RIFLESSIONI DI UNO PSICOLOGO

 

LA PREGHIERA

E I SUOI EQUIVOCI

 

La nostra preghiera, al di là delle formule e delle buone intenzioni, appare spesso piena di equivoci: non rispecchia la verità di ciò che diciamo.

Senza avvedercene, spesso mettiamo noi stessi al posto di Dio, stravolgendo il nostro modo di stare davanti a lui.

 

Quando preghiamo ci capita spesso di ripetere formule o invocazioni in maniera mnemonica senza fare troppa attenzione a ciò che diciamo. Oppure di rivolgerci a Dio in una maniera che non rispecchia del tutto la verità.

Il nostro modo di pregare, infatti, se esaminato con occhio critico, appare a volte non privo di equivoci. Ad attirare l’attenzione su questa anomalia è lo psicologo-scrittore brasiliano, Milton Paulo de Lacerda, apostolicamente impegnato con la Compagnia di Gesù. Non ci sembrano del tutto fuori luogo perciò le osservazioni che egli fa su questo argomento nella rivista di spiritualità ignaziana Itaci, nel numero dello scorso mese di marzo. Già il titolo dell’articolo Orações equivocadas (preghiere equivoche) è in se stesso indicativo. In che senso equivoche?

Per spiegarsi, prima di entrare nelle esemplificazioni, si rifà a ciò che scriveva in altri tempi Louis Évely, parafrasando l’ammonimento di Gesù a Giacomo e Giovanni “Voi non sapete cosa domandate” (Mc 10,38). Evely voleva dire che molte volte non riceviamo ciò che chiediamo perché non ci rendiamo conto della portata delle parole che usiamo. Per esempio, chiediamo al Signore che ci dia “bel tempo” per le nostre comodità, quando la natura è invece assetata di pioggia; oppure chiediamo denaro per poter viaggiare, quando in realtà cerchiamo il riposo fisico e la pace dello spirito. In questo modo inviamo la nostra preghiera all’indirizzo sbagliato. Non è Dio, spesse volte, che deve attendere ai bisogni delle persone, ma la comunità nel senso che Dio ha già fornito tutti i mezzi necessari a questo scopo.

Gli equivoci, spiega Lacerda, sono segno di una mancanza di chiarezza di idee. A riguardo della preghiera non mancano definizioni apparentemente chiare nei catechismi, sia in quelli più antichi, sia in quello della chiesa cattolica del 1992.

Quelli più antichi dicevano che la preghiera consiste nell’elevare la mente in Dio, per adorarlo, ringraziarlo, chiedergli perdono delle nostre colpe e domandare nuove grazie. Quello più recente è pieno di affermazioni sul tema della preghiera e culmina nella preziosa spiegazione del Padre Nostro. Ma anche così è necessario precisare alcuni concetti. Per esempio, quando entriamo in chiesa, vi andiamo per occuparci di Dio? Ma è Dio che si occupa di noi. Pensiamo di andare a servire Dio? Ma egli non vuol essere servito, vuole servirci. Andiamo a parlare con lui? No, è lui che vuole parlare a noi, sussurrandoci parole preziose sotto forma di mozioni interiori. Pregare non è parlare con Dio, ma ascoltare Dio che ci parla. È lui che vuole servirci alla mensa e saziarci, è lui che ci prega e ci chiede di accogliere e accettare il suo amore.

Gli equivoci, sottolinea ancora Lacerda, sono segno anche di mancanza di una coscienza critica, di incapacità di discernere tra la zizzania e il buon grano. Si tratta di stare attenti a non dire parole inutili, come ha spiegato Gesù: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8).

 

ALCUNI

EQUIVOCI COMUNI

 

Ora, nella preghiera, ci sono cose che diciamo (o che ci fanno dire) ma che non sono molto appropriate per quanto riguarda le verità di fede, la riflessione teologica e il senso comune.

Entrando nel campo dell’esemplificazione, Lacerda si domanda anzitutto se è appropriato continuare a rispondere nella preghiera dei fedeli che si dice durante la santa messa “Ascoltaci o Signore”. È giusto chiedere a Dio che ci ascolti? Non è forse lui il primo a ispirarci cosa dobbiamo chiedere e il principale interessato a concedercelo? Non sarebbe meglio dire al Signore che nella sua bontà si prenda cura di noi, riconoscendo umilmente che siamo creature totalmente dipendenti dalla sua misericordia? Ascoltando quella invocazione, sottolinea Lacerda, mi viene in mente il racconto ironico del profeta Elia nella famosa sfida con i profeti di Baal che invocavano inutilmente il fuoco dal cielo: “Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: “Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà” (1 Re 18,27).

Lo stesso si può dire dell’invocazione “Ricordati Signore dei tuoi servi”. Scriveva L. Evely: “Pensate che gli manchi la memoria e che la sua età avanzata l’abbia indebolita? Non siamo forse noi che, alla sua presenza e dietro sua ispirazione, dobbiamo prendere coscienza di coloro che egli ci ha affidato e di cui siamo responsabili?”.

Un altro interrogativo sorge riguardo alle invocazioni tradizionali nella liturgia “Signore, pietà! Cristo pietà! Signore pietà!”. E all’espressione “Dio di misericordia”. A prima vista queste e altre espressioni indicano l’atteggiamento dell’essere umano che davanti a Dio si riconosce creatura e, più ancora, peccatore. E su questo non ci possono essere dubbi. La consapevolezza di questa duplice situazione è fondamentale per vivere secondo verità.

In quanto creature, commenta Lacerda, non siamo nulla da noi stessi e dipendiamo interamente da Dio. Se esistiamo è per puro dono della sua liberalità divina o, meglio ancora, del suo ineffabile amore di predilezione che ci ha chiamato alla vita, a preferenza di ogni altro essere umano che mai esisterà. Come peccatori siamo delle aberrazioni contro il buon senso e la giustizia, nella misura in cui tentiamo di frustrare coscientemente il progetto di Dio creatore. Peggio ancora, siamo peccatori per la tendenza innata verso il male, drammaticamente denunciata da Paolo: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22-23).

Come persone umane non abbiamo dei meriti propri. Tutto ciò che abbiamo e siamo è frutto della bontà di Dio. Qui entra giustamente l’altro aspetto del problema: la presa di coscienza di ciò che Dio è. Per sua natura “Dio è amore” (1 Gv 4,16); è un “Dio clemente e misericordioso” (2 Cr 30,9). Egli non castiga mai direttamente nessuno.

Le leggi della natura, fin dall’inizio, furono organizzate in modo tale che se vengono infrante ne derivano delle conseguenze inevitabili, automatiche. Non è Dio che castiga la persona, siamo noi la causa diretta o indiretta di tutti i nostri mali, non il creatore e il Padre della misericordia. In effetti, “ogni albero buono porta buoni frutti” (Mt 7,17). Dio è la bontà stessa; da lui perciò vengono solo frutti di comprensione, longanimità, perdono e pazienza. La sua misericordia consiste nel riconoscere la nostra condizione di bisogno assoluto in quanto creature e in origine peccatori. Da qui deriva la sua costante disposizione a porre rimedio alla nostra “miseria costituzionale” e a sostenerci in tutte le necessità. Pertanto, in un’epoca come la nostra in cui gli studi teologici ci stanno mostrando il volto più autentico di Dio, sembra necessario rivedere quelle formule di preghiera in cui chiediamo pietà e misericordia. Bisogna piuttosto che chiediamo di poter rispondere con prontezza alla sua grazia, che mai manca.

Un ulteriore interrogativo: è appropriato chiedere con insistenza che Dio ci doni la sua grazia o che, in qualche modo, ci venga in aiuto, come ha fatto la povera vedova della parabola del giudice iniquo? (Lc 18,1)? Nel caso, chi è che resiste: Dio o noi? Scrive ancora Evely: “Quale resistenza cercate di vincere: quella di Dio nel dare o la vostra nel ricevere? Non pensate, malgrado tutto, che Dio debba essere vinto “a forza di essere importunato”?… Dobbiamo domandare non per convincere Dio a compiere la nostra volontà, ma per convincerci che lui conosce meglio di noi quello che ci conviene, che è più desideroso lui di dare che noi di ricevere. Dite a Dio tutto ciò che passa nel cuore: è cosa buona, consolante, purché però cominciate a riflettere e smettiate di ascoltare voi stessi per ascoltare lui. Allora il vostro cuore cambierà la preghiera e non chiederete se non ciò che egli vuole concedervi”.

La teologia insegna che la grazia è in primo luogo lo stesso Dio sempre presente, in quanto fonte di ogni bene. È dono creato in quanto aiuta con la sua costante provvidenza. Più ancora: è lo stesso Signore che ha cura delle sue creature, previene i nostri bisogni e ci ispira a chiedere ciò che da sempre vuole offrirci, poiché sempre sua è l’iniziativa di volerci felici e realizzati: la sua grazia infatti è preveniente.

Tenendo presenti queste considerazioni, più che domandare a Dio la sua grazia sembra più giusto chiedergli che sappiamo corrispondere a ciò che egli ci offre come aiuto in ogni tempo. Di nuovo Evely: “Si prostravano (i pagani) davanti a Dio per strappargli un po’ del suo calore e della sua luce; in questo atteggiamento si riassumono tante volte le nostre preghiere; un prostrarci davanti a Dio per strappargli qualcosa. Ma il cristianesimo è la religione di ciò che Dio ha fatto per noi, delle grandi cose – mirabilia Dei – le meraviglie che ha operato nella povertà dei suoi servi”.

Ma c’è un altro punto su cui riflettere: noi chiediamo a Dio tante cose, come la salute, la soluzione di problemi, denaro ecc. È facile rispondere al perché: perché siamo o ci sentiamo privi di qualche cosa. La domanda più importante, tuttavia, è perché chiediamo queste grazie; a quale scopo le desideriamo, che pensiamo di farne? Per esempio, se chiediamo la salute, che cosa domandiamo in fin dei conti? Che vogliamo farne? “Per poter lavorare, garantire la nostra sopravvivenza, per godere di momenti di vacanza o di altre comodità”; ma qual è la ragione? “Per essere felici, ora!”. E chi ha detto che essere felici vuol dire avere tutto questo ed esattamente questo? Ecco il problema. Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma ciò che è in questione è sapere dove sta l’essenza della felicità. Per aiutarci a trovarla, Gesù ha voluto venire in aiuto alla nostra debolezza dandoci un comandamento: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi” (Mc 12,29-31). Poi, come se non bastasse, ne chiarì meglio il significato, insegnando ai suoi discepoli che pregare significa dire al Padre che è nei cieli “sia fatta la tua volontà” (Mt 6,16). Ciò vuol dire che Dio conosce quello che ci conviene. L’essenza di tutte le nostre domande dovrebbe riguardare ciò che Dio vuole, molto più che i nostri desideri e le nostre fantasie di felicità. Per questo motivo la richiesta del Padre Nostro aggiunge “come in cielo così in terra”. Il criterio di giudizio è la volontà che Dio ha di renderci felici.

Infine, andando più in profondità, a prima vista sembra che dobbiamo chiedere, più di ogni altra cosa, la grazia di amare Dio al di sopra di tutto e il prossimo come noi stessi. A questo riguardo Peter G. Van Breemen sj scrive: “Non si deve, a mio parere, identificare anzitutto la preghiera con la supplica e nemmeno con l’azione di grazie o con la lode. Essa è, prima di tutto l’attività (bisognerebbe dire la recettività) secondo cui la persona permette a Dio di essere Dio. Così come Dio, nel suo amore creatore permette all’uomo di essere quello che egli è, così l’uomo deve desiderare in contraccambio che Dio sia Dio. Ora, Dio è amore (1 Gv 4,8.16). Permettere a Dio di essere Dio vuol dire lasciarsi da lui amare: è quanto la contemplazione della vita di Cristo ci permette realmente di capire”.

Possiamo dire, osserva Lacerda, che la volontà di Dio consiste nel lasciare che egli ci ami, che nella preghiera ci esponiamo alla sua bontà come ci si espone ai raggi benefici del sole, in modo che egli possa arricchirci di doni e colmarci di tenerezze, fino a condurci alla felicità piena e alla comunione definitiva con lui nella sua eternità. Ameremo Dio che non vediamo traducendo questo amore nella dedizione e nel servizio dei nostri fratelli che vediamo. In questo modo non resteranno dubbi circa la sincerità ed efficacia del nostro amore.

La preghiera così intesa, conclude Lacerda, raggiunge un grado di semplicità sempre maggiore. In definitiva, deve assomigliare a Dio infinitamente semplice a cui è diretta. Del resto Gesù ha detto: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8).