VERSO IL CONGRESSO SULLA VITA CONSACRATA

DALLA GESTIONE ALLA TESTIMONIANZA

 

In vista del prossimo congresso sulla vita consacrata, abbiamo provato a rileggere il documento preparatorio insieme alla presidente dell’Usmi, madre Teresa Simionato smsd. Nelle sue risposte troviamo gli impedimenti e le speranze che in questo periodo caratterizzano il cammino della vita consacrata.

 

Nel documento preparatorio del congresso sulla vita consacrata, che si svolgerà a Roma dall’8 al 12 novembre, sul tema “Passione per Cristo. Passione per l’umanità”, si parla di questo evento come di una “pietra miliare”nella storia della vita consacrata. È un’attesa realistica?

 

In questo mega-incontro colgo un’opportunità senza precedenti e il lodevole tentativo di voler mettere a fuoco quel “nuovo” che lo Spirito Santo ha fatto nascere e sta suscitando nella vita religiosa e per mezzo di essa. È importante il fatto che ci sia un risveglio vicendevole, che si riscopra insieme, religiosi e religiose, le radici di una profezia che continua. Tutto ciò esprime il dinamismo stesso della vita consacrata, che a livello istituzionale può essere più o meno considerato, ma resta comunque una marcia in più che ci è data. Ritrovarci insieme, pure in tutta la complessità dell’evento, è un’esperienza ecclesiale che ha indubbiamente la sua forza creativa. Sono certa che costituirà una forte spinta ecclesiale, di largo respiro.

 

L’obiettivo centrale del congresso è di capire quello che sta facendo nascere lo Spirito di Dio nella vita consacrata oggi. Non è una scommessa vera e propria sul futuro della vita dei consacrati?

 

In realtà l’obiettivo mi sembra molto alto, soprattutto pensando al numero elevato di partecipanti e al pochissimo tempo a disposizione per i lavori del congresso. Sarà già un grande risultato il saperci ascoltare reciprocamente in profondità, guardando al futuro. Ma non basterà semplicemente ascoltare quello che diremo; più importante è cogliere quello che emergerà a ridosso del convegno stesso, per discernere, insieme alla Chiesa, le spinte che ne deriveranno. L’obiettivo è ambizioso, ma sono convinta che nascerà qualcosa “di più e oltre” a quello che noi facciamo, a quello che noi oggi diciamo o prevediamo.

 

Lo strumento di lavoro elenca molto realisticamente tutta una lunga serie di blocchi e di impedimenti che non consentono, spesso, alla vita consacrata di essere quello che dovrebbe essere. Che ne pensa?

 

Nella sintesi del documento di lavoro apparsa su Testimoni (n. 7/2004), il commento ai cosiddetti “blocchi e impedimenti”, l’ho sentito abbastanza inquietante. Leggendo invece l’elenco nel testo originale, potrà sembrare strano, ma sono rimasta in parte delusa poiché m’attendevo una più chiara evidenziazione di questi blocchi, a livello di Chiesa e di società.

In pratica vi si dice che nel modo di progettare, di programmare la nostra vita consacrata siamo in un certo senso condizionati anzitutto dai modelli culturali del mondo d’oggi, e bloccati, per certi versi, da “un sistema ecclesiastico chiuso che diffida e sospetta della libertà evangelica che tante volte anima la vita consacrata”. (cf. Documento preparatorio, 53).

Da quanto conosco, mi pare che uno dei “blocchi” nella vita religiosa femminile sia l’aver indebolito o smarrito il vero senso ecclesiale, il senso cioè di una reale appartenenza alla Chiesa universale e locale; certi ambienti ecclesiali, invece, mostrano una reale difficoltà e anche una certa chiusura ad aprirsi al dinamismo della carità e della profezia su cui tanti istituti religiosi sono da tempo incamminati.

 

Nel documento sono ampiamente illustrate le due icone di riferimento per il prossimo congresso, quella della samaritana e quella del buon samaritano. È una delle prime volte, forse, in cui vengono applicate direttamente alla vita consacrata. A suo avviso è una applicazione appropriata?

 

Personalmente le ho trovate molto felici sia per la loro complementarietà sia come chiavi di lettura della nostra realtà ecclesiale e sociale. Mi piace cogliere nell’icona del buon samaritano una sollecitazione, una spinta ulteriore a porre dei gesti significativi e a riscoprire nei poveri il volto di Cristo. Nella cappella “Redemptoris Mater”, in Vaticano, padre Marco Rupnik ha raffigurato il samaritano in modo molto emblematico e cioè con lo stesso volto di Cristo. Contemplando questa icona, la vita religiosa trova motivo e coraggio ad andare in avanscoperta e ad assestarsi sulle “frontiere” del mondo contemporaneo, così diffusamente segnato dalla sofferenza e dalla povertà. Nell’icona della samaritana leggo l’invito a ritornare alla centralità e al fondamento della nostra vita religiosa, a quell’unum necessarium cui ci richiama il Vangelo.

 

Oltre ai blocchi e agli impedimenti, nel documento preparatorio si parla ampiamente di segni di speranza con cui guardare al futuro della vita consacrata. Sono solo segni o anche qualcosa di più?

 

Io direi che questi segni esistono realmente. Dobbiamo però fronteggiare costantemente la tentazione delle opere e della immediata risposta ai bisogni primari e ai bisogni emergenti della gente. Come Usmi stiamo ritornando a riappropriarci dei fondamenti della vita consacrata, del genuino carisma della “consacrazione”. Stiamo riflettendo sul discepolato, sulla riespressione della vita di fede, della vita cristiana, della vita come vocazione, mediante itinerari e attraverso quel laboratorio spirituale di cui parla il documento preparatorio.

Un altro passo da farsi con più convinzione è quello di parlare di rifondazione in termini nuovi, un po’ inediti, tentando di riesprimerla attraverso un serio discernimento spirituale. Non c’è rifondazione senza la riscoperta del fondamento della nostra vita religiosa. Dovremmo avere il coraggio e il gusto di parlare più esplicitamente dei criteri della vita spirituale, del mistero-realtà della redenzione, del regno di Dio, della missione affidata dal Padre al Signore Gesù e suoi discepoli.

Questi argomenti dovrebbero rientrare più frequentemente nei nostri discorsi, come orizzonte delle nostre scelte apostoliche, delle nostre riorganizzazioni o ristrutturazioni. Dovrebbero orientare e muovere tutta la nostra persona, spostare sempre di più il baricentro da noi stessi verso di lui e dalle nostre opere verso una testimonianza più aderente e incarnata.

 

Il problema più difficile è quello richiamato alla fine del documento. Nel tentativo di delineare un “nuovo paradigma” di vita consacrata, c’è un esplicito invito a “passare all’azione”. Da dove nasce, a suo avviso, questo invito?

 

Non si possono misconoscere i molti cambiamenti in atto nella vita consacrata femminile, ma non si può neppure tacere il pericolo sempre in agguato della sclerosi di tante nostre opere. I bisogni stanno cambiando vertiginosamente e noi spesso rimaniamo fermi su un tipo di risposte che andavano bene anni fa. Non abbiamo il coraggio e forse mancano le risorse per rimetterci in discussione.

Questo clima di prevalente immobilismo sta causando frantumazione e rottura. Stiamo assistendo a delle “gemmazioni”, come dicono alcuni vescovi, ossia piccoli gruppi di religiose che si staccano dal grande albero del proprio istituto, per tentare un nuovo stile di vita. Ma l’esperienza mi fa dire che questi tentativi spesso non riescono ad esprimere un nuovo paradigma di vita consacrata.

Mi pare che l’espressione più riuscita sia data da quei nuclei di consacrati che, mentre rimangono incarnati nella realtà, nel territorio, tentano di riesprimere la loro consacrazione partendo dalla parola di Dio, dalla vita fraterna, dalla preghiera liturgica comunitaria e non dalla riorganizzazione delle opere o dalla revisione di alcuni aspetti della vita di comunità. Ciò che conta è giungere al cuore della vita religiosa, riscoprire l’esperienza comunitaria, la preghiera, la condivisione, la correzione fraterna come promozione vicendevole, il saper “perdere tempo” per la fraternità, per l’incontro spirituale.

 

Ho visto sul rinnovato sito internet dell’Usmi le prime risposte sia a un sondaggio sulla qualità della vita comunitaria sia a quello per sapere se si vive la speranza in comunità. Nell’un caso come nell’altro le risposte non sono proprio molto incoraggianti. È forse giunto il momento di mettere sotto accusa le nostre comunità?

 

Se è vero che nella nostra realtà religiosa femminile italiana esistono ancora situazioni di vera chiusura, di un’obbedienza spenta, di scarsa comunicazione, sta però emergendo un po’ ovunque un clima più libero e sereno. C’è bisogno tuttavia di recuperare una visione più realistica e meno ideale della vita comunitaria, ricordandoci o facendo memoria del mistero pasquale senza disgiungere l’evento della Risurrezione da quello della Passione.

La dimensione della vita comunitaria, come evidenziato negli ultimi documenti sulla vita consacrata, non va data troppo per scontata; va presa come una via crucis e una via lucis che non procedono parallelamente ma si incrociano in modo realistico. Noi “formiamo comunità” non tanto per stare meglio o per una più efficiente organizzazione apostolica, ma prima ancora per sperimentare nei limiti del possibile la vita della prima comunità dei discepoli, attorno a Gesù.

A questo proposito mi piace riprendere un’espressione di p. Tommaso Spidlik, il quale, parlando della vita della Chiesa, osservava come storicamente tante lotte, tanti conflitti siano nati semplicemente dal fatto di voler stare insieme a tutti i costi, in forza di un’idea. Nello stesso tempo rimandava all’esempio di una madre che tiene unita la famiglia non in forza di un’idea, ma in forza del suo amore materno. La madre diventa un po’ la figura dello Spirito Santo nella sua dimensione relazionale e di amore.

Quale modello più vero per un’autentica vita cristiana e religiosa? È questo un campo aperto su cui dovremmo far sbocciare qualche cosa di nuovo.

 

Il problema della inculturazione è uno dei temi ricorrenti nello strumento di lavoro. Parlare di inculturazione significa anche parlare delle tante sfide derivanti dai diversi modelli antropologici, culturali, organizzativi a cui non solo i singoli religiosi ma anche i governi generali dei nostri istituti sono spesso impreparati a dare una risposta. La presidente dell’Usmi come vede questo problema dell’inculturazione?

 

Nelle nostre assemblee, da diversi anni, più che di inculturazione vera e propria preferiamo parlare di attenzione alla nuova realtà multiculturale delle nostre congregazioni. Il problema dell’inculturazione emerge fortemente nel campo della formazione iniziale. Da tempo nelle congregazioni religiose, soprattutto in quelle più numerose, ci si è accorti che non è possibile una formazione iniziale che, sia nella preparazione alla professione dei voti, sia nell’assunzione del carisma, non tenga conto delle diverse appartenenze e culture.

Un istituto religioso presente in Europa, in Africa, in Asia, in America Latina e in Oceania, pur avendo la stessa anima, non può avere le stesse modalità nell’esprimere il proprio carisma. In ogni processo di inculturazione, le parti in causa sono chiamate a mettere in discussione qualche cosa della propria storia. E qui, i primi a “perdere” in senso evangelico dovremmo essere proprio noi occidentali, senza misconoscere la nostra specifica identità.

 

Nel documento si insiste molto opportunamente sulla importanza della spiritualità. Anzi si auspica espressamente la nascita, all’interno dei nostri istituti religiosi, di veri e propri “ laboratori di spiritualità”. È un auspicio realistico?

 

Il tentativo che si sta facendo da molte parti è proprio quello di aiutare la leadership di una congregazione religiosa a passare da una gestione prevalentemente organizzativa a uno stile di governo più attento alla vita dello Spirito e al discernimento spirituale delle opere. Diversi percorsi formativi avviati all’Usmi vogliono essere proprio una risposta a questa necessità.

L’apprendimento dell’arte del discernimento spirituale è una strada difficile, ma obbligata. Non possiamo infatti continuare a condividere e a scambiarci soltanto le nostre preoccupazioni sulle cose da fare; continueremo a occuparci anche di questo, ma, nello stesso tempo, avvertiamo la necessità di prenderci cura attenta della vita dello Spirito che è in noi, che opera nelle nostre comunità e attraverso il nostro servizio. Non si tratta di fare di più, ma di dialogare di più per contagiarci nella fede e nella carità.

 

I redattori del documento temono che certe forme di vita consacrata possano trasformarsi in veri e propri “segni museali”, con un linguaggio fuori dal tempo, in un vissuto quotidiano di consacrazione non più significativa per l’uomo d’oggi. Stanno esagerando?

 

No, non stanno esagerando. Quando si parla di linguaggio, oltre alla trasmissione verbale di alcuni valori, penso alla modalità della nostra presenza e a come, di fatto, ci percepisce la gente, oggi. Fino a quando noi ci preoccuperemo di dare risposta prevalentemente ai bisogni materiali delle persone, probabilmente non riusciremo a esprimere un nuovo stile di vita.

È vero il fatto che sul fronte dell’emergenza, pur in mezzo a tante difficoltà e nonostante consorelle sempre più anziane, la vita religiosa è sempre presente. Ma questo non basta. In tutto quello che facciamo dovrebbero trasparire con chiarezza le motivazioni di fondo del nostro servizio, le ragioni del nostro carisma; diversamente le persone continueranno a venire da noi solo per i servizi che offriamo loro e non anzitutto per quello che professiamo ossia per conoscere Colui che desideriamo seguire.

Da un po’ di tempo mi ritorna un interrogativo di fondo. In tanti contesti sempre meno cristiani, la nostra presenza di consacrate fino a che punto sarebbe percepita utile e significativa, se non ci fosse il supporto e la visibilità di opere proprie? Penso che, oggi, si debba puntare molto di più non tanto su una nuova gestione delle nostre opere, quanto piuttosto su una nuova presenza come consacrate nella Chiesa. Abbiamo tante comunità generosamente disposte a rispondere, ad esempio, ai bisogni della tratta, della immigrazione e su altre frontiere della marginalità; non emerge la stessa forza e incisività per il ministero dell’annuncio.

Qui la nostra fantasia è ancora debole e poco luminosa; ci sta davanti tutto un futuro da scoprire.

 

a cura di Angelo Arrighini