III CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE

LA MISSIONE PER LA COMUNIONE

 

Il mondo della missione ad gentes offre alla Chiesa italiana un modello di evangelizzazione in cui si coniugano missione e comunione, ministeri laicali e vita religiosa, annuncio e dialogo.

È tempo di passare dalla logica della collaborazione a quella della corresponsabilità.

 

Il terzo Convegno missionario nazionale – Montesilvano (Pescara), 27-30 settembre 2004 – ha voluto scommettere su comunione e corresponsabilità per la missione, aprendosi con il simbolo della tela di ragno, evocato da Christian Sina Diatta, immaginifico ministro della ricerca scientifica del Senegal, per descrivere un mondo che cambia all’insegna di reti aperte che determinano una nuova geopolitica: “Una geopolitica senza stati è nata e si traduce attraverso una nuova distribuzione di poteri, il potere di reti come quelli che arbitrano, senza frontiere, la geopolitica di internet in cui un singolo individuo può destabilizzare una banca o uno stato. Il mondo diventa, attraverso i suoi organismi, un sistema connesso”.

Per rimanere in tema, gli oltre 1.800 convenuti (con più di 400 rappresentati della vita consacrata) hanno dato vita a una rete di scambi – 31 laboratori sulle frontiere della missionarietà (pace e giustizia, evangelizzazione, globalizzazione e comunicazione) e altrettanti sulla pastorale dell’annuncio (soggetti, ambiti d’impegno e modelli di riferimento) – organizzati a partire da 5 tavole rotonde in ascolto delle chiese nei cinque continenti e dalle due relazioni chiave, quella del cardinale Dionigi Tettamanzi e quella conclusiva del teologo Gianni Colzani.

 

Il SOGGETTO MISSIONARIO

E IL SUO MODELLO

 

Ne è uscito, ovviamente, un quadro complesso su cui occorrerà riflettere più compiutamente, nella consapevolezza che “il cammino missionario fatto dalla Chiesa italiana in questi decenni è stato ricco di frutti, ma è tempo di dare inizio a una fase nuova. Siamo stati sollecitati ad allargare lo sguardo oltre il nostro ambiente e i nostri problemi per operare un discernimento dei segni dei tempi, della storia dell’umanità, che è sempre storia dell’intervento di Dio. Nel breve tempo a disposizione abbiamo individuato degli areopaghi, degli ambienti, dei destinatari che dovranno connotare il cammino missionario delle nostre chiese. Uno sforzo che resterebbe povero e sterile se l’impegno missionario degli organismi ecclesiali non fosse connotato da vera ed effettiva comunione. La missio ad gentes, infatti, parte dalla comunione e ha per obiettivo finale la comunione di tutti i popoli tra loro e con Dio. Abbiamo ben presente che molte volte la mancanza di comunione, le contrapposizioni e la competitività tra le forze missionarie hanno ritardato, se non del tutto ostacolato la diffusione del regno di Dio. La missione non è proprietà di nessuno, nemmeno della Chiesa, ma è di Dio ed è lui che la consegna alla Chiesa. Il nostro sforzo in questo convegno è stato di discernere, verificare e dare nuovo dinamismo alle strutture di comunione per l’unica missione nella quale tutti i membri della Chiesa e gli organismi sono impegnati. Solo se riusciremo a evangelizzare in comunione, la missio ad gentes non resterà più un’attività per addetti ai lavori, ma diverrà il cuore stesso dell’agire della Chiesa” (messaggio finale letto da mons. Flavio Carraro, presidente Commissione CEI per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le chiese).

Dopo gli appuntamenti del 1990 a Verona, in cui si è evidenziata la variegata realtà italiana della missio ad gentes: 2.500 appartenenti a istituti specificatamente missionari, 8.000 religiose/i, 1.000 laici tra cui numerose famiglie, 2.000 inviati da movimenti e associazioni, 600 preti fidei donum e del 1998 a Bellaria (momento significativo di apertura del “libro della missione”: cf. il bel documento che ne è scaturito L’amore di Cristo ci sospinge), è arrivato il momento di contribuire con una proposta al progetto di nuova evangelizzazione in Italia, per troppi versi fermo alle buone intenzioni se non alle formule da convegno.

In questo senso, i convenuti hanno chiaramente mostrato il fastidio verso ogni forma di strisciante paternalismo e clericalismo nella consapevolezza del patrimonio di visione e di identità missionaria, che va oltre il volto tradizionale del sostegno alle iniziative di promozione umana all’estero. Gli evangelizzatori infatti sono stati evangelizzati. Dall’Africa portano una spiritualità e una prassi per una chiesa locale come famiglia, in cui tutti trovano spazio di perdono e riconciliazione; dall’America Latina, dove più palese è il problema della giustizia sociale, raccontano la spinta per una ministerialità laicale radicata nel Vangelo, capace di gestire la cosa pubblica (santità sociale) e di mettere in atto una resistenza pasquale che ha il martirio come sbocco naturale; dall’Asia testimoniano di come la missione si connoti come scelta dei poveri, come dialogo tra culture e religioni, e che non è possibile evangelizzare se non nella sofferenza.

Quello missionario è dunque oggi un movimento portatore “di una maniera di interpretare la fede e, quindi, di comprendere la persona di Gesù e la realtà della Chiesa; di una maniera di guardare la storia e, quindi, di valutarne le dinamiche e le prospettive; di una maniera di intendere la vita e, quindi, di coglierne i valori e il significato” (Colzani). Un movimento che, nel suo complesso, può mettere a disposizione della Chiesa italiana una buona capacità di integrare il vecchio e il nuovo dell’evangelizzazione. Perché ha vissuto sulla propria pelle il Vangelo del Regno, che non ha allontanato da Gesù ma ha avvicinato all’uomo, che non ha politicizzato i protagonisti ma li ha introdotti a una conversione e a una contemplazione al centro della vita apostolica, che ha aiutato a svelare i meccanismi della globalizzazione perché ci si è messi dalle parte delle vittime e dei poveri. Un movimento che ha superato il concetto di missione a senso unico (convertire i pagani) per assumere un modello di scambio e di reciprocità, capace di rinnovare la vita cristiana delle nostre comunità di antica fondazione con la freschezza della missione ad gentes: “dalla concezione post-coloniale che la intendeva come espansione, egemonia culturale e religiosa della società occidentale, conquista di spazi ulteriori, siamo giunti a pensarla come testimonianza del Vangelo, come vicendevole accoglienza. Anche la conversione ci è apparsa sempre di più come conversione a Dio, a quel Dio che non rinnega quel che una persona ha maturato in sé di buono e di nobile ma, se mai, lo potenzia”.

 

IL PROBLEMA

DELLA CORRESPONSABILITÀ

 

Per quanto possa apparire strano, proprio il tema della corresponsabilità è apparso subito centrale ma poco tematizzato in plenaria. Il cardinale Tettamanzi, sottolineando la necessità di partire dalla missio ad gentes per comprendere e vivere l’intera pastorale della Chiesa e analizzando la finale del vangelo di Matteo (28,16-20) in cui si disegna il paradigma missionario comunionale, ha indicato come il nostro paese sembri un ponte naturale gettato nel Mediterraneo sul quale già passano e ancor più sono destinate a passare molte storie umane e spirituali: “Questo è l’elemento nuovo che ci tocca in questi primi anni del terzo millennio: la spinta missionaria non è più solo ad gentes, ma è anche infra gentes. La missione, cioè, è qui dietro l’angolo, nel pluralismo culturale e religioso che ci avvolge da tutte le parti. Non è più possibile pensare le nostre parrocchie e le nostre diocesi come mondi chiusi in se stessi: devono diventare case ospitali. E, in realtà, riusciranno ad essere tanto più ospitali quanto più matureranno in una fede viva e vitale e in una identità precisa. La “Galilea delle genti”, che il nostro paese sta diventando, ha bisogno di cristiani dalla fede matura e di comunità che non temono l’incontro, il confronto, la testimonianza, in una parola lo slancio missionario”. Pur dicendo che la missio ad gentes è il normale orizzonte della chiesa locale, la prospettiva con cui può vivere la sua dedizione alle vicende e alla storia di tutti e di ciascuno, e che abbiamo bisogno di vedere intorno a noi uomini e donne spirituali (non di uno “spirito” fiacco, debole, preoccupato del proprio benessere, delle proprie armonie e riuscite personali, ma animati dallo “Spirito di Gesù” forte e coraggioso), l’arcivescovo di Milano non si è spinto oltre nell’indicare concreti cammini di corresponsabilità pastorale.

Nelle tavole rotonde e nei laboratori, invece, si è puntato l’indice su una Chiesa ancora troppo clericale e timida nel promuovere laici e religiosi come evangelizzatori secondo le chiare indicazioni degli Orientamenti pastorali del decennio Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Si è anche guardato con realismo alla necessaria maturazione sia del laicato (oggi propenso più alla logica della collaborazione che a quella della comune responsabilità), sia della vita religiosa (ancora in difficoltà a convergere sul piano pastorale della chiesa locale per lavorare in sinergia).

Mons. Franco Masserdotti, vescovo comboniano in Brasile e presidente del Consiglio indigenista missionario, ha indicato il modello di missione che nasce dalla scelta preferenziale dei poveri: “Si tratta della dimensione profetica trasformatrice contro il sistema socio-economico ingiusto ed escludente. Questa scelta dei poveri si è espressa in tanti modi: teologia della liberazione, lettura popolare della Bibbia, pastorali sociali di frontiera, inserzione della vita religiosa negli ambienti popolari. Ma soprattutto essa si è manifesta attraverso le comunità ecclesiali di base con la loro apertura ai ministeri laicali… viste sia come piccole strutture della Chiesa in movimento, sia come visione di chiesa che dinamizza e orienta le linee pastorali. In Brasile e in altre parti dell’America latina l’apertura missionaria delle comunità di base è garantita da un nuovo modo di vivere le missioni popolari in cui i laici sono protagonisti”.

P. Cesare Baldi, missionario del Pime (laboratorio su conversione missionaria per la nuova evangelizzazione), evidenziando le responsabilità della parrocchia in ordine alla produzione di una religiosità privatistica, consumistica e terapeutica e rilevando le tendenza del clero a conservare le relazioni di affinità piuttosto che a far crescere la propria rete di contatti, ha indicato l’urgenza di passare da una pastorale della missione a una pastorale come missione. Con questo si intende un cambiamento di coscienza ecclesiale e insieme di struttura: “Occorre recuperare innanzitutto la missione della Chiesa alla comunione universale e in secondo luogo una metodologia pastorale ad essa adeguata, non più centrata sulla celebrazione dei sacramenti ma sulla ricerca dell’altro, sull’incontro, il dialogo, la comprensione reciproca e infine la comunione”. Questa nuova evangelizzazione coinvolge l’intera comunità cristiana in tutte le sue componenti e in particolare si esprime nella valorizzazione della coppia come soggetto pastorale: “Occorre recuperare pienamente una spiritualità familiare non più dipendente dalla religiosità monastica, né esclusivamente centrata sulla celebrazione liturgica domenicale, ma in grado di educare al senso e alla presenza del mistero di cristo nella vita quotidiana, con forme e riti propri. Occorre recuperare pienamente una laicità del cristiano, chiamato ad appartenere al popolo di Dio e a contribuire alla sua crescita e alla sua unità”.

P. Fidenzio Volpi, ofmcap segretario generale Cism (laboratorio sul ruolo dei religiosi per il primo annuncio e la pastorale integrata) ha sottolineato che proprio l’attuale situazione di cambiamento globale esige un procedere collaborativo tra le tre fondamentali modalità di annuncio presenti nel contesto ecclesiale e condensate nelle categorie di “presenza, mediazione, silenzio”. I religiosi, in forza della loro vocazione alla fraternità, devono fare innanzitutto da by-pass tra la parrocchia, i nuovi movimenti e le associazioni tradizionali; in secondo luogo, possono dare un contributo al primo annuncio con uno stile improntato all’accoglienza gratuita dei non credenti, all’entrata in relazione con le grandi domande culturali del nostro tempo, alla comunicazione del Vangelo rispettosa del contesto multietnico e multireligioso.

Da queste brevi suggestioni si intravede come il convegno abbia spinto la riflessione sull’attuale modello ecclesiale, portando i soggetti della missione ad gentes a prendere coscienza dell’importanza di promuovere una spiritualità di servizio e a pungolare perché si creino spazi concreti ove la corresponsabilità sia davvero praticabile.

 

Mario Chiaro