DOMANDE IN CERCA DI RISPOSTA

LE COMUNITÀ DEL FUTURO

 

Molte sono le domande poste nei capitoli, consulte, riunioni. Padre Rino Cozza,

dopo aver partecipato a tante di queste riunioni, cerca di darne una risposta e di individuare possibili linee di riflessione e ricerca.

 

Come saranno le comunità del futuro?         

 

Pretendere di rispondere a questa domanda può sembrare azzardato; è possibile però individuare alcune prospettive, mettendo in evidenza molteplici sintomi percepibili tra le pieghe del presente.

Il punto di partenza sta nel credere che l’attuale forma di vita religiosa è una risposta storica e non un modello a priori (Arnold). Già il messaggio finale del sinodo diceva in sintesi che le forme istituzionali possono essere transitorie, non è garantita la loro perennità. Oggi si è convinti che il peso della memoria ha accumulato soluzioni più per un fenomeno di inerzia che per convinta adesione. La maggior parte degli istituti sono consapevoli di questa situazione e cercano di portarsi a modelli diversificati e meno statici. Nel futuro la tradizione si identificherà sempre meno con le storicizzazioni. Alla staticità, dunque, sopravanzerà la dinamicità, vale a dire la capacità di adattamento continuo delle condotte, piuttosto che una semplice applicazione di operazioni precedentemente o altrove stabilite. Il “saper stare, qui, ora”, perciò comporterà una capacità di considerare attentamente le situazioni contingenti e ricercare in loco soluzioni adeguate attraverso la scomposizione delle risposte concettuali preconfezionate dalla tradizione, dopo aver saputo leggere la realtà a più livelli scegliendo poi sulla linea del possibile piuttosto che del perfetto. Per tutto ciò è richiesta una intelligenza in azione che predisponga momenti, cerchi soluzioni, elabori progetti. Il che è possibile attraverso un gruppo comunitario dalle interazioni fondate sulla fiducia, e soprattutto significativamente ancorate a un preciso territorio perché oggi i progetti nascono da «un intreccio fra ecclesiologia e vita consacrata, non solo nei grandi principi ma anche nelle realtà più locali e particolari».1

I nuovi modelli di vita religiosa saranno nuovi modelli di identità ecclesiale per i quali diocesanità non vorrà dire dispersione ma ricupero del valore della chiesa locale.

 

Un’altra richiesta rivolta al futuro è che l’essere fratelli sia punto di convergenza di una istanza spirituale e umana senza che una sia in contrapposizione all’altra. L’istanza umana, a differenza di ieri, accentua il valore della persona nella sua individualità, senza confonderla con individualismo o contrapponendola ad oggettività, identificando questa con la verità e la soggettività con la falsità o l’emotività.2 Con la carta dei diritti della persona che mette in risalto i diritti naturali sono andati a crearsi nuovi modi di essere all’interno di ogni tipo di società, compresa quella religiosa. Lo stato – diceva Umberto Bobbio – è fatto per l’individuo e non il contrario e su questa lunghezza d’onda si sono sintonizzate tutte le istituzioni. La nuova concezione dell’identità individuale porta a scoprire l’ideale della fedeltà al proprio modo di essere come prioritario di fronte ad altri tipi di imperativo o costrizione esterni.3

Queste considerazioni possono essere viste come «cedimenti agli effluvi del postmoderno» ma il concetto di nuova soggettività va decolpevolizzato anche se esiste il rischio di un atteggiamento involutivo e di caduta nel relativismo. Credo che questo passaggio richiederà molto tempo com’è avvenuto ad esempio per un altro principio: il secolo XIX si è aperto con la condanna della «funesta libertà di coscienza» (M. Laeng) per finire, dopo circa ottantanni, con l’invitare all’obiezione di coscienza. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con atteggiamenti anarchici: ogni istituzione ha bisogno di chi si ponga in autorità ma il nuovo sta nel passaggio dall’autorità che preserva se stessa (istituzione) servendosi delle persone, ad autorità a servizio delle persone.4 Ne consegue che nel riflettere sull’obbedienza occorrerà liberarla concettualmente dal binomio superiore-suddito, perché altrimenti, comunque vada, a disobbedire non può essere che il suddito, mentre il discorso sull’obbedienza deve avere forte «il riferimento alla volontà di Dio» (cf. Gaudium et spes 17).

Un’altra novità che si fa strada è quella di comunità pluralisticamente composite: religiosi/e laici e laiche, sposati o no, presbiteri, che convergono nell’unità di carisma. Alcune caratteristiche sono già abbozzate nello strumento di lavoro del Congresso 2004 dove si dice che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità, nuove forme di organizzazione e di collaborazione aperta e flessibile con tutti gli uomini e le donne di buona volontà».5

Anche lo strumento presinodale vedeva la necessità di analizzare il fenomeno delle nuove forme chiedendosi se si potrà pensare a delle fraternità in cui possano entrare persone sposate o coloro che non fanno vita comune o non professano i tre voti tradizionali.

 

Un altro problema che interpella il futuro è quello di possibili forme accanto alle attuali, di consacrazione ad tempus.6 La questione non è da oggi se sotto forma di domanda si ritrova nello strumento presinodale dove si accenna a fraternità in cui si ritrovano persone che si impegnano per un certo periodo e se a livello di abati internazionali sono anni che viene fuori la proposta di permettere un monachesimo temporaneo.7 Di fatto già ci sono varie forme di vita consacrata con soli voti annuali.

«Un fattore da considerare è che la maturità della persona non dovrebbe essere intesa in senso oggettivo, ossia con un riferimento astratto a un modello, ma soggettivo, con una concreta attenzione alla persona».8 Può così accadere – riporto il pensiero di M. Pasini osb in una riflessione apparsa su Commentarium pro religiosis et missionariis – che il soggetto «maturo in un determinato momento e in relazione a una determinata decisione non possa essere più considerato come tale in seguito, emergendo in lui e di lui ciò che prima non sapeva né poteva sapere, ma che ne modifica profondamente l’autocoscienza».

È questa la ragione per cui «la definitività di una decisione non significa la sua immodificabilità, che la irrevocabilità di una decisione non significa la sua irreformabilità».9 La questione ai nostri giorni si è fatta critica perché «abbiamo, di fatto, dovuto constatare che il giovane contemporaneo e non soltanto il giovane, l’uomo contemporaneo non è portato alla definitività di un impegno, dobbiamo prenderne atto. Come gestire questo problema è un altro paio di maniche. Probabilmente dobbiamo essere un pochino più creativi in tutto questo; forse però in questa direzione ci potremmo muovere anche per ringiovanire un po’ e dinamicizzare il nostro essere religiosi/e, quindi non pretendere più certe fissazioni che, poi, alla fine si risolvono in una specie di invecchiamento assolutamente irremovibile.

Dovremmo allora, ricuperare quei valori lì, ma come?».10 Secondo padre Gargano il problema potrebbe essere in parte risolto reintroducendo in forma nuova le formule degli “oblati”, dei “donati”.

Quanto fin qui detto è in prospettiva di repertori di comportamento nuovi che hanno in comune il mettere al primo posto la prassi: mi spiego con un’affermazione del ministro generale dei minori: «I capitoli riescono a elaborare premesse spirituali, teologiche carismatiche in linea con l’oggi per poi calarle sull’oggi. Forse bisogna capovolgere il tragitto: partire dall’oggi, che è la cosa più concreta in cui siamo immersi per vedere quale risposta teologico-carismatica possiamo dare».11

 

Per risolvere la mancanza di vocazioni è sufficiente adeguarsi alle varie esigenze rifondative?

 

Anche quando la figura del religioso/a ritornasse ad avere il capitale di riconoscimento che aveva nel passato il problema vocazionale non troverebbe ancora risposta almeno sulla linea delle attese per il fatto che sono in crisi i presupposti della vocazione cioè la religione (fede) e la religione cattolica in particolare.

Per quanto riguarda la religione c’è da dire che mentre prima, costituiva la principale risorsa simbolica per spiegare e legittimare l’esperienza,12 oggi il patrimonio di simboli e di proposte di cui è depositaria la religione si è indebolito nella sensibilità dei giovani anche per il fatto che le evidenze razionali sono sempre più distanti dalle affermazioni della fede, per cui il credibile disponibile dell’intelligenza moderna si è evoluto rispetto a quello del passato. Le credenze religiose sono transitate dal ruolo di certezze al rango di opinioni13 e i valori non rappresentano più una evidenza collettiva. Per quanto riguarda poi la religione cattolica si osserva che nella modernità avanzata non mancano indizi di sacro ma la loro presenza non è necessariamente congruente con la proposta cristiano-cattolica.14 È diffusa specie tra i giovani la percezione che vi siano molti percorsi di accesso alla verità religiosa in rapporto alle diverse culture di partenza con la conseguenza di relativizzare la fede di appartenenza sia rifiutando l’idea di vera religione, sia introducendo il dubbio che non esista una verità assoluta.15 Inoltre si va facendo strada il dubbio – in giovani e adulti – che la religione non sia più in grado di presentarsi come il principio organizzatore della vita sociale e morale;16 e che il cristianesimo non riesca più ad essere il fattore che ispira e informa la storia. Ciò non significa che la vocazioni non ci saranno più, ma che sorgeranno soltanto come conseguenza di una evangelizzazione profondamente nuova e spiccatamente missionaria.

Un tempo la spiritualità di un carisma costituiva il proprio, esclusivo, di una data forma di VR; oggi quella stessa spiritualità tende a sdoganarsi dalla VR: è un fatto di forza o di debolezza?

 

Nel processo rifondativo il punto di partenza per ogni famiglia religiosa è l’accoglienza di queste alleanze profetiche, come una questione radicale dell’esistenza consapevoli che un sistema chiuso va verso l’entropia e l’asfissia: laici e religiosi sono due polmoni che favoriscono la dinamica respiratoria.17

In alcuni istituti religiosi si è molto riflettuto sull’ispirazione originaria dei fondatori e della fondatrici: «quando ciò è accaduto si è riusciti a comprendere che il carisma ereditato è un dono per tutta la Chiesa e che pertanto può e deve essere condiviso con altre persone». Questa consapevolezza che ci porta ad accogliere e promuovere queste novità come dono di Dio si esprime oggi con un linguaggio nuovo: «carisma condiviso», «spiritualità condivisa», «missione condivisa».18 Si tratta di imparare sempre più a spartire con i laici i propri carismi, intraprendendo nuovi percorsi di comunione. Questa è la giusta risposta «alla richiesta di laici e ministri ordinati che chiedono di condividere la nostra ispirazione spirituale»19 che darà frutto quando il lavoro con i laici non sarà considerato come un lavoro aggiunto, ma una condizione favorevole per nuove ispirazioni e come una opportunità per noi di lavorare con compagni che sono facilitati dalla loro laicità ad operare il collegamento tra i contenuti del Vangelo e le situazioni storiche.

È tempo dunque di versione secolare del carisma, e allora la domanda è: siamo in grado di accettare nuove espressioni di esso capaci di liberare nuove energie? Che significa: sappiamo essere persone aperte alla novità, forti della propria identità? Questo sarà un elemento di vigore anche se ora non è così perché ogni carisma è tentato di identificarsi chiudendosi, ma in una istituzione «centrata primariamente nella manutenzione della sua struttura, della sua efficienza amministrativa e del suo sistema concettuale (ortodossia), ai laici spetta poco spazio e soprattutto facilmente viene negato un ruolo di corresponsabilità e protagonismo».20

La novità cui ci chiama il tempo che viviamo è di presentare il carisma come progetto capace di generare identità autentiche, religiose e laiche. Ma questo nuovo non deve nascere da stanchezze: il carisma ai laici dieci anni fa aveva la freschezza di una inedita possibilità ai fini di ricchezza, oggi si è caricata della pesantezza che deriva dall’imposizione per non dover morire.

Il rinnovamento nell’attuale momento di creatività culturale, deve spingersi a nuovi orizzonti, ad esempio portarsi dal credere che siano le opere ad aver bisogno di confratelli giovani, al credere che è il carisma ciò che deve diventare giovane, cioè risposta all’oggi, e questo ad opera di confratelli e no.

Uno dei problemi con cui oggi un istituto deve fare i conti non è soltanto quello della mancanza di vocazioni ma quello dello “stato di vitalità” dei confratelli. Che cosa sta all’origine del pericolo di collasso del capitale sociale?

Lo stato di vitalità è desunto dal “ben-essere” dei suoi membri oggi particolarmente minacciati da cause plurime e talvolta contrapposte. Il numero maggiore di religiosi/e è dato da coloro che hanno vissuto una vita all’insegna di scelte o posizioni stabili, ordinate, sicure che oggi non hanno più itinerari rassicuranti, fonte di certezza per tutti. In queste persone la tendenza alla conservazione prevale nettamente su quella del cambiamento che viene quasi sempre temuto prima e vissuto poi in modo traumatico perché il salto nel buio tende a creare uno stato di ansietà fonte della paura che paralizza. In altri casi lo stato di vitalità è compromesso dal non soddisfatto bisogno di espressività dei soggetti, dal non essere riconosciuti e valorizzati, nelle competenze acquisite, oppure non messi nella situazione di vivere la loro età.

Ci sono altri, anche persone con ruoli di autorità di lungo corso, che sono arrivati ad accettare il cambiamento ma non quello permanente, perché abituati a semplificazioni rassicuranti piuttosto che a soluzioni complesse; attrezzati al prevedibile più che al suo contrario.

C’è gente, infine, affaticata dal pluridecennale cammino compiuto verso nuove mappe concettuali che non hanno trovato consenso.

Per tutte queste categorie di persone le conseguenze sono identiche: disturbi caratterizzati da stati di esaurimento emozionale (burn-out), assunzione di atteggiamenti cinici e spersonalizzanti, scoraggiamento e frustrazione, tendenza ad ammalarsi. In questo momento la via d’uscita certamente non sta nella unicità di risposte a stati d’animo diversi. Rimane il fatto che in una società dinamica chi è passivo si trova nei guai e un gruppo sociale che non riesce a sognare si irrigidisce nel ritualismo e decade.

Il quadro descritto non deve far pensare che ineluttabilmente a questo sono ricondotti i religiosi/e, perché sono molti di più coloro per i quali la vita religiosa è stata e continua ad essere la migliore delle ipotesi, umane e spirituali, su cui investire la vita ed averla in abbondanza.

 

Rino Cozza csj

1 Secondin B., Consacrazione e Servizio 1 2004).

2 Tacconi G., Alla ricerca di nuove identità, elledici.

3 Giordan G., in Consacrazione e Servizio, 11/ 03.

4 Giordan G., in Consacrazione e Servizio, 11/ 03.

5 Instrumentum Laboris, 2004, 73.

6 IL 2004, 37; VC, 56; Propositio 33.

7 Gargano I., in Consacrazione e Servizio, .7-8, 2003.

8 Dall’Osto A., in Testimoni, 7, 2003.

9 ib. in Testimoni, 7, 2003.

10 Gargano I., in Consacrazione e Servizio, .7-8, 2003.

11 Ministro generale minori.

12 Camoletto Ferrero R., Sfide per la Chiesa del nuovo secolo.

13 Garelli F., Sfide per la Chiesa del nuovo secolo.

14 Camoletto- Ferrero R., Sfide per la Chiesa del nuovo secolo.

15 Garelli F., Sfide per la Chiesa del nuovo secolo.

16 Camoletto Ferrero R., Sfide per la Chiesa del nuovo secolo.

17 Padre Generale Fatebenefratelli.

18 Instrumentum Laboris 2004; RdC 30-31.

19 Instrumentum Laboris 2004, 80.

20 Cattani O., Rifondare nella condivisione, in Testimoni, 4, 2000.