UNO STILE TUTTO PARTICOLARE (11)

RELAZIONE DEL VERGINE

 

Esiste una modalità precisa e concreta tipica del vergine di vivere la relazione. In ogni rapporto egli desidera essere segno limpido dell’amore di Dio, non invade e non possiede, ma vuole bene e vuole il bene dell’altro con la stessa benevolenza di Dio.

 

Il vergine, abbiamo detto, deve adottare un suo proprio stile nel rapportarsi all’altro. Val la pena tornare a precisare e motivare ancora l’idea.

Anzitutto va detto a chiare lettere che la relazione è parte essenziale in un progetto di vita celibe per il Regno. La verginità è relazionale per natura sua, perché

– nasce all’interno d’uno scambio d’amore (con Dio),

– provoca la scelta di metter l’altro, molti altri al centro della vita, rinunciando a un rapporto privilegiato ed esclusivo con un solo tu,

– matura nella fedeltà a questa scelta autodecentrante, in una vita sempre più abitata dall’altro,

– torna a Dio arricchita da ogni relazione umana.

 

PELLEGRINO

DELLA RELAZIONE

 

Il vergine è questo pellegrino della relazione: “animale sociale” come nessun altro (=è aperto a tutti), ma anche “mistico della relazione” (=la vive con un particolare stile), e pellegrino proprio perché non “abita” una relazione unica e stabile su questa terra, ma s’offre a tutti …”in offerta speciale”, cioè gratis.

Nulla a che vedere col celibe così preoccupato della sua privata osservanza da difendersi dalla relazione, dal mondo tentatore, quasi costruendosi attorno una cortina protettiva antirelazionale, che tradisce di fatto la sua verginità e la rende doppiamente faticosa. Forse questo celibe-orso è oggi passato di moda (o si sono sofisticate le misure autodifensive), sostituito da un più moderno e disinvolto amicone-di-tutti/e, un po’ qualunquista nella relazione (per nulla espressiva della sua verginità), selettivo nei rapporti e pure approssimativo nella sua fedeltà celibataria.

Se la relazione è essenziale e nessun vergine può fuggire da essa, va pure detto, dunque, che la relazione va vissuta secondo uno stile da vergine, stile di cui il vergine stesso dev’esser quasi geloso. Anzitutto perché quello stile è la sua persona,1 è legato alla sua vocazione, è la sua verità e libertà. Secondo, poiché è attraverso esso che egli testimonia in modo visibile e convincente come Dio possa riempire il cuore umano e renderlo amante, anzi, sacramento della benevolenza divina. Altrimenti la verginità non dice nulla, è insignificante e persino brutta, o è solo legge, imposizione dall’esterno, e alla fine frustrazione e maledizione.

 

STILE RELAZIONALE

VERGINALE

 

Ma allora, se esiste una modalità precisa e concreta tipica del vergine di vivere la relazione, di voler bene e lasciarsi benvolere, tale modalità non può restare sottintesa o affidata al soggetto e all’istinto del momento, ma va delineata. Sarebbe grave omissione non precisarla né proporla nella formazione. Certo, senz’alcuna pretesa di descriverne in dettaglio le implicanze comportamentali, ma con l’intento di render evidente il raccordo tra valori ispiratori dell’opzione celibataria e condotta del celibe.

E neppure con una finalità moralistico-perfezionistica, ma per una questione di coerenza interna del celibe, grazie alla quale la verginità recupera il suo valore di segno universale, non solo comprensibile ma pure significativo per tutti. Lo abbiamo detto nel secondo intervento: proprio perché oggi la verità proclamata dalla verginità è culturalmente debole, c’è bisogno d’una testimonianza forte, ovvero nitida e inequivocabile, visibile e solare, senza compromessi e doppi sensi, subito leggibile come qualcosa di bello e appagante, per tutti appagante, da parte d’un vergine non solo convinto, ma anche contento.

In generale si potrebbe dire che stile del vergine è quello “di chi in ogni rapporto desidera esser segno limpido dell’amore di Dio, non invade e non possiede, ma vuole bene e vuole il bene dell’altro con la stessa benevolenza di Dio”.2 Ma se vogliamo specificare e declinare tale principio, potremmo dare queste indicazioni.

 

“TIRARSI IN DISPARTE”

 

Il vergine “si libera progressivamente dal bisogno di mettersi al centro di tutto”3 e impara ad adottare, all’interno della relazione, uno stile di discrezione, da un lato, e di capacità, dall’altro, d’amare anche intensamente e vivere profonde amicizie, ma facendo sempre emergere la centralità di Dio in ogni affetto umano, quel posto che può esser riservato solo a Lui.

Il vergine, con la sua scelta, vuole indicare a ogni uomo e donna quella verginità che è dono e appello per tutti,4 ricordando che laddove c’è amore lì c’è Dio,5 e se si vuole che l’amore umano rimanga fedele e diventi sempre più intenso, è necessario che ognuno rispetti quello spazio dell’altro che può esser occupato solo da Dio, perché il cuore umano è stato creato da Dio e solo l’Eterno lo può pienamente appagare. Per questo il centro spetta a Lui. Questo è il motivo teologico, o la forma che sta dietro alla norma.

Il vergine, infatti, tutto questo lo dice con un modo particolare di vivere la relazione: con lo stile del “tirarsi in disparte”. Che vuol dire, anzitutto, che il vergine è persona intelligente, dunque s’accorge quando qualcuno/a lo mette al centro del rapporto (cosa tutt’altro che scontata, dato che al centro …ci si sta molto bene).6 Secondo, è anche persona coerente, dunque a chi lo ama al punto di porlo al centro della propria vita, il vergine ricorda: “non sono io il tuo centro, ma Dio”. E si mette da parte, e non primariamente per non far peccati, ma perché chi gli vuol bene si volga a Dio.

E se qualcuno/a vuol inserirsi al centro della sua vita di vergine e dei suoi affetti, quasi vantando una priorità nel suo amore e promettendo pienezza d’appagamento, anche a questi egli rammenta, con tatto ancor più che con fermezza: “non sei tu il mio centro, ma Dio”.7 E, di nuovo, non in primo luogo per non commettere trasgressioni, ma per dire l’amore dell’Eterno come unico grande amore che appaga il cuore umano.8 E tutto con eleganza, senza veder il diavolo ovunque.

Forse Giovanni Battista, col suo netto rifiuto d’esser considerato il messia, è l’immagine esemplare di chi non usurpa un’identità che non è sua. Ma anche l’atteggiamento di Gesù è eloquente in tal senso, quando -cercato dalla folla (“tutti ti cercano”)- non si lascia trovare (“Andiamocene altrove”, Mc 1,37-38).

Finché un vergine può reagire così a certe sollecitazioni il suo celibato funziona.

 

SFIORARE E NON PENETRARE NÉ POSSEDERE

 

Il vergine deve saper vivere con libertà interiore relazioni impegnative, in cui gli è dato e chiesto di accogliere pienamente la vita dell’altro e di giungere fino alle soglie del mistero del tu, ma tutto questo dovrà imparare a fare con estrema delicatezza e grande tatto, con sobrietà e rispetto dei sentimenti altrui. Imparando l’arte del passare accanto sfiorando, con il suo relativo linguaggio. Arte finissima, che s’apprende solo con un lungo e faticoso controllo e affinamento dello spirito e della psiche, dei sensi e degli atteggiamenti, rispettando lo spazio dell’altro, anche quello fisico, perché, ecco il principio formale, non è il corpo il luogo né il motivo dell’incontro nella relazione verginale, ma Dio, la ricerca del suo volto e del suo amore.

Per questo il vergine impara il “linguaggio della delicatezza”, che è tutt’altro che rigidità scrupolosa né nasce dalla paura di contaminarsi, e neppur s’esprime con goffi imbarazzi o è tradito da imbarazzanti rossori, ma dice e svela la linearità d’una vita fedele alla scelta e alla ricerca di Dio, e capace di trasmettere la certezza che Dio è il vero e unico punto d’incontro di due esseri, sempre. Per questo egli vive molte relazioni anche con intensità, ma sempre sfiorando l’altro, ovvero evitando ogni atteggiamento o gesto che vada nel senso dell’invasione della vita altrui, della penetrazione dei suoi spazi, della manipolazione possessiva delle sue membra…

Se “non è casto colui che allunga la mano per dichiarare proprio l’oggetto dell’amore”,9 non è vergine colui che usa l’altro come oggetto e finisce per fare del corpo lo spazio e la ragione dell’incontro (com’è tipico di altri stati vocazionali). Castità, e ancor più verginità, vuol dire “rapportarsi sempre con gli altri come si entrasse in un negozio di cristalli”.10

 

IL BACIO DI FRANCESCO E L’ABBRACCIO DI TERESA

 

In ogni caso, nell’immaginario collettivo, la verginità resta sempre legata all’idea della rinuncia, più o meno eroica ma in ogni caso costosa, o quanto meno all’idea d’una rarefazione relazionale, d’una solitudine esistenziale, d’un impoverimento sentimentale. È idea dura a morire, e spesso legata anche a certa controtestimonianza. È chiaro che celibato vuol dire rinuncia, ma rinuncia saggia, cioè motivata dall’amore e capace di creare nel soggetto nuova capacità d’amare, nuovi spazi di libertà, nuovi gusti e attrazioni. Come accade a Francesco, che supera la naturale ritrosia e impara a voler bene d’affetto sensibile al fratello lebbroso, si sente attratto da un volto ripugnante e lo bacia. O come Teresa di Calcutta, che non solo soccorre il moribondo abbandonato, ma l’abbraccia, gli vuole un mondo di bene, lo cura e protegge, si sente attratta dalla sua umanità.

Questa è l’immagine della verginità, a questo mira l’opzione verginale, a trasformare il cuore, i sentimenti, gl’istinti… Francesco e Teresa non fanno solo i crocerossini né son mossi dalla preoccupazione di darci buon esempio, tanto meno fan finta o si sforzano di voler bene a quei poveretti, al contrario, li amano con tutto il cuore, perché il loro cuore è stato trasformato, la verginità l’ha cambiato e reso non più solo umano, pur amando in modo umanissimo e ricco di calore.

Questa straordinaria libertà è lo scopo della rinuncia del vergine, non il deserto dei sentimenti o l’inesistente “pace dei sensi”, né una perfezione che comporti una diminuzione della propria umanità o una malintesa seriosità (che rende antipatico il celibe), bensì la capacità di voler bene in modo del tutto inedito, non più secondo logica e linguaggio dell’attrazione istintiva ed egoista, che ama solo quel ch’è attraente e subito appagante, ma secondo tutt’altro criterio. Quello che deriva dal coraggio d’aver detto di no al viso più bello per esser liberi di voler bene a quello più brutto, come fanno Francesco e Teresa; o dalla scelta di non adottare più criteri selettivi, per imparare ad amare alla maniera di Dio, che fa sorgere il suo sole su tutti, e ama specie chi è più tentato di non sentirsi amabile. Allo stesso modo il vergine predilige chi è oppresso da quella tentazione.

Questa verginità è segno luminosissimo della caritas dell’Eterno o la prova più evidente che un cuore di carne può vibrare della passione di Dio per l’uomo.

 

IL LINGUAGGIO DELLA BELLEZZA

 

C’è una sorta di scommessa nella vita del vergine per il regno dei cieli: la scommessa che si può manifestare un’incredibile ricchezza di calore umano, e non solo umano, anche astenendosi da qualsiasi gesto e intimità.

Certo, questo implica un preciso cammino ascetico: ci vuole ascesi per dire di no a un istinto profondamente radicato, come ce ne vuole per imparare a non difendersi dal coinvolgimento con il tu, a non aver paura dei propri sentimenti, a lasciarsi voler bene e a riconoscere con gratitudine i segni d’affetto senza pretenderne sempre ancora con fame insaziabile, ad amare al di là dei vincoli naturali e di amicizia…

Ma l’ascesi della verginità non è solo quella dell’astensione, è soprattutto quella della bellezza. Il vergine rinuncia a qualcosa di bello (= l’amore coniugale) per qualcosa di ancor più bello, di conseguenza anche la sua testimonianza non potrà non esser bella. Bella perché nasce dalla certezza esperienziale che …Dio è bello e dolce è amarlo, bello è il tempio, bello è cantar le lodi dell’Altissimo, è bello star insieme in nome suo, è bella l’amicizia, è bello lavorare, godere e soffrire uniti, con tutta la fatica che comporta. Ma la bellezza diventa anche compito e urgenza, ovvero il vergine, reso sensibile alla bellezza, ne diviene artefice e fa di tutto perché tutto sia bello in sé e attorno a sé, e di quella stessa bellezza contemplata in Dio, dunque umana e divina, nella sobrietà creativa: che sia bella la casa, la tavola apparecchiata, la camera ordinata, che vi sia proprietà e semplicità nell’arredo, profumo di pulito e di buon gusto ovunque, eleganza e finezza nel tratto…, perché tutto lasci trasparire la presenza e centralità di Dio, Bellezza somma, e ognuno vi si senta a casa sua. La bellezza non è forse il punto più alto ove il bene e il vero s’incontrano?

In questo contesto di bellezza aumenta la qualità della vita, e anche i gesti assumono come un valore aggiunto, quello della dimensione estetica. Allora si apprendono le mille vie e sfumature del ricchissimo linguaggio simbolico dell’amore, oltre i vocaboli del linguaggio genitale o fisico-gestuale; e ogni cosa, parola e gesto, anche il più piccolo, diviene capace di esprimere attenzione e cura verso l’altro, stima e rispetto, servizio e dono di sé, affetto e solidarietà…

Se la bellezza è “un mondo penetrato dall’amore”, il vergine abita questo mondo, ne è custode e artista.

 

Amedeo Cencini

 

1 “Lo stile è l’uomo”, diceva G. Buffon.

2 CIVCSVA, La vita fraterna in comunità, 37.

3 Ibidem, 22.

4 Ne abbiamo parlato nel secondo articolo.

5 “Ubi caritas et amor Deus ibi est”. Va in tal senso la folgorante battuta di Pascal: “Se esiste l’amore, esiste Dio”.

6 Parafrasando la nota parabola evangelica si potrebbe porre qui la discriminante tra vergini intelligenti e stolte.

7 Cf B. Maggioni, “La lieta notizia della castità evangelica”, in La Rivista del clero italiano, 7-8(1991), 456.

8 In oriente, nella pratica della direzione spirituale, ancor oggi, come nel passato, è frequente che il dialogo tra guida e discepolo non avvenga seduti l’uno di fronte all’altro, guardandosi negli occhi e parlandosi direttamente, ma seduti uno accanto all’altro, oppure passeggiando uno a fianco dell’altro, o ancora, quando si tratta della confessione, rivolti entrambi verso un’icona o il crocifisso. Un modo molto chiaro di dire che nessuno è centro dell’altro, poiché Dio lo è di tutti.

9 M. Danieli, Liberi per chi? Il celibato ecclesiastico, Bologna 1995, p. 85.

10 E. Patriarca, Cari giovani, più sobrietà, in “Avvenire”, 7/III/2001, p. 18.