la medesima via che lui ha percorso alla stessa ed identica gloria.

 

Cristo rinnova in noi, dunque, l’identificazione con il suo cammino pasquale ogni volta che celebriamo il suo sacrificio, punto culminante del suo impegno di realizzare con perfetta obbedienza il progetto del Padre. Il racconto dell’Ultima Cena, ripreso nella Preghiera eucaristica, ci richiama alcuni momenti di questo “tirocinio”, non soltanto l’ultima prova, cioè quella della croce resa presente nei doni eucaristici, ma anche tutto ciò che l’ha preceduto, compresa la fatica quotidiana attraverso la quale si è costruito il tessuto della sua vita obbediente. Prendo l’esempio che abbiamo già evocato sopra, cioè l’ultima tappa della formazione dei discepoli che si è realizzata attorno la mensa della Cena di addio.

 

Gesù, all’Ultima Cena, è in un certo senso davvero solo. Egli solo capisce la posta in gioco, egli solo si rende conto del kairos che incombe. Malgrado il loro rispetto e affetto per lui, i discepoli si perdono nelle beghe su chi di loro sarà il più grande in questa realtà gloriosa che sta per arrivare. Quando lui parla invece di tradimento e della prova, loro sono incoscienti, sicuri di sé, incapaci di misurare la profondità della loro immaturità spirituale. Eppure, obbediente al comando del Padre di formarli, egli li tratta con realismo e tenerezza; non insiste, ma dice semplicemente la verità su ciò che accadrà. Guardando oltre la loro caduta, profetizza invece la loro ripresa ed eventuale fedeltà fino alla morte, e gli promette un posto al banchetto del suo Regno.

 

Quando noi prendiamo in mano il pane santificato sappiamo che questo è il pane dell’obbedienza, il pane cotto nell’afflizione della passione, che però è diventato per noi il pane davvero buono, il pane del mondo nuovo, il pane che ci infonde la Sapienza. Chi mangia questo pane “non avrà più fame” (Gv 6,35). Nella comunione sacramentale Gesù risorto non solo infonde in noi la sua vita divina, ma vuole anche trasformarci per opera dello Spirito Santo nella mente e nel cuore. San Pietro Giuliano Eymard, profeta dell’Eucaristia dell’ottocento, insegnava che la comunione è il grande momento in cui Gesù vuole rinnovare in noi il gusto della verità e dei valori evangelici, convincerci del suo amore, unirci ai fratelli e sorelle sciogliendo rancori e pregiudizi, vecchi e nuovi, far nascere in noi il coraggio di affrontare le fatiche della fedeltà ed assumere gioiosamente il costo della crescita spirituale ed apostolica.

In molti istituti religiosi il momento privilegiato per permettere al Signore di realizzare questo scopo della comunione è la mezz’ora o ora di adorazione eucaristica, in cui l’opera misteriosa e feconda del Maestro interiore, iniziata nella celebrazione eucaristica, possa penetrare più profondamente nella personalità della persona consacrata.

 

SACRAMENTO DELL’ALLEANZA,

MISTERO DI AMORE

 

Riconosciamo nelle parole, “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15), l’anelito dell’amante divino che vuole unire a sé tutti noi facendoci una sola cosa con lui. L’eucaristia è il banchetto nuziale del grande Re. È nel quarto vangelo che si mette in evidenza questa dimensione. Riprendendo l’immagine così cara a Gesù nella sua predicazione, cioè quella del banchetto, Giovanni mette le nozze di Cana in confronto con l’Eucaristia attraverso il legame che stabilisce tra Cana e la croce. L’acqua incapace di purificare il popolo dell’antica Alleanza diventa nel mistero della passione del Figlio dell’uomo il vino nuovo e abbondante del Regno, simboleggiato nel sangue e nell’acqua che sgorgano dal costato del Crocifisso, vera potenza di purificazione e rinnovamento profondo. In questa prospettiva di banchetto nuziale riscopriamo costantemente a questa mensa anche il senso profondo del nostro celibato come disponibilità amorosa al disegno del Padre con lo scopo di dedicarci senza riserve al servizio della sua Sposa, e soprattutto di coloro che sono soli, abbandonati, carenti di ogni sostegno umano, in cui la vita non sembra avere niente del balsamo dell’amore, dell’affetto, della fratellanza.

 

DIMENSIONE ESCATOLOGICA

E IL MONDO NUOVO

 

In tutti i testi eucaristici del Nuovo Testamento ci sono riferimenti al Regno futuro. La dimensione escatologica è parte essenziale dell’esperienza eucaristica della Chiesa, come d’altronde è parte essenziale della vita consacrata. Mentre Paolo, Marco e Matteo collocano il riferimento al futuro dopo il racconto eucaristico, Luca, invece, lo mette all’inizio, facendone così l’orizzonte in cui leggere il racconto eucaristico che segue e suggerendo una più stretta vicinanza fra eucaristia e banchetto del Regno. In più, indica in modo assai sottile due dimensioni complementari del Regno. Riferendosi alla Pasqua, Gesù dichiara “non la mangerò più finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22,26), mentre dice del calice, “da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,18). Così il Regno appare da un lato come uno stato compiuto che è compimento della Pasqua giudaica, e dall’altro anche come un dinamismo che investe l’umanità immersa nella storia, immettendovi un elemento di radicale novità, una presenza anticipativa della gloria futura. Infatti è così con la presenza di Gesù risorto. Egli viene a noi infatti, soprattutto nell’Eucaristia, non dal passato ma dal futuro per confortarci, rinnovando in noi la speranza che in noi diventa così facilmente fiacca. Dai più antichi testi eucaristici, come quello della Didachè, risuona l’invocazione Marana tha! “Vieni, Signore!” mentre nell’introduzione al canto del Sanctus preghiamo che le nostre voci si uniscano già al coro degli esseri celesti, angeli e santi, che adorano eternamente davanti al trono del Dio santo.

Questa coscienza della presenza del futuro, della dimensione escatologica dell’Eucaristia, è ben altro che un’invenzione letteraria o una conclusione teologica. Nasce, già dai primi tempi, dall’esperienza della Chiesa, e, come Gesù di fronte alla sua passione, dall’esperienza del martirio. C’è, d’altronde, in Israele una lunga tradizione che raffigura la salvezza finale come un banchetto di ricchi e succulenti cibi e vini raffinati alla mensa del Padre in un felice contesto di guarigione, rinnovamento di tutti i rapporti umani e della stessa natura e di superamento della morte. Grazie all’evangelista Luca, quest’immagine ha un riferimento molto concreto nelle vicende di Gesù, come vedremo più dettagliatamente fa poco, soprattutto nella serie dei banchetti – dieci in tutto – che scandiscono il terzo Vangelo. Infatti, uno dei commensali nella casa di un capo dei farisei, osservando il comportamento di Gesù e ascoltando le sue parole, si commuove e rivolgendosi a Gesù esclama, “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!” (Lc 14,14).

 

«Conseguenza significativa della tensione escatologica insita nell’Eucaristia», dice il Papa, «è anche il fatto che essa dà impulso al nostro cammino storico, ponendo un seme di vivace speranza nella quotidiana dedizione di ciascuno ai propri compiti» (EE 20). Una vera esperienza eucaristica ci porterà a sentire la bellezza, lo splendore della gloria futura in modo che ci sentiamo spinti a superare la stanchezza, la resistenza, la tiepidezza per lavorare allo scopo d’infondere speranza nella gente sfiduciata e stanca, ponendo segni concreti, capaci di risvegliare la voglia di vivere e di vivere per ciò che vale veramente. Infatti, è proprio questo che Vita consecrata attribuisce alla vita secondo le beatitudini. «Questa attesa è tutt’altro che inerte: pur rivolgendosi al Regno futuro, essa si traduce in lavoro e missione, perché il Regno si renda già presente ora attraverso l’instaurazione dello spirito delle Beatitudini, capace di suscitare anche nella società umana istanze efficaci di giustizia, di pace, di solidarietà e di perdono» (n. 27).

Lontana dall’essere dunque una forma di evasione di fronte alla durezza della vita presente, è proprio la dimensione escatologica della celebrazione eucaristica che è capace di diventare un motore della missione: «l’attesa escatologica diventa missione», dice Vita consecrata. Possiamo dire che la presenza del Regno definitivo nell’Eucaristica costituisce un orizzonte e un dinamismo della missione, anzi “il principio ermeneutico di tutta la storia umana».4 Ci riassicura che la fatica del cammino, le molte delusioni che accompagnano il nostro lavoro, il dolore e sconforto di fronte alla profondità delle radici della violenza, della malvagità e dell’oppressione nel mondo, non avranno mai l’ultima parola. Ogni pur minimo sforzo, ogni atto di dedizione, ogni gesto di perdono, ogni ripresa del cammino dopo un momento di delusione e di scoraggiamento rappresenta un tassello nel mosaico della città celeste, una piccola perla nell’abito nuziale della sposa dell’Agnello.

 

EUCARISTIA E MISSIONE

DEI CONSACRATI

 

In quest’ultima parte desidero sviluppare brevemente la relazione fra eucaristia e la nostra missione come religiosi. Il Nuovo Testamento ci offre elementi assai concreti in proposito. Mi riferisco a due icone di grande significato, una che si trova nel racconto lucano dell’Ultima Cena, cioè l’immagine del servizio alla mensa, e l’altra che prende il posto dell’istituzione dell’Eucaristia nel Quarto Vangelo, cioè la lavanda dei piedi. In terzo luogo c’è la serie dei pasti nel Vangelo di Luca a cui ho già accennato sopra, tra i quali la moltiplicazione dei pani ha un’importanza particolare per il nostro tema.

Il servizio della mensa (Luca) e la lavanda dei piedi (Giovanni)

In risposta alla preoccupazione dei discepoli per la grandezza, Gesù propone un’immagine di umile servizio, sottolineando la differenza fra la mentalità della società umana (di allora e di tutti i tempi) e lo spirito che desidera animi i suoi discepoli. “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così: ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti, chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,25-27).

Alcuni esegeti credono, infatti, sulla base di questo testo, che Gesù, quando mangiava con i suoi discepoli, forse avrebbe assicurato alle volte il servizio a tavola, anche perché c’è un altro testo nel capitolo dodici, che va nello stesso senso; anzi è ancora più sorprendente in quanto proietta la stessa immagine oltre i confini della storia, evocando il ritorno di Gesù nella sua gloria. “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37). Non siamo abituati a pensare a Gesù Risorto in tali termini. Sembra quasi che Gesù non poteva pensare della mensa e quindi anche della mensa eucaristica senza raffigurarsi nei panni di colui che serve!

In questo modo l’icona di Luca del servizio a mensa, forma un dittico con quella di Giovanni, la lavanda dei piedi. Il legame con l’Eucaristia è certo, ma in Giovanni è proprio questo che viene maggiormente sottolineato. L’introduzione mette in evidenza il tema dell’amore di Gesù per i suoi, “sino alla fine” (Gv 13,1). La sua passione e morte è raffigurata nel gesto di deporre le sue vesti e riprenderle, dato che ha già usato gli stessi termini prima in rapporto alla sua vita. “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo” (Gv 10,17). Lavando i piedi dei discepoli egli offre un segno profetico della conseguenza della sua Pasqua, cioè la purificazione dai peccati nel lavacro battesimale, reso presente ripetutamente nel sangue dell’Eucaristia.

Il frutto eucaristico della comunione con Gesù viene evocato nelle parole rivolte a Pietro: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8). C’è anche il riferimento al tradimento (Gv 13,11) che non manca mai nei testi eucaristici. Segue finalmente la consegna, il comando di interazione, che riguarda non solo il compimento di un rito, definisce bensì uno stile di vita. “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,14-15). Poi aggiunge: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).

Così il legame fra la celebrazione eucaristica e l’etica cristiana, concretamente l’impegno per servire il bene delle persone e dell’umanità senza contare il costo, viene stabilito così saldamente che spezzarlo significherebbe ignorare il senso stesso del rito che si celebra, o, come dice Paolo, fare più male che bene (cf. 1Cor 11,17).

 

DIMENSIONE PROFETICA

DELLA VITA CONSACRATA

 

Rimane ora da riprendere la serie dei pasti che scandiscono il Vangelo di Luca. Tre di questi sono esplicitamente legati all’Eucaristia – la moltiplicazione dei pani, l’Ultima Cena, e la frazione del pane a Emmaus; ma tutti hanno qualcosa da insegnarci riguardo all’Eucaristia, e in modo particolare, riguardo alla missione della vita consacrata. In particolare, si ricollegano alla sua dimensione profetica trattata nei numeri 84-95 di Vita consecrata.

In ognuna di queste occasioni a mensa, Gesù esercita la sua missione profetica. Annuncia la vicinanza di Dio e del suo Regno. Si avvicina alle persone, come Levi e Zaccheo, considerate peccatori, offrendo loro la sua amicizia e invitandoli a cambiare vita. Non ha vergogna di sedersi a mensa con loro e con i loro amici. Accoglie il pentimento di una peccatrice e non respinge le sue effusioni di gratitudine espresse anche con gesti che destano facilmente scandalo; anzi propone proprio lei alla gente osservante della Legge come modello di amore e della conoscenza di Dio. Mentre sta a mensa un sabato in una casa di un fariseo guarisce un idropico, provocando scompiglio tra i dottori della legge. Non risparmia critiche e denunce davanti ad atteggiamenti di durezza, di legalismo o di una mentalità intrisa di sufficienza, autocompiacimento, superbia e chiusura. Sfida i suoi commensali a guardare in faccia le realtà sociali di emarginazione e miseria e a comportarsi in modo più corrispondente alla volontà del Padre suo che vuole che i beni della terra siano condivisi, affinché nessuno sia nel bisogno. “Quando offri un pranzo e una cena”, consiglia una volta a colui che l’aveva invitato, “non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14).

Tutto ciò, una volta collegato alla mensa eucaristica come intende Luca, ci richiama fortemente a esigenze che scaturiscono dalla nostra consacrazione religiosa in un mondo segnato da tanta disuguaglianza, esclusione e miseria. Allo stesso tempo non c’è in questi richiami nessun moralismo; anzi anche qui, come nell’episodio della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,17), la posta in gioco è quella della beatitudine.

In tutto ciò Gesù è il profeta che rivela al popolo la volontà di Dio. Il suo comportamento desta tante critiche proprio perché rivela un volto di Dio diverso da quello della teologia officiale. Fa presente un Dio che vuole avvicinarsi agli uomini, un Dio buono, misericordioso, premuroso di ricondurre il peccatore sulla retta via anziché condannarlo, un Dio che non scaccia con il peso della sua santità bensì invita la gente a riflettere e a ravvedersi. Questo è il Dio che Gesù il Risorto rende presente alla nostra mensa eucaristica, incaricandoci di diventare suoi testimoni e profeti nel mondo, ognuno nella linea del proprio carisma. A questa mensa, ammaestrati dall’insegnamento del Vangelo di Luca, incontriamo il medico che guarisce le ferite dell’umanità, il profeta che insegna la via di Dio, il missionario che invita tutti alla mensa del Regno, il misericordioso che offre perdono… Ognuno di noi, insomma, può incontrare nell’Eucaristia quel volto di Gesù che il suo proprio carisma è chiamato a incarnare e rendere presente nel mondo per aprire alla gente la via della salvezza.

Molti di questi temi si trovano condensati nell’episodio della moltiplicazione dei pani con chiari riferimenti eucaristici (Lc 9,10-17). E il grande simbolo evangelico della missione della Chiesa, del raduno di tutta la gente attorno la mensa del Padre. Giudei e pagani, gente della città e della campagna, ricchi e poveri, sani e malati, tutti si radunano attorno a Gesù. Luca ci dice che Gesù li accoglie, anche se non ci fu accoglienza per lui quando è entrato nel nostro mondo. Parla loro del regno di Dio, del progetto del Padre, e si dimostra sollecito per le loro necessità: guarisce “quanti avevano bisogno di cure”. Poi fa fare loro l’esperienza di comunità in gruppi di dimensioni umane, e li nutre con un pane misterioso, abbondante, che soddisfa veramente la fame dell’uomo.

 

Spesso è detto che questo episodio evoca l’Eucaristia ed è anche vero. Però fa qualcosa di più. Se da un lato è simbolo eloquente che rimanda al banchetto eterno di Dio, dall’altro funge non meno efficacemente come immagine della missione della Chiesa e per noi della nostra missione di consacrati. Lo possiamo leggere anche come un’immagine di ciò che Cristo vuole realizzare attraverso gli sforzi apostolici di comunità consacrate che hanno veramente imparato a celebrare l’Eucaristia come Pasqua del Signore.

 

Anthony F. McSweeney, SSS

Direttore, Centro Eucaristia, Roma

 

 

 

1 Ho riportato in annesso un quadro più dettagliato, preso dal commentario in inglese, di Charles H. Talbert, Reading Acts: A Literary and Theological Commentary on the Acts of the Apostles. New York, Crossroad Publishers, 1997.

2 P. Giovanni Odasso, C.R.S., Eucaristia e missione, per una riflessione teologica-catechetico-missionaria, articolo che riporta in forma ampliata una relazione svolta nel raduno dei professori dell’Istituto di catechesi missionaria, a Roma nella Pontificia università Urbaniana, nel 1995 e messo su Internet.

3 L’autore ri-traduce dal testo latino “in modo che risulti evidente che il testo liturgico latino si ispira esplicitamente al v. 14 del Salmo 50” (op. cit.).

4 Odasso, op. cit., p. 3.