A DIECI ANNI DAL SINODO AFRICANO

C’È ANCORA MOLTO DA FARE

 

I cinque grandi temi del sinodo messi a confronto con gli orientamenti emersi nella realtà attuale del continente mostrano che resta ancora un lungo cammino da percorrere. Sono temi tuttora validi, che necessitano di un rinnovato sforzo per tradurli in atto.

 

Nel 1994 si tenne in Vaticano il primo dei sinodi continentali. Sarebbe stato seguito da altri tre. All’inizio i vescovi africani avevano chiesto, secondati dalla richiesta di tanti teologi africani o legati alla chiesa d’Africa, un concilio africano, come ce n’erano stati nell’antichità, un autentico concilio decisionale alla maniera dei concili ecumenici della Chiesa. Ovviamente questo era chiedere troppo… Così invece del concilio venne un Assemblea speciale del sinodo dei vescovi per la Chiesa in Africa e la sua missione d’evangelizzazione. Non era la stessa cosa, ma poteva essere già qualcosa. Esso si tenne dal 10 aprile all’8 maggio 1994.

I temi emersi dalla consultazione dei vescovi erano stati cinque: l’evangelizzazione del continente africano, l’inculturazione della fede, il dialogo, la giustizia e la pace, i mezzi della comunicazione sociale che erano stati anche i temi dibattuti nelle sessioni dell’assemblea sinodale. A conclusione il papa aveva pubblicato un’esortazione apostolica Ecclesia in Africa che raccoglie le indicazioni del Sinodo e che era stata promulgata a Yaoundé il 14 settembre 1995.

 

A DISTANZA

DI DIECI ANNI

 

A distanza di dieci anni è lecito chiedersi se questo sinodo si è concluso (nel senso stretto della parola chiudere) con un documento finale che, anche se posto sotto l’autorità del papa, rimane un documento per la storia e per gli archivi, oppure se ha innescato un movimento e un processo di crescita della Chiesa in Africa. La domanda può sembrare indiscreta, ma è la risposta che è imbarazzante e impegnativa. Ma non possiamo eluderla. È purtroppo facile che un documento che viene alla fine di un sinodo finisca per dire tutto, troppo, e non riesca a enucleare quelle alcune idee che funzionano da leva e che mettono in moto la pastorale facendo crescere le diverse chiese verso delle mete comuni.

A nostro modesto avviso, il sinodo ha aperto degli itinerari pastorali che attendono ancora di essere percorsi con coraggio e con efficace determinazione. Nella mentalità africana, che è fondamentalmente orale, i documenti scritti, anche se sono emanazione della Santa Sede, non hanno lo stesso valore che le esperienze condivise e le ricerche fatte insieme con pazienza e con senso di comunione. Per questo le indicazioni del sinodo e di Ecclesia in Africa attendevano e attendono di essere portate avanti in una ricerca comune, perché la sola rilettura di quello che il sinodo ha detto, non potrà mai dare alla Chiesa alcuna spinta efficace.

In questa sede ci proponiamo di toccare alcuni dei temi centrali del sinodo del 1994 per vedere quanta strada resta ancora da fare.

 

INCULTURAZIONE

DELLA FEDE

 

È un termine molto usato in questi ultimi vent’anni, perfino abusato, perché ridotto alle sue espressioni più facili e accessibili, che indica un obiettivo importante e necessario nella vita della Chiesa in Africa, ovunque anche dove se ne parla poco. In certi ambienti l’inculturazione è diventata una bandiera del rinnovamento e dell’aggiornamento della Chiesa. Ma spesso – almeno così sembra – ci si paga di parole e di buoni desideri senza arrivare mai a toccare il vero nodo della questione.

L’inculturazione è un processo «profondo e globale, difficile e che richiede tempi lunghi»: sono espressioni dell’enciclica Redemptoris missio (52). In altre parole è un cammino lungo che si deve mettere in cantiere. Ma c’è di più. Mons. Peter Sarpong, vescovo di Kumasi in Ghana, si chiedeva se tutti i vescovi del sinodo, parlando di inculturazione, pensavano alla stessa cosa! Essa non è ancora realizzata quando si danza al suono dei tamburi durante le celebrazioni liturgiche. Anche in san Pietro per la celebrazione di apertura e di chiusura del Sinodo africano, si sono fatti canti e danze tipici della tradizione africana, molto belli e ben eseguiti. Una prima assoluta, che ha varcato la barriera rituale invalicabile fino allora. Ma basta?

Tutti coloro che parlano di inculturazione sono d’accordo nel dire che essa deve andare molto più in profondità delle danze, dei canti e dei rituali. Essa deve trasformare o convertire una cultura, l’insieme cioè dei valori e dei criteri che costituiscono la visione della vita di un dato gruppo di persone. Il messaggio della salvezza del Vangelo entra – o dovrebbe entrare– nella vita della gente e rigenerarne i criteri di valutazione. Finché, per esempio, il concetto dell’autorità cristiana come servizio (e non come il potere di vita e di morte sui propri sudditi), il concetto della gratuità, della giustizia e della sincerità e della trasparenza, tanto per citarne alcuni dei più visibili, non saranno entrati nella prassi e nell’ethos della comunità cristiana, per lo meno in quella dei suoi ministri, non si potrà parlare di un’avvenuta inculturazione del Vangelo. L’impressione è che in Africa si è cercato di fare molto a livello accademico e intellettuale da parte dei teologi africani per tradurre la nostra teologia cristiana in forme comprensibili per la mentalità africana, ma molto resta ancora da fare per tradurla in vita pastorale delle comunità.

La teologia cristiana, per poter essere presentata «in modo comprensibile e persuasivo» (Paolo VI in Evangelii Nuntiandi, 3), dovrà essere ripensata alla luce della situazione africana e del suo contesto sociale e politico. Anche qui mi pare che non abbiamo ancora raggiunto un livello soddisfacente. La paura delle sanzioni da parte del Vaticano blocca la riflessione e la costringe alla ripetitività.

La teologia africana dovrà ancora impegnarsi nella riflessione sul mistero di Dio che vede e sente la miseria e il grido del suo popolo e lo conduce, accompagnandolo e sostenendolo, come ha fatto con Israele al tempo dell’esodo, sui cammini della sua liberazione dalla paura, dalle guerre, dall’ingiustizia e dal sottosviluppo che uccide le residue speranze di futuro di questo continente alla deriva. Un Dio della vita e della liberazione. Così pure la teologia africana dovrà rimettere in luce il ruolo di Cristo, signore della vita, pace e riconciliazione dei popoli, rileggendo la cristologia e acculturandola alla attuale situazione dell’Africa.

L’evangelizzazione del continente africano, infine, dipenderà per molto da una visione di chiesa autenticamente aggiornata ai concetti chiave del concilio: una Chiesa popolo di Dio, sacramento di salvezza, mistero di comunione. Nel contesto africano le Note della Chiesa non potranno essere ridotte alla sola apostolicità. Sarà invece necessario ritrovare e rinnovare la coscienza della sua santità, insieme con la unità e la cattolicità geografica ed antropologica. Una Chiesa in cui l’accento fosse messo unilateralmente sulla struttura gerarchica e la successione apostolica, dati necessari e indiscutibili perché essenziali, rischierebbe di non sviluppare (come di fatto spesso è successo) le altre caratteristiche della Chiesa e della missione, come per esempio l’attiva partecipazione dei laici alla missione della chiesa, il ruolo della donna che in Africa è fondamentale per lo sviluppo e l’evoluzione della società, l’impegno storico di ogni cristiano a rinnovare la società africana, compiti che sono oggi di grande importanza.

Solo così nascerà una Chiesa aperta e coraggiosa secondo le proposte del concilio Vaticano II, una Chiesa che non sia prima di tutto né solo un’istituzione pubblica, ma come dovrebbe essere, una famiglia secondo la chiara indicazione del papa in Ecclesia in Africa (n. 63).

Anche per questo è fondamentale una riflessione sul Figlio come Colui che apre la strada della comunione trinitaria, una famiglia in cui il Cristo, unigenito del Padre, fa entrare e agire tutti i suoi fratelli e sorelle in una responsabilità realmente condivisa.

 

L’IMPEGNO

PER LA GIUSTIZIA E LA PACE

 

Il tema della giustizia e della pace è strettamente collegato a quello dell’inculturazione della fede, e Dio sa quanto bisogno c’è attualmente di questo impegno, che non è per nulla secondario nella missione della Chiesa in Africa. Un’evangelizzazione che lo lasciasse cadere o lo trascurasse, non sarebbe che un’evangelizzazione superficiale e destinata a spegnersi nel tempo. Da quel 1994, quando gli echi tragici del genocidio in Rwanda erano risuonati lungamente nel corso del sinodo, la situazione della giustizia e della pace in Africa non è molto migliorata. Anzi. Le guerre precedenti sono andate avanti, con pochissime eccezioni, anche queste non ancora del tutto concluse, e non se ne vede la fine: ai soliti – si fa per dire – scenari di guerra, Sudan, Angola, Burundi, Rwanda, Casamance, Sahara, Sierra Leone e Liberia, si sono aggiunti, in questi dieci anni, il Congo-Brazzaville, la Guinea Bissau, la Costa d’Avorio, il Congo-Kinshasha, la Repubblica Centroafricana, il Darfur.

La situazione sui fronti di guerra non accenna a migliorare e la voce della Chiesa non è sempre stata così forte da farsi sentire dai politici e dalle popolazioni. Non è necessario che la Chiesa cerchi il prestigio di una presenza da protagonista nei conflitti, ma se essa è esperta in umanità e comunione, la sua voce deve essere critica, come quella dei profeti, deve essere “voce di chi non ha voce” che non tace davanti a questi misfatti perpetrati sulla pelle della gente. In troppe occasioni la Chiesa, almeno nella sua dimensione gerarchica, non riesce a liberarsi dai condizionamenti del passato e dalle paure del presente per difendere l’uomo e la famiglia umana dalle miserie della guerra, dalle ingiustizie perpetrate contro il proprio popolo. In Africa ci vorrebbero delle voci profetiche alla maniera di Helder Camara o di Oscar A. Romero. Voci come quella di Jean Marc Ela (Le cri de l’homme africain) si sono perse nel silenzio generale… Sono venute meno voci coraggiose e la presenza dei missionari stessi è oggi molto ridotta e spesso essi vengono invitati a non gridare troppo.

 

IL DIALOGO

INTERRELIGIOSO E CULTURALE

 

Il dialogo interreligioso e culturale, pur raccomandato dal sinodo e dalla esortazione pontificia (66) non sembra aver trovato molto spazio e ascolto. Bisogna ammettere che l’emergenza del terrorismo internazionale di questi ultimi tre anni non ha favorito il dialogo con l’Islam, che in Africa è la forza religiosa più importante presente sul territorio di molte chiese cristiane. E forse proprio questo momento particolare di tensione internazionale porta molti a non considerare più le vere radici del terrorismo, e a credere invece che siamo davanti a uno scontro di civiltà e alla conseguente necessità di serrare le fila in una forma di chiusura su di sé che è lontana dalla prospettive della Gaudium et Spes.

Basta leggere la recente intervista dell’arcivescovo di Tunisi, nuovo presidente della conferenza episcopale regionale del Nord Africa, sul dialogo interreligioso in cui egli afferma con forza la necessità di una presenza identitaria dei cristiani nel Maghreb: «Gli attentati compiuti dai fondamentalisti mettono in discussione la nostra opzione per il dialogo, perché va sempre più diminuendo la reciproca fiducia» (Il Regno attualità, 12/2004, p. 418). Il tono è lontano da quello cui ci avevano abituati mons. Tessier e mons. Claverie, il vescovo di Orano ucciso nel 1996. Che ci sia bisogno di consolidare l’identità cristiana dei nostri fratelli, è assolutamente certo, ma sarebbe un guaio se questo avvenisse chiudendo le porte e i canali di comunicazione con il mondo islamico che nella sua gran parte è moderato e non segue l’islamismo politico di alcuni gruppi fondamentalisti.

Alla conclusione di queste riflessioni, mi pare emergere più che mai l’attualità dei temi del sinodo e la necessità di riprenderli, senza stancarsi, per cercare di tradurli nella pratica pastorale di tutti i giorni. Se i numeri hanno un qualche senso e valore (e almeno a Roma lo hanno!) è indubbio che la chiesa cattolica in Africa vive oggi un momento di crescita notevole, almeno dal punto di vista numerico. Proseguendo quella crescita rapida che la caratterizza ormai da oltre cinquant’anni, essa raggiungerà, alla fine di quest’anno, i 110 milioni di fedeli battezzati. Nel 1949 erano 11 milioni. I vescovi autoctoni sono oggi 400 sui 500 vescovi che lavorano in Africa, mentre al tempo del concilio Vaticano II erano 60 sul totale di 311 vescovi che allora contava la chiesa nel continente. Sono numeri che dicono la crescente consistenza della Chiesa in Africa e che danno ragione della convocazione di un sinodo per l’Africa. Ma sono, nello stesso tempo, dei numeri che dicono anche l’urgenza di accompagnare questa crescita con una pastorale autenticamente aggiornata, e con una rinnovata coscienza della missione della chiesa e delle sue implicazioni teologiche e storiche. I temi del sinodo non hanno perso di attualità. Anzi. Più che mai c’è bisogno di proseguire sulla strada tracciata dal sinodo e dalla esortazione di Giovanni Paolo II Ecclesia in Africa e di proseguire coraggiosamente nell’attuazione del concilio Vaticano II che deve essere ancora messo in pratica.

 

Gabriele Ferrari s.x.