PER UNA SPIRITUALITA’ MISSIONARIA RINNOVATA
I MISSIONARI
DI DOMANI
La missione ad
gentes attraversa una fase di forte ripensamento. Ci si chiede se e a quali condizioni
essa abbia ancora significato. La seguente riflessione offre alcuni spunti per
una spiritualità missionaria rinnovata e traccia i nuovi orizzonti della
missione in questo inizio del terzo millennio.
Da molti anni ormai ci si interroga sulla missione e sui
missionari. E malgrado Giovanni Paolo II abbia ribadito, nella sua enciclica
Redemptoris Missio, la permanente validità della missione ad gentes e
l’opportunità di continuare a parlare di una “vocazione speciale” al servizio
di tale missione (cf. RM 65), la discussione continua. Anche recentemente la
rivista Spiritus ha pubblicato un articolo di p. Michael Mac Cabe, consigliere
generale della Società delle Missioni Africane di Lione, con il titolo
Missionari di domani.1 Non c’è dubbio che la missione ad gentes continua a
essere una funzione essenziale della Chiesa, che è per natura sua missionaria,
ma essa sta vivendo un momento delicato a causa della drammatica riduzione del
calo numerico dei missionari. Crisi della missione o crisi dei missionari?
P. Mac Cabe apre il suo articolo raccontando che durante un
corso sulla teologia della missione alcuni studenti gli hanno chiesto per quale
ragione non si abbandona il concetto di missione, visto che esso nel corso
della storia è finito per essere carico di arroganza intellettuale e di
superiorità spirituale. Egli ha risposto loro che “abbandonare la missione
sarebbe come distruggere l’identità stessa della chiesa e minarne la ragion
d’essere”.2 Ciò che oggi si deve fare non è abbandonare la nozione di missione,
quanto di “ricentrare e ridefinire il ruolo del missionario”.3
La missione della Chiesa non si esaurirà mai, perché è
iscritta nella natura cattolica della Chiesa. Ciò non esclude che debba essere
periodicamente ripulita dalle incrostazioni non evangeliche che le varie epoche
vi depositano. Ciò che deve essere profondamente rinnovato è l’identità
pastorale dei missionari, perché svolgano il loro ministero con una rinnovata
coscienza della propria vocazione nella chiesa. In altre parole, c’è bisogno di
una nuova spiritualità missionaria per svolgere la missione ad gentes in modo
coerente con l’attuale stagione della missione.
RICENTRARE
LA MISSIONE
La missione come noi la troviamo descritta nel Vangelo ha
una prima caratteristica che ne determina immediatamente lo spirito. La
missione è orientata verso il mondo, fuori della Chiesa. L’universalità della
missione è chiaramente testimoniata nel mandato di Cristo ai suoi discepoli:
“Andate in tutto il mondo …” (Mc 16,15). L’universalità della missione è
iscritta nella sua stessa origine e trova la sua forza proprio nella
convinzione che il vangelo di Cristo è destinato a tutti i popoli e valido per
tutti i tempi e di tutti i luoghi. La coscienza di essere debitrice a tutti
della grazia ricevuta è stata la spinta straordinaria che ha mosso la prima
comunità di Gerusalemme, malgrado tutte le resistenze culturali interne, a
muoversi verso “gli estremi confini della terra” (At 1,8). Questa spinta
universale – anche se geograficamente ben limitata – è diventata evidenza per
Pietro nella casa di Cornelio quando lo Spirito Santo gli ha fatto capire che
“Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a
qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10, 34-35). La spinta verso
l’altro ha trovato in Paolo di Tarso il genio che ha fatto definitivamente
uscire la chiesa di Gesù Cristo dall’ambito culturale giudaico. Da allora la
convinzione che il Vangelo è per tutti si è tradotta in uno sforzo missionario
costante che, pure tra alti e bassi, è arrivato fino a noi e che trova oggi,
nel tempo della comunicazione globale, delle condizioni straordinariamente
favorevoli per raggiungere gli “altri”.
La Chiesa nella missione prende coscienza del tesoro che ha
ricevuto da Gesù Cristo, il vangelo del Regno, della grazia, dell’amore di Dio
che essa è chiamata a vivere e a testimoniare, una fonte di continua
santificazione anzitutto per se stessa oltre che per il mondo. La missione è
prima di tutto “grazia” per la Chiesa e per il missionario. La grande grazia
che la missione fa alla Chiesa è quella di sviluppare tutto il suo potenziale
evangelico, di diventare cioè quello cui è chiamata: essere il popolo di Dio
della nuova alleanza.
Il rischio che la Chiesa si chiuda in se stessa è tutt’altro
che ipotetico. Ma se una Chiesa sente in sé l’urgenza della missione, allora
riesce a decentrarsi, a guardare fuori dei suoi confini, ad andare verso coloro
che attendono il messaggio della grazia e della salvezza. Grazie alla missione
la Chiesa diventa quello che deve essere, una chiesa per il mondo, per il
Regno, una chiesa sacramento universale di
salvezza.
MEDIANTE LA MISSIONE
LA CHIESA DIVENTA SE STESSA
La missione, perciò, è innanzi tutto un bene per la chiesa
stessa, che la aiuta a diventare quello che essa è chiamata a essere. E allora
“l’obiettivo primo della missione non è quindi lo sviluppo dell’istituzione
ecclesiale né l’aumento numerico dei suoi membri. Il suo fine è
fondamentalmente teologico: realizzare cioè pienamente la conoscenza e l’amore illimitato
e universale di Dio”.4 Quando la chiesa primitiva, in gran parte ancora legata
alla sua matrice giudaica, penetrò nel mondo greco, era guidata dalla coscienza
missionaria della sua missione, ma nello stesso tempo continuava ad
approfondire la sua conoscenza del mistero di salvezza di cui essa viveva.
Attraverso la lettura della vita e delle attese delle prime comunità dell’Asia
Minore e della Grecia, in un dialogo profondo e trasformatore con quelle
culture e con la loro filosofia, la giovane chiesa cristiana è stata portata a
scoprire sempre più profondamente la portata universale del vangelo di Cristo
che l’aveva fatta nascere. Basta leggere le lettere apostoliche, soprattutto
quelle di Paolo.
La teologia, la parola su Dio, dentro la missione, nel
cammino di espansione, dialogo e scoperta del pensiero di Dio. “La missione è
la madre della teologia”.5 Questa affermazione di Martin Kahler esprime una
verità che potrebbe sembrare tanto evidente, ma che ha importanti implicazioni
nella vita della Chiesa. La relazione tra missione e teologia è un segno
indicatore della salute della Chiesa. Quando è la missione a dettare l’ordine
del giorno della teologia, è segno che la Chiesa è fedele alla sua vocazione
fondamentale e realizza la sua natura che è di essere il nuovo popolo di Dio.
Quando invece la teologia è staccata e autonoma dalla missione, come è
purtroppo capitato a varie riprese nella storia della chiesa, in particolare
negli ultimi secoli, allora tanto la Chiesa quanto la teologia ne soffrono. La
Chiesa diventa paurosa e assume atteggiamenti di difesa che producono chiusura,
polemica e distanza dal mondo. Allora la teologia comincia a “teologizzare” e
la Chiesa si chiude in forme prammatiche e funzionali. La missione comincia a
fare del mimetismo secolarizzante e si mondanizza in modo pericoloso. Privata
dell’accompagnamento critico della teologia, la missione rischia la riduzione
ideologica, diventa conquista da parte della Chiesa invece di essere la ricerca
e la scoperta di quell’Amore che è la sorgente della Chiesa e della missione
(AG 2). La chiesa, che è creatura Verbi, avrà sempre “bisogno di essere
evangelizzata se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il
Vangelo” (Evangelii nuntiandi n. 15).
La Chiesa evangelizzando diventa se stessa.
LA MISSIONE PORTA
LA CHIESA VERSO GLI ALTRI
Il recente ampliamento degli ambiti della missione (RM 34)
ha condotto a una dilatazione del programma missionario, senza che la finalità pratica
della missione sia stata sufficientemente chiarificata. La missione continua a
concepirsi come risposta al comando di portare il Vangelo agli altri. Non
sarebbe tempo che sentissimo la missione come impegno a permettere al Vangelo
di portare noi agli altri, per condividere con essi il dono prezioso che
abbiamo gratuitamente ricevuto? È ancora troppo forte tra i missionari la
tendenza (forse la tentazione) di comprendere la missione come un insieme di
cose che devono fare invece di essere qualcosa che la comunità cristiana è
chiamata a condividere in un processo che la trasforma e la fa diventare sempre
più se stessa. In realtà, il progetto missionario nato dal concilio Vaticano
II, con il suo ampio concetto di evangelizzazione, rischia di precipitare il
missionario in un inarrestabile attivismo che nasce da un pericoloso complesso
di “salvatore della patria” che gli fa dimenticare il suo bisogno di essere
salvato?
Per molte ragioni storiche, i missionari sono oggi invitati
ad abbandonare “lo spirito di crociata caratteristico del tempo
dell’illuminismo con il suo complesso di superiorità arrogante, d’ottimismo
ingenuo e di attivismo prammatico”,6 per riprendere la missione di testimoni
del Cristo crocefisso e risorto in modo più umile, più contemplativo e più
dialogico. La Chiesa sa che la missione non è qualcosa che viene dalla sua
iniziativa, ma obbedienza al mandato di portare avanti la missione di Cristo.
“Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” (Gv 20,21). La missione
di Cristo non si è conclusa con la Pasqua né è stata da lui lasciata alla
Chiesa. Cristo continua a essere il missionario del Padre (questo è il senso
del verbo ha mandato, un perfetto che esprime un’azione che prosegue) e i
missionari rendono visibile e operativa nel mondo questa missione del Figlio di
Dio fatto uomo. La Chiesa allora non può considerarsi la fonte, né l’agente
principale e, meno ancora, il fine della missione. Essa è solo chiamata a
partecipare a un’attività che viene da Dio, che a Dio appartiene e della quale
lo Spirito Santo è l’agente principale. Essa è al servizio del Regno di Dio.
LA MISSIONE DELLA CHIESA
NELLA “MISSIO DEI”
Dio è l’origine e il fine della missione. Perciò compito del
missionario è entrare nella missione di Dio mettendosi al servizio, obbediente
e subordinato, di essa. La parte di Dio nella missione è evocata nella Bibbia
con diverse espressioni. Il vangelo secondo Giovanni parla del Verbo attraverso
cui tutto esiste, il Verbo che illumina ogni uomo e dà vita e grazia, il Verbo
che si fa carne in Gesù Cristo e abita tra di noi perché noi possiamo
contemplare il volto del Dio invisibile. San Paolo parla del mistero, del
progetto che Dio ha elaborato per la salvezza di tutti (cf. 1Tm 2,4), del
progetto di ricapitolare nel Cristo tutte le realtà del cielo e della terra
(cf. Ef 1,10) oppure, ed è la stessa cosa, di riconciliare tutto nel Cristo
crocifisso e risorto (cf. Col 1,20). L’Apocalisse parla di quei nuovi cieli e
nuova terra dove Dio verrà a dimorare con il suo popolo: “Ecco la dimora di Dio
con gli uomini. Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo” (Ap
21,3).
Oggi si sottolinea questo ampliamento della missione
salvifica di Dio verso il cosmo intero. Dio Padre, attraverso le missioni del
Figlio e dello Spirito, vuol raccogliere nella sua comunione tutta l’umanità e,
attraverso l’umanità riconciliata, tutto il creato affinché Dio sia tutto in
tutti (1Cor 15,28). Tutto l’universo è oggetto dell’amore di un Padre per tutti
i popoli e per tutti gli aspetti della loro vita.
La missione è Dio che si volge verso il mondo con amore
creativo, con un potere di redenzione che guarisce e trasforma. Questo accade
nella storia di tutti i giorni e non è ristretto all’attività della chiesa.
Redemptoris missio parla della presenza e dell’attività della Chiesa che “sono
universali, senza limiti di spazio e di tempo” (n. 28). C’è di più: questa
presenza e azione dello Spirito di Dio “non toccano solo gli individui, ma la
società e la storia, i popoli, le culture e le religioni” (ib).
RICERCA E SERVIZIO
DELLA “MISSIO DEI”
La missione di Dio, che si svolge attraverso la Parola e lo
Spirito, è il contesto in cui collocare la missione storica della Chiesa. La
Chiesa e noi, che ad essa apparteniamo, siamo chiamati a partecipare a un
progetto che appartiene a Dio perché viene da Dio. Noi dobbiamo accogliere
questo progetto senza nulla togliergli e nulla aggiungervi. Nostro privilegio è
di favorirla, permettendole di storicizzarsi nel nostro tempo. Questo ha tre
conseguenze per la maniera di essere missionario di questa missione.
Se il missionario partecipa alla missione di Dio, dovrà
essere convinto che nel suo lavoro egli non parte mai dal nulla. Là dove egli
arriva trova delle persone e un mondo dove lo Spirito di Dio è già all’opera
ben prima che il missionario arrivi. Questo dovrebbe liberarlo dall’angoscia di
raggiungere tutti, come se la salvezza dipendesse da lui, da ogni forma di
protagonismo, come se la missione fosse cosa sua, e infine da ogni aggressività
davanti alle eventuali resistenze che incontra nel suo lavoro.
In secondo luogo, il missionario deve ricordare che non è
solo nel suo lavoro. Non è tenuto a fare tutto. Anzi deve ricordare la parola
di Gesù: “Uno semina e uno miete: io vi ho mandato a mietere ciò a cui voi non
avete lavorato” (Gv 4,37-38). Egli entra in un campo già dissodato e seminato
che egli deve solo coltivare: “Voi siete il campo di Dio”, dice Paolo ai
Corinti (1Cor 3,9). È Dio che ha lavorato, noi raccogliamo il frutto del suo
lavoro. Dio è presente ovunque prima del nostro arrivo e offre in modi a noi
sconosciuti (cf. GS 22) la sua salvezza a tutti, anche a quelli presso i quali
non riusciamo a giungere.
ATTEGGIAMENTO
CONTEMPLATIVO
La terza conseguenza della partecipazione alla missione di
Dio è che il compito principale del missionario è la contemplazione. La
missione è incontro con un mistero, un progetto salvifico che si svela a poco a
poco a chi si mette, come Paolo, in ginocchio (cf. Ef 3,14). È il mistero di un
Dio che va verso il suo popolo con un amore che, nel Figlio, abbraccia il
mondo; è il mistero della potenza dello Spirito presente in luoghi inattesi e
in modo imprevedibile; è infine il mistero di un popolo che Dio Padre vuol far
partecipare al mistero pasquale del suo Figlio in modi che non possiamo immaginare.
Per collaborare a questo mistero il missionario ha bisogno di scrutare i segni
dei tempi, di ascoltare, discernere e, in una parola, di contemplare ogni
traccia di Dio.
Il primo compito di missionari è di cercare e discernere
dove e come lo Spirito di Dio è presente e attivo in mezzo al popolo tra il
quale siamo stati inviati. È facile vedere che questo esercizio è
essenzialmente contemplativo. Solo uno spirito contemplativo eviterà al
missionario di sovrapporre il proprio programma di azione al dialogo che si sta
svolgendo prima del suo arrivo tra Dio e il suo popolo. Il missionario si
metterà alla ricerca “con gioia e amore adorante (laete et reverenter) i germi
del Verbo” (AG 11) nascosti nella cultura del popolo a cui è inviato. Questi
semina Verbi sono i segni della missione di Dio già in atto. Il missionario
come l’”amico dello Sposo” (Gv 3,29) starà pronto e con l’orecchio teso a
cogliere ogni voce che venga dal dialogo d’amore già avviato da Dio con il suo
popolo, per assecondarlo e portarlo avanti. Lo farà con quell’attenzione con
cui Gesù Cristo scrutava il cuore dei suoi interlocutori per vedervi la fede
che germogliava e per incoraggiarli a entrare coscientemente nel piano di Dio.
Il missionario dovrà quindi essere uomo di ascolto, di preghiera
di dialogo con Dio per imparare a rispettare la libertà di Dio presente e
attivo nel suo popolo ancora prima del suo arrivo, e per imparare a rispettare
la libertà della gente che risponde a Dio secondo le modalità proprie della sua
cultura.
Purtroppo il movimento missionario moderno è stato segnato
da un doloroso divorzio tra contemplazione e missione. Troppo spesso la
spiritualità missionaria, nell’intento di identificarla, è stata contrapposta a
quella contemplativa e, soprattutto, a quella monastica. Eppure l’orazione,
come la ricerca di Dio, è una dimensione intrinseca, essenziale, della
spiritualità missionaria. Al di fuori della preghiera c’è, per i missionari, il
rischio serio di diventare dei propagandisti d’un Vangelo che non è quello del Cristo
oppure dei costruttori si un Regno che non ha nulla da spartire con quello di
Dio. Il progetto missionario di Dio si può cogliere solo a partire da un
ascolto profondo dello Spirito che “scruta le profondità di Dio” (1Cor 2,10) e
ne conosce le vie segrete.
Il missionario deve sentirsi ed essere conosciuto come un
uomo “religioso”, un mistico cercatore di Dio prima che come insegnante,
dirigente o impresario di opere di pubblica utilità. Tutte cose buone e
necessarie, ma la priorità deve essere la contemplazione. È urgente che il
missionario oggi riscopra il reciproco richiamo di contemplazione e azione
apostolica, quell’ ora et labora che ha caratterizzato la missione ai tempi di
Gregorio Magno. David J. Bosch nel suo libro La trasformazione della missione
ricorda che è “a causa del monachesimo che tanto cristianesimo autentico si
sviluppò nel corso dei “secoli bui” dell’Europa e oltre … In un mondo dominato
dall’amore di sé, le comunità monastiche furono il segno visibile e la
realizzazione preliminare di un mondo dominato dall’amore di Dio”.7
È sintomatico che Redemptoris missio abbia corretto il
divorzio tra l’apostolato del missionario e quello del contemplativo,
descrivendo il missionario come un “contemplativo in azione” (RM 91), e
sottolineando l’intimo rapporto tra azione e contemplazione nella vita del
missionario. Se è vero che “il cristiano di domani o sarà un mistico o non
esisterà neppure”, come pare abbia detto Karl Rahner, è ancora più vero che il
missionario di domani o sarà un mistico o non sarà niente.
COSA DEVONO FARE
I MISSIONARI DI DOMANI?
Fin qui abbiamo trattato della vocazione del missionario. A
questo punto dobbiamo tentare, anche a costo di cadere in un certo pragmatismo,
di identificare le attività che il missionario assumerà oggi in fedeltà alla
sua vocazione. Redemptoris missio ha sintetizzati i campi di attuazione della
missione in tre : “L’annunzio del Cristo e del suo Vangelo, l’edificazione
della chiesa locale, la promozione dei valori del Regno di Dio” (n. 34). Oggi è
importante che il missionario precisi due modalità dell’annunzio di Cristo e
del Vangelo, il dialogo cioè e l’inculturazione. Così pure dovrà curare il
rinnovamento delle chiese d’origine grazie all’animazione missionaria e
l’impegno storico della liberazione integrale. Vediamo di toccare brevemente
questi punti particolari.
1 L’annuncio
Fin dai primi tempi della storia cristiana l’annunzio del
Vangelo è stato il compito centrale e inderogabile della missione, un’esigenza
che s’impone oggi come ieri. Dice il papa Giovanni Paolo II: “La Chiesa non può
sottrarsi al mandato esplicito di Cristo, non può privare gli uomini e le donne
della “buona novella” che sono amati da Dio e salvati da Dio” (RM 44). L’annuncio
evangelico è il “primo servizio che si può rendere a ciascun uomo” (RM 2) e
alla liberazione del mondo. Raggiungere i gruppi umani che non lo conoscono
ancora, resterà sempre una priorità per i missionari. Il criterio geografico
dei territori di missione può restare ancora un utile indicatore per la
missione, ma si devono elaborare anche altri (RM 37). In un mondo soggetto a
continua evoluzione e caratterizzata da una grande mobilità, il papa indica ai
missionari nuovi ambiti sociologici e culturali verso cui bisogna, forse per la
prima volta, dirigere la luce e la forza del Vangelo di Cristo. Sono i nuovi
“areopaghi moderni” (RM 37c). Oltre a ricordare il dovere di dare attenzione al
mondo dei poveri e dei giovani, dei profughi e dei rifugiati, il papa apre
l’orizzonte della missione al campo dei mass media che attende, attraverso una
nuova evangelizzazione finora inedita, di essere penetrato dalla luce del
Vangelo e sul mondo delle “grandi città”, e in particolare sulle periferie
anonime delle megalopoli che sono tuttavia, “i centri dove nasce, si può dire,
un’umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo” (RM 37b). Così pure indica
altri campi di impegno per la missione della Chiesa: l’impegno per la pace, lo
sviluppo e la liberazione dei popoli, i diritti umani, la promozione della
donna e del bambino, la salvaguardia del creato, la ricerca scientifica e i
rapporti internazionali e, infine, la ricerca religiosa che oggi caratterizza,
pur nella sua ambiguità, la cultura del nostro tempo post moderno.
2 Il dialogo con i fedeli delle altre religioni
Questa è una sfida relativamente nuova, anche se iscritta
per sé da sempre nella missione. I missionari del passato sono stati accusati
di adottare un atteggiamento piuttosto negativo, se non ostile, nei confronti
delle tradizioni religiose dei popoli in mezzo a cui si trovavano. Questa
critica non è priva di fondamento, anche se è in gran parte ingiusta. La storia
ricorda un certo numero di missionari che hanno mostrato un profondo rispetto
per le culture e per le tradizioni religiose che incontravano sul loro cammino.
Ma la maggioranza dei missionari, legati alla teologia del loro tempo, non
potevano considerare le altre religioni come dei mezzi di grazia per quelli che
le seguivano. Oggi, dopo il rinnovamento teologico e pastorale promosso dal
Vaticano II, i missionari sono invitati a superare le prospettive limitate dei
loro predecessori e a scorgere quei raggi di luce vengono dal Verbo di Dio
fatto uomo che illuminano ogni uomo che cerca onestamente la verità.
Il dialogo allora è la forma concreta per scoprire con gioia
la presenza di Cristo nelle tradizioni e nelle ricerche religiose del mondo non
cristiano. Il missionario d’oggi deve cercare di sviluppare una teologia del
riconoscimento, come la chiama Mac Cabe,8 fondata sulla sua esperienza
personale: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, la Legge e i
Profeti” (Gv 1,45). La teologia delle religioni non cristiane offrirà un solido
fondamento per impegnarsi in un dialogo fruttuoso con i fedeli delle altre
religioni. Non sarà la svendita della propria fede in un indifferentismo
irenico, ma la coniugazione di un grande amore per Gesù Cristo con la fede
nell’azione misteriosa dello Spirito di Dio che semina il Regno in mezzo alle
genti.
Inteso correttamente, il dialogo interreligioso non sarà
certamente la fine della missione, né una semplice preparazione all’annunzio
del Vangelo (præparatio evangelica), ma una dimensione necessaria e importante,
anche se non esaustiva, dell’evangelizzazione che porterà alla piena
proclamazione appena i tempi saranno maturi. Il dialogo interreligioso, secondo
il più recente insegnamento della chiesa, è “una via verso il Regno” (RM 57),
un momento necessario del processo della evangelizzazione che, oltre tutto, libererà
la missione da ogni forma di arroganza della verità e da ogni ambiguità
proselitistica.
3 Inculturazione e sviluppo delle chiese autoctone
Una delle dimensioni della missione del nostro tempo è
l’inculturazione della fede nel contesto della edificazione di una chiesa
autenticamente locale. L’accento sulla chiesa locale, caratteristico del
concilio Vaticano II, si sta concretizzando in una cura particolare per
incarnare la Chiesa e il suo messaggio, le sue strutture e le sue proposte,
nella cultura di ogni popolo. È quello che si chiama il processo
dell’inculturazione della fede. È un compito molto delicato la cui
responsabilità è affidata alla chiesa locale.
Anche questa sensibilità all’inculturazione è relativamente
nuova, anche se essa non si propone oggi per la prima volta. Già all’inizio del
cristianesimo nell’annunzio e nell’accoglienza del Vangelo nel mondo
greco-romano si è proceduto ad una prima inculturazione. In questo processo il
Vangelo ha trovato un nuovo linguaggio, nuovi termini omogenei con la cultura
greco-romana, la quale ne rimasta profondamente segnata.
In seguito, per paura di compromettere la verità e forse
anche a causa di un complesso di superiorità delle culture europee nei
confronti delle culture asiatiche e africane, il processo di inculturazione si
è come arrestato riproducendo ovunque i modelli cristiani europei. Non sono
mancati dei missionari lungimiranti che si sono opposti a ogni trapianto
artificiale delle forme occidentali del cristianesimo nelle terre straniere, ma
che volevano che gli elementi fondamentali del messaggio cristiano, venendo ad
abitare presso popoli che possedevano una loro propria e unica cultura,
assumessero forme nuove omogenee con la loro cultura.
Oggi alla luce dell’insegnamento del concilio Vaticano II e
in un tempo di rivalutazione delle culture, la missione sente che non deve più
“clonare” un prodotto maturo, ma deve far nascere un cristianesimo nuovo
dall’interno di ogni cultura. L’impresa non è facile, ma si tratta del futuro
del cristianesimo.
La prima responsabilità di una graduale inculturazione del
Vangelo riguarda la chiesa locale (RM 53). Il compito dei missionari è
secondario, anche se di vitale importanza. Essi sono, per così dire, come le
“levatrici” che aiutano a far nascere delle nuove comunità di discepoli del
Cristo, comunità dotate delle ricchezze culturali proprie del loro terreno e
dirette ormai da pastori usciti dalle fila del proprio popolo. L’inculturazione
richiede ai missionari umiltà e sensibilità, accoglienza e spirito critico, ma
segnato da un apriori di simpatia per la cultura che incontrano. Certo,
missionari troppo sicuri di sé, troppo etnocentrici e nostalgici della loro
patria e cultura d’origine, oppure troppo preoccupati nel fare per o nel
mettere cioè in piedi e sostenere delle strutture materiali, possono diventare,
senza rendersene magari conto, un ostacolo allo sviluppo spontaneo d’una
comunità cristiana inculturata.
4 Rinnovare il vigore della chiesa d’origine
Se i missionari possono essere considerati come delle
levatrici che fanno nascere nuove comunità cristiane, sono anche chiamati a
essere catalizzatori del rinnovamento continuo delle loro “chiese d’origine”.
Nel passato i missionari tendevano a sentirsi impegnati in una missione a senso
unico. Partivano dalle loro chiese in modo definitivo per radicarsi nelle
chiese locali che avevano fondato. A loro toccava insegnare la verità del
Vangelo e ai cosiddetti “pagani” di riceverlo; a loro competeva di convertire,
ai pagani di lasciarsi convertire. Oggi questo movimento a senso unico è
diventato un movimento circolare per cui la missione che era partita dalle
chiese di antica fondazione sta ritornando a casa per rinnovare la vita
cristiana delle antiche comunità con la freschezza della missione ad gentes, la
quale offre ad ogni chiesa locale il significato fondamentale e la sua
attuazione esemplare (cf. RM 34).
I missionari sono quindi chiamati a svolgere il loro lavoro
non solo in quelli che una volta si chiamavano i “territori di missione”, ma
anche nelle loro chiese d’origine, attuando uno “scambio tra le chiese” che
vivifica, in modi diversi, ma complementari, quelle antiche e quelle di recente
fondazione. L’impegno dell’animazione missionaria mira a rendere missionarie
tutte le chiese, perché una chiesa, che non è missionaria, non ha ancora
raggiunta la sua piena maturità.
In passato i progetti di animazione missionaria avevano il
difetto di proporre un’immagine troppo eroica, e perfino romantica, del
missionario proiettandola, per contrasto, su un quadro abbastanza negativo dei
popoli e delle culture in cui lavoravano. Non ci si deve scandalizzare perciò
se nelle chiese d’origine si trova, insieme con una simpatia, fatta di
tenerezza e paternalismo, per i “poveri infedeli” dell’Africa e dell’Asia,
anche dei pregiudizi razziali. Così pure nelle comunità del primo mondo resiste
una forte ostilità verso le religioni non cristiane che oggi è ulteriormente
rinforzata dall’emergere del fondamentalismo islamico. I missionari hanno qui
un altro compito nuovo da svolgere all’interno delle loro chiese d’origine:
smantellare questi pregiudizi e far condividere alle comunità cristiane delle
chiese d’origine la ricchezza della loro esperienza interculturale e
interreligiosa. “I missionari sono dunque chiamati a… interpellare le loro
chiese d’origine per confrontare i loro atteggiamenti e i loro valori con
quelli dei popoli ai quali essi sono stati mandati e in mezzo ai quali
lavorano. È solo in questo modo che possono aiutare le loro chiese d’origine a
sviluppare e far maturare la loro fede”.9
5 Liberazione
Infine, i missionari sono sfidati oggi a dare un’espressione
concreta alla vittoria pasquale di Cristo, un evento escatologico davvero
rivoluzionario nel senso che comporta la trasformazione radicale dell’ordine
sociale, politico e religioso. Oggi i missionari sono chiamati a riprendere e
ad attualizzare la missione di Cristo in un mondo che attende una parola di
speranza e un’organizzazione più umana, più degna dei figli di Dio. Per questo
il compito del missionario attualizza la carica profetica, sovversiva, del
Vangelo nel contesto di un mondo in cui è più facile vedere un anti-regno che
un inizio del regno di Dio.
La riflessione e la prassi missionaria di questi ultimi
tempi fanno giustamente risaltare che la missione di Gesù raggiungeva “la
persona umana nelle sue dimensioni sia fisiche che spirituali” (RM 14) e cioè
nella globalità dei suoi bisogni, che essa toccava, cioè, gli individui e la
società, l’anima e il corpo, il presente e l’avvenire. La missione cristiana si
propone quindi la trasformazione integrale dell’umanità e del mondo per
riportarli al progetto originario di Dio. Si propone di contribuire alla una
nuova creazione del nostro mondo, alla liberazione di tutti da ogni forma di
schiavitù e di oppressione, personale e sociale.
La riscoperta della natura “integrale” del regno di Dio ha
allargato in modo straordinariamente nuovo l’ambito della missione della
chiesa, che risulta oggi molto più impegnativa che nel passato. La missione
aiuta la chiesa a diventare ciò che essa è per sua natura, sacramento
universale di salvezza. Per essere fedele alla sua missione di serva del Regno
(RMi 20) la chiesa dovrà dare testimonianza al regno di Dio davanti ai potenti
(e ai prepotenti) di questo mondo facendosi “voce di chi non ha voce”. Essa
sarà fedele alla sua missione, quando si impegnerà – con tutte le sue forze e
anche a rischio della vita – per rovesciare le barriere delle razze, dei
colori, delle fedi e delle religioni dei popoli, trasformando le relazioni
umane attraverso la forza del vangelo di Gesù Cristo.
Queste cinque sfide mostrano quale sarà il compito dei
missionari nel futuro. Davvero, non resteranno senza lavoro nelle giovani
chiese e, quando torneranno a casa, non saranno dei disoccupati! Tuttavia
dovranno vegliare sulla maniera di svolgere i loro diversi compiti, perché
questa sarà forse più importante di quello che faranno. Se si vuole che la
missione possa chiamare ancora dei giovani a impegnare la loro vita per
l’evangelizzazione dei non cristiani, bisognerà che la vita e la missione dei
missionari rivelino più chiaramente le motivazioni “spirituali” e le ragioni
“mistiche” che sono alla base della vocazione missionaria. Il missionario deve
assumere più che mai uno stile contemplativo, essere l’uomo di Dio che ricerca
tra i fratelli la presenza e l’azione di Dio, offrire una presenza fatta di
pazienza, perseveranza, umiltà e mitezza, conoscenza dei propri limiti e, in
qualche caso, anche capacità di ritirarsi. Un tal modo di fare creerà quello
spazio in cui risuonerà la Parola e, quando il tempo sarà compiuto, lo Spirito
farà apparire “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini” (Tit 3,4).
Gabriele
Ferrari s.x.
1 Michael Mac Cabe fa parte del Consiglio generale della Società
delle Missioni Africane di Lione con l’incarico della formazione iniziale e
permanente. È stato a lungo missionario in Zambia e in Liberia, poi dal 1999 al
2001 presidente dell’Istituto di teologia e cultura KMI di Dublino. Collabora
al bollettino del SEDOS, ai Cahiers Eudistes, a The Indian Missiological Review
e ad altri periodici. L’articolo cui si fa allusione è apparso sulla rivista
Spiritus n.176, Settembre 2004, pp. 332-343.
2 Mac Cabe, art.cit., p. 332-333.
3 Mac Cabe, art. cit., p. 333.
4 Mac Cabe, art. cit., p. 333.
5 Citato Mac Cabe, art.cit., p. 334.
6 Mac Cabe, art. cit., p. 334.
7 David J. Bosch, La trasformazione della Missione,
Queriniana, Brescia 2000, p. 324.
8 Mac Cabe, art. cit., p. 339.
9 Mac Cabe, art. cit., p. 341.