MODULAZIONI SULL’ICONA DELLA SCALA DI GIACOBBE
SPIRITUALITÀ DELLA MISSIONE
La missione
cristiana nasce dal bisogno dell’imitazione di colui che, essendo di natura
divina, è disceso per servire. È frutto di un cammino spirituale e il cammino
spirituale si alimenta della fatica della missione. Spiritualità e missione
sono intimamente connessi.
Solo qualche osservazione empirica della realtà attuale,
interpretata con l’aiuto di alcuni Padri particolarmente amati e tenendo
presenti le povere persone impegnate nella missione in questo mondo scombinato.
Diciamo subito che mentre per noi occupatissimi
occidentali della tarda modernità fa problema la contemplazione (Maria), per i
Padri era l’azione (Marta) a essere un problema. Il complesso dei rapporti tra
Marta e Maria è una questione tipicamente occidentale, forse la più occidentale
di tutte le questioni della storia della spiritualità. Agostino e Gregorio
Magno, uomini portati allo studio e alla contemplazione, ma obbligati
all’azione dagli impegni pastorali, l’hanno affrontata da molti punti di vista.
Essi hanno dovuto continuamente coniugare la caritas
veritatis con la necessitas caritatis, l’amore della verità con il dovere della
carità, l’amore allo studio e dell’interiorità con i problemi concreti della
missione, missione composta dal dire e dal fare, dalla carità della Parola e
dalla carità delle opere.
All’inizio della riflessione ecclesiale di quella che
oggi si chiama spiritualità della missione, ci stanno le loro preoccupazioni e
le loro intuizioni. Lasciamoci guidare dal commento fatto da Agostino alla
scala di Giacobbe.
Commento che possiamo prendere come paradigma del cammino
spirituale di chi è in missione.
LA SCALA
DI GIACOBBE
Giacobbe in fuga fa un sogno e vede angeli salire e
scendere lungo una scala (Gen 28,10-22). Gli angeli che salgono, commenta il
santo dottore, sono le anime che sentono forte il desiderio di Dio, desiderano
contemplare il suo volto, entrare in intimità con lui. Per questo si dedicano
alla lettura assidua e orante delle sacre Scritture e, nella loro meditazione,
s’incontrano con la grande pagina del prologo di Giovanni: “In principio era il
Verbo”, “il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. E contemplano il Verbo
radioso nello splendore dell’eternità. E si beano di questa beata visione. Ma,
subito dopo, proseguendo nella loro lettura, incontrano anche l’altra
affermazione: “Il Verbo si è fatto carne”, è disceso per abitare in mezzo a
noi. Da qui la sorpresa, lo stupore per un Dio che discende. Da qui l’intima
necessità di seguire il Verbo che è disceso per servire. Il Verbo discende per
servire, al contrario d’Adamo che decadde per non voler servire.
Seguire Adamo o il Verbo? Rifiutare di servire e vivere
per sé o servire nella missione? Chi ha conosciuto il Verbo, il Figlio, non può
non scendere per servire, con lui e come lui. La motivazione e la spiritualità
della missione sgorgano da questa fonte: si va in missione perché così ha fatto
il Figlio di Dio, per imitare il Verbo che si è fatto carne. La missione nasce
dalla considerazione attenta della parola di Dio, dall’intravedere qualche cosa
del mistero del Verbo, che non si aggrappò alla sua “uguaglianza con Dio”, ma
“umiliò se stesso, assumendo la forma di servo”.
È fare propri gli stessi sentimenti e atteggiamenti di
Cristo orante, servo e missionario.
La missione cristiana nasce dal bisogno dell’imitazione
di colui che, essendo di natura divina, è disceso per servire. Da qui viene una
prima constatazione: la missione non si risolve in un percorso puramente
orizzontale, così come il cammino spirituale non si risolve in un percorso
puramente ascensionale, verticale. La missione è frutto di un cammino
spirituale e il cammino spirituale si alimenta della fatica della missione.
Spiritualità e missione sono intimamente connessi.
Come pure: la missione non è frutto di un rapporto
immediato della persona umana con un’altra persona umana, ma è frutto di
rapporto con Dio che invita al servizio del fratello sulle orme e sul modello
del Verbo.
Prendendo come punto di riferimento l’interpretazione
agostiniana della scala di Giacobbe, possiamo così presentare il cammino
spirituale della missione, nella sua struttura di fondo, tenendo presente il
momento che siamo chiamati a vivere.
Un percorso che non è rettilineo, ma è costituito da un
alternarsi di salire, per ascoltare e incontrare Dio, e d’un discendere per
incontrare e servire i fratelli. In realtà soltanto colui che sale a Dio ha la
motivazione e la forza per discendere a servire nel duro lavoro della missione
(prima tappa). Ma è nel lavoro della missione che si verifica la verità del
nostro “uscire da sé” e quindi si acquista slancio per risalire a una più alta
e appropriata conoscenza di Dio (seconda tappa). Da qui una dedizione sempre
più totale alla missione (nuova tappa) per poi risalire sempre più in
profondità nel cuore del mistero di Dio (e così via, per le altre tappe
successive)
ASCENDITE
UT DESCENDATIS
All’inizio c’è dunque un’esperienza di tipo religioso,
che si fa sentire in diversi modi: avvenimenti quotidiani o straordinari,
un’educazione cristiana, incontri di preghiera o di persone, letture,
inquietudini, e tutte le altre innumerevoli vie che il Creatore del cuore umano
conosce per attirare a sé.
Ogni esperienza religiosa sveglia o risveglia nel cuore
della persona umana il desiderio di Dio. Il desiderio di Dio diventa desiderio
del “Dio vivo e vero”, del Dio d’Abramo, di Isacco e di Giacobbe, del Dio di
Gesù Cristo, quando viene alimentato e orientato dal contatto con la parola di
Dio.
Si può dire che la lectio divina, o la frequentazione
della parola di Dio, mentre tiene vivo questo desiderio, lo fa diventare
cristiano, distinguendolo o togliendolo dalla vaga religiosità diffusa, perché
lo fa incontrare con il Verbo, che è “la vita del mondo”.
L’avviluppante abbondanza di cose, tipica della nostra
società, con la loro sottile e pervasiva seduzione, tende a tarpare lo slancio
verso l’alto, a tenerlo bloccato dentro gli orizzonti degli interessi e delle
cose di questo vasto ma limitato mondo e persino a immergerlo in un diffuso
senso del divino che permea l’orizzonte visibile.
La “familiarità orante” con la Parola di vita è dunque
necessaria per essere strappati dalla “vanità” di questa visione e da questo
stile di vita ed essere messi a contatto con il Verbo della vita. Chi non sale
per incontrare il Verbo, non ha né desiderio, né comprensione della missione,
né costanza nel resistere alle sue esigenze. Ascendite ut descendatis. Questo
salire non ha nulla di neoplatonico e neppure è frutto di sforzo umano, ma è
conseguenza della divina seduzione, del “Padre che attira a sé” quelli che lui
vuole.
DESCENDITE
UT ASCENDATIS
Discesi per servire nella missione, lo Spirito mette alla
sequela del Verbo fatto carne. Il cammino spirituale cioè ha come primo
obiettivo quello di seguire Cristo che lavora e fatica per la diffusione del
Regno. La missione è partecipazione del servizio del Verbo. Ignazio di Loyola è
un maestro in questo campo: «Nostro Signore chiama tutti e dice: chi vuol
venire con me, deve anche lavorare con me, perché seguendomi nella sofferenza,
mi segua nella gloria».
Per questo occorre tenere presente continuamente che
nella missione non si lavora per se stessi o per una causa puramente umana, ma
«è necessario cercare il Signore ovunque, come nel conversare con gli altri,
nel camminare, nel vedere, nel gustare, nell’ascoltare, nell’intendere e in
tutto quello che facciamo, perché la sua maestà è in tutte le cose. Non solo,
ma bisogna amarlo in ogni cosa».
Si può osservare:
a) Si entra nel mistero della missione, e quindi della
sua spiritualità, in primo luogo attraverso l’umiltà, dal momento che il Verbo
onnipotente, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, ha voluto
toccare i cuori, attraverso la sua kenosi, lo spogliarsi di ogni potere per
dedicarsi all’umile servizio. È attraverso la spoliazione di sé che il Verbo ha
potuto parlare d’amore al cuore degli uomini.
Ed è questa la via che introduce nel mistero della
missione, che è mistero di un amore indifeso che parla dell’Amore eterno. La
missione non è conquista, dimostrazione di potenza, ma dimostrazione d’amore,
che viene dall’umile servizio.
Oggi, tutto sembra condurci a riscoprire questa difficile
dimensione della spiritualità della missione. La quale, se non è mai stata
facile perché sempre fatta di lavoro e di fatiche, sta attraversando alcune
notevoli difficoltà che fanno crescere il discepolo soprattutto nell’umiltà.
«In Europa, stiamo assistendo al crollo di un certo tipo
di Chiesa che, all’interno della società pluralista, pare proprio destinata a
finire. Si registra ovunque una partecipazione sempre più debole alla vita
ecclesiale (e il fondo non è ancora stato toccato). Tra i credenti sono vistose
le insicurezze, la crisi di autorità, un enorme deficit di esperienze di fede,
una riduzione drammatica del numero di individui impegnati in compiti
spirituali. Tra i non credenti è palpabile un analfabetismo sempre più vistoso
in fatto di religiosità. E al di là di tutto, una perdita sempre più evidente
di credibilità della Chiesa, unitamente a un calo di rilevanza sociale»
(Greshake, La spiritualità del deserto, 264)
«La grave situazione d’indifferenza religiosa di tanti
europei, la presenza di molti che anche nel nostro continente non conoscono
ancora Gesù Cristo e la sua Chiesa e che ancora non sono battezzati, il
secolarismo che contagia una larga fascia di cristiani che abitualmente
pensano, decidono e vivono “come se Cristo non esistesse”, lungi dallo spegnere
la nostra speranza, la rendono più umile e più capace di affidarsi a Dio solo»
(Messaggio finale del sinodo dei vescovi d’Europa).
È la conversione all’umiltà, che viene dall’umiliazione
di fronte dall’arretramento visibile da molte posizioni del passato, dal
sentirsi emarginati perché discepoli del Signore, dall’ essere partecipi della
fragilità del popolo di Dio in difficoltà di fronte alle pressioni sociali e
culturali le più contraddittorie.
Questa prova collettiva può essere purificatrice.
Conosciamo bene le insidie dell’azione, che spesso viene incontro al bisogno di
sentirci importanti, di avere persone attorno a noi che brucino incenso al
nostro orgoglio e alla nostra vanità.
Una purificazione, la nostra, che può avvicinarci a Dio.
È infatti dalla decostruzione che viene la ricostruzione. È dalla decostruzione
nel deserto e dell’esilio che il Signore ha costruito il suo popolo secondo il
suo cuore. Tutta la storia della salvezza testimonia che grave perdita e dono
straordinario si tengono assieme in forte tensione. L’umiltà è accettazione
della debolezza e, nello stesso tempo, attesa di un dono dall’alto. «Ascendete
mediante l’umiltà», incoraggia san Bernardo. Questa è la via; non ce n’è un’altra.
Chi cerca di progredire altrimenti, cade più velocemente di quanto non salga.
Solo l’umiltà esalta, solo essa conduce alla vita. Essendo Dio, il Cristo non
poteva crescere: egli tuttavia ha trovato il modo di crescere, e lo ha fatto
discendendo, incarnandosi, soffrendo, morendo. Dio lo ha esaltato, Gesù è
risuscitato, è asceso, si è assiso alla destra di Dio. “Va’ e fa’ anche tu lo
stesso” (Lc 10,37). Impossibile per te salire se non cominci a discendere. Vi è
una legge eterna: “Chi si innalza sarà umiliato, chi si abbassa sarà esaltato”
(Lc 14,11).
Chi accetta d’essere abbassato, viene innalzato a una più
vera conoscenza di Dio. Un’avvertenza: l’umiltà è anche senso del proprio
limite. L’umile non si sente responsabile del buon andamento di tutte le cose,
di tutti i risultati. L’umile s’impegna “con tutte le forze”, ma attende
fiducioso i risultati da Dio. L’umile lavora sodo, ma non si affanna. L’umile
abbandona se stesso e i risultati dell’opera delle sue mani al suo Signore e
Salvatore.
b) Siamo in un momento delicato, ma il servizio agli
ultimi possiamo pur sempre svolgerlo. L’impegno nella missione, il
decentramento di sé verso gli altri, a imitazione del Verbo servo e
missionario, si fa necessariamente amorevole servizio umile ai più umili. È una
dimensione molto sentita in un passato recente, ma che rischia di essere
attenuata da uno strisciante e crescente disimpegno. Ma va continuata, perché
il servo del Signore deve essere servo dei fratelli.
Lasciamo qui la parola al grande Gregorio: «Quando la
carità si abbassa amorosamente per provvedere anche alle minime necessità del
prossimo, allora s’incammina rapidamente verso le più alte vette. E quando
benignamente s’inclina alle estreme necessità, più vigorosamente riprende il
volo verso le altezze. Saliamo ai vertici della contemplazione per la scala
della vita attiva». Sia permesso citare il testo originale, per la rara
efficacia: «Tunc ad alta caritas mirabiliter surgit, cum ad ima proximorum se
misericorditer attrahit». E ancora: «Ogni anima, quanto più si aprirà all’amore
del prossimo, tanto più penetrerà nella conoscenza di Dio».
Vissuta non tanto come azione che tende all’affermazione
di sé o dell’istituzione o anche non solo come servizio solidale al fratello,
ma come partecipazione alla discesa del Verbo, che “umiliò se stesso” prendendo
la condizione di servo, per divina filantropia, per amore della pecorella
perduta, la missione innalza verso una più intima comprensione di qualche
barlume del mistero di Dio.
È quindi imitando il Verbo, il quale per amore si umilia
nel servizio, accetta le umiliazioni, continua ad amare servendo, che si
acquista capacità per risalire a una rinnovata conoscenza di Dio.
Il tema, ricorrente in Gregorio Magno, diventerà la linea
interpretativa non solo dei rapporti tra vita contemplativa e vita attiva, ma
anche una guida della spiritualità del servizio e, in pratica, della
spiritualità della missione.
Qui l’ascetica non è tanto un salire con il proprio
sforzo verso Dio, ma un discendere verso l’uomo, imitando la discesa dello
stesso Verbo verso l’uomo.
CRESCERE
NELLA SAPIENZA
La povertà del momento presente, le difficoltà
dell’annuncio, l’indifferenza di molti, il misericordioso servizio, che non
raramente ottiene scarse gratificazioni, il cuore spesso senza appigli terreni,
sono situazioni e momenti di crescita nell’umiltà e nella carità: due
atteggiamenti che scavano nel cuore del discepolo il desiderio di Dio e lo
riportano nel cuore del suo ineffabile mistero.
Dopo l’umiltà e il servizio, anche il desiderio di Dio,
fa risalire, estende l’animo a Dio. Bernardo parla spesso del desiderio di Dio,
di questa sete, di questa avidità, di questa concupiscenza tutta spirituale, di
questa tensione verso l’infinito, di questa veemente cupidigia di vedere Dio,
di possederlo interamente, di essere integralmente con lui. C’è in lui, come in
ogni servo di Dio, spesso sperduto nell’affollatissimo deserto di questo mondo,
la nostalgia del Tutto.
Dio sostiene e incoraggia il servo fedele, ammettendolo
alla sua intimità. «Chi sale non si ferma mai. Vedere Dio significa non essere
mai sazi di desiderarlo, poiché in ogni momento il desiderio appagato genera un
altro desiderio» (Nisseno). Chi scopre la bellezza divina «non cessa mai di
desiderarne di più, perché quello che si aspetta è ancora più magnifico e più
divino di quello che ha visto» (Id.).
a) Sono questi i momenti di luce: l’approccio alla
Scrittura acquista un fascino e uno spessore insolito: «Un canto nella notte»,
direbbe il nostro Gregorio.
«E un rifugio nei tormenti della vita». È qui che sono
ricercati i momenti di silenzio, il deserto attrae, si cerca una luce diversa,
una bellezza più luminosa. E la parola di Dio parla, anzi spesso “canta”,
affascina, consola. La Parola apre nuovi orizzonti, la sua frequentazione diventa
una necessità più che un dovere, perché in essa si sente sempre più pulsare il
cuore di Dio che parla al nostro cuore.
Sempre lui, Gregorio papa, scriveva ad un laico: «Ogni
giorno medita le parole del tuo Creatore. Scopri il cuore di Dio nelle parole
di Dio, perché tu giunga a sospirare più ardentemente le cose eterne e la mente
ti si accenda di maggior desidero dei gaudi celesti. Per arrivare a questo sia
lo stesso Dio onnipotente a effondere in te lo Spirito consolatore. Che egli
riempia la tua anima della sua presenza e riempiendola ti elevi».
Dal profondo della debolezza si sale volentieri per
afferrare e lasciarsi afferrare dalla grandezza del nostro Dio, roccia,
rifugio, conforto, sostegno, luce, vigore, amore.
Soprattutto Amore che mi ama e vuole che io lo ami nei
miei fratelli, da lui ugualmente amati.
b) Ma non sempre il “ritorno a Dio” è spontaneo, perché
capita che, talvolta siamo pressati dalle cose urgenti da fare, o veniamo
assediati da ben altri interessi o siamo travolti da ben altri piaceri e
dispiaceri: allora ci viene in aiuto l’ammonimento di Agostino: «È necessario
tornare alla frequentazione delle cose di Dio «perché il gusto delle cose
terrene non faccia perdere il gusto delle cose celesti».
E ancora: «Perché non capiti che, venendoci a mancare la
soavità della contemplazione, restiamo schiacciati sotto il peso del lavoro
apostolico».
La continua ripresa del gusto delle cose di Dio aiuta a
non lasciarsi assorbire totalmente dalle cose terrene. Non solo: perché privati
dalla superiore luce e dal conforto che viene da lontano, non ci lasciamo
abbattere dallo scoraggiamento, dall’apatia, dalla frustrazione, dalla sfiducia
verso il futuro. Tutte tentazioni non propriamente esotiche nel nostro attuale
panorama.
In queste situazioni un notevole aiuto può venire dagli
exempla sanctorum.
c) Siamo dunque sul Tabor, il monte dell’incontro
illuminante con il volto luminoso del Figlio, dell’incontro con la voce
rassicurante del Padre, con la percezione della presenza dello Spirito. Ma
anche dell’incontro con due grandi testimoni e profeti, Elia e Mosè, pure
presenti.
Chi sale il santo monte, mentre si inoltra nel mistero di
Cristo e della sua sfolgorante seduzione e della sua avvolgente vita
trinitaria, si incontra anche con i grandi uomini d’azione, Mosè ed Elia,
profeti coraggiosi, che spingono all’impegno per la causa di Dio, che
incoraggiano nel lavoro per la missione.
«Ciascuno di questi due profeti – annota il Crisostomo –
aveva perduto la sua anima e l’aveva ritrovata. Tutti e due si erano presentati
arditamente davanti ai principi induriti, il faraone e Acab. Tutti e due si
erano esposti per parlare in favore d’un popolo disobbediente e ribelle. Tutti
e due avevano deciso di sloggiare il popolo dall’idolatria».
Per questo Agostino si rivolge a Pietro che voleva
restare sul monte: «Scendi Pietro: bramavi riposare sul monte. Scendi, proclama
la Parola, intervieni opportunamente e importunamene, confuta, esorta,
rimprovera con tutta longanimità e ogni genere d’insegnamento. Lavora,
affaticati, soffri tormenti: quel che indicano le candide vesti del Signore, tu
abbilo nel candore e nella bellezza dell’apostolato ispirato dalla carità. La
realizzazione del tuo desiderio, o Pietro, ti era riservata dopo la morte. Ma
ora il Signore stesso ti dice: scendi a terra a lavorare, a servire, a essere
disprezzato e crocifisso. È discesa la vita per farsi uccidere, è disceso il
pane per soffrire la fame, è discesa chi era la via per sottoporsi alla
stanchezza lungo la via; è discesa la sorgente per patire la sete: e tu ricusi
di lavorare? Non cercare il tuo interesse. Abbi la carità. Proclama la verità:
perverrai allora a quell’eternità in cui troverai la pace».
Dal Tabor dunque alla missione. Più pacatamente spiegherà
poi il “servo dei servi di Dio” Gregorio: «Bisogna sapere che se un buon metodo
di vita richiede che spesso si passi dalla vita attiva a quella contemplativa,
tuttavia è molto utile che l’anima ritorni dalla vita contemplativa a quella
attiva perché la fiamma accesa nella contemplazione, dia tutta la sua
perfezione nell’azione».
Rituffiamoci nuovamente nella missione.
CRESCERE
NELL’AGAPE
Colui che ha sentito “il cuore di Dio nella parola di
Dio”, sente con particolare evidenza ciò che comportano le parole del
comandamento nuovo del Signore, “amatevi gli uni gli altri, come io vi ho
amato”. Il progredire nella comprensione del mistero cristiano introduce nella
comprensione del primato dell’agape tanto nella vita personale come nella
missione. E ciò orienta a considerare l’urgenza evangelica del compito di
promuovere la fraternità, proprio nell’agire missionario e per l’agire
missionario.
a) Promuovere la fraternità è infatti un segno di
maturità cristiana, è superamento delle seduzioni dell’individualismo
trionfante, è fede nella promessa del Signore d’essere presente là dove i
discepoli s’impegnano a vivere come fratelli.
S. Agostino faceva della fraternità la misura del
progresso spirituale. Vuoi vedere, diceva in sostanza, a che punto sei arrivato
con il tuo progresso spirituale? Nella misura in cui preferirai le cose comuni
alle tue personali, tu potrai vedere dove sei arrivato.
La missione allora non sarà un’avventura solitaria, ma il
frutto e l’espressione di una ricercata fraternità, nella consapevolezza che il
frutto più maturo della missione è la costruzione di fraternità. E ciò per
fedeltà alla volontà del Signore Gesù, per essere suoi discepoli, per godere
della sua presenza, per sentirsi portatori di un messaggio nuovo e
rinnovatore,anche nel nostro mondo globalizzato, nel quale gli egoismi e gli
estremismi possono portare a uno “scontro di civiltà”.
L’agape immerge nel cuore dei problemi, ma partendo da un
cuore rinnovato, purificato dai pregiudizi, desideroso di servire e non di
asservire, disposto a collaborare con chi avanza soluzioni migliori, non è
geloso verso chi opera il bene, ma è comprensivo e incoraggiante. L’agape
costruisce una chiesa fraterna, secondo il modello voluto dal Signore, una
chiesa in grado di “rendere testimonianza alla risurrezione del Signore Gesù,
con grande forza” (At 4,33). L’“agape non avrà mai fine” (1Cor 13,8): tutto può
crollare, ma l’agape resta.
Proprio una certa povertà di risultati, tipica del
momento presente, se accolta nella pace e non nell’amarezza, renderà più ricchi
perché orienta a coltivare la crescita nella fraternità tra le varie componenti
ecclesiali, tra gli stati di vita, i carismi, le vocazioni, le missioni
particolari, gli istituti.
E qui si impongono alcune domande inquietanti:
Riuscirà la valanga di provocazioni del momento presente
a travolgere l’inamovibile individualismo che sembra rendere utopica la
fraternità, per ridare quella gioia alla vita e alla testimonianza cristiana,
che solo la fraternità può dare?
Riusciranno tutte le presenti difficoltà a far maturare
la convinzione che la costruzione della fraternità non è una perdita di tempo,
che il cercare l’unità getta le basi di ciò che è destinato a rimanere, dopo lo
sfaldamento di tante cose su cui abbiamo provato a costruire i nostri progetti?
Riusciremo a metterci al lavoro, pressati da tali e tanti
eventi, per costruire assieme un modello di Chiesa “fraterno”, come uno dei
vertici del cammino spirituale, personale e comunitario, della missione?
b) Un cuore che frequenta il cuore di Dio, si riempie di
viscere di misericordia, di compassione. Promuovere la compassione, come
espressione dell’agape, come parola chiave per la missione nell’età del
pluralismo dei mondi religiosi. «La compassione è sofferenza-con, è partecipe
percezione del dolore altrui, è pensiero attivo della sofferenza degli altri, è
tentativo di vedersi e di valutarsi con gli occhi degli altri, degli altri
sofferenti, è memoria passionis soprattutto del dolore altrui» (J.B. Metz).
Quando si percepisce il dolore altrui come centrale,
quando l’autorità debole dei sofferenti diventa forte, allora si entra nel
campo dell’agape ed essa diventa viva e animatrice.
c) La crescita nell’agape è sorgente di fortezza nelle
prove della missione, nelle notti che avvolgono ogni vero servo di Dio
impegnato nella causa del Regno.
san Vincenzo de Paoli conosceva le notti dell’apostolo,
specie di chi serve i poveri: «Jeanne, presto ti accorgerai che la carità è
pesante più della pentola della minestra, più del cesto colmo di pane… Ma tu
conserverai ugualmente la tua dolcezza e il tuo sorriso. Far dono del brodo e
del pane non è tutto. Anche i ricchi possono farlo! Tu sei la piccola serva dei
poveri, la suora di Carità sempre sorridente e di buon umore.
I poveri sono i tuoi padroni e… padroni terribilmente
suscettibili ed esigenti. Lo vedrai! Allora più essi saranno ripugnanti e
luridi, ingiusti e volgari, più tu dovrai donare loro il tuo amore. E per il
tuo amore, solo per il tuo amore i poveri ti perdoneranno il pane che loro
offri».
In linea con i grandi mistici scriveva: «L’amore
effettivo si ha quando operiamo per Iddio, senza sentire le sue dolcezze;
questo amore non è percettibile nell’ anima. Essa non lo sente, ma non per
questo lascia di produrre in essa il suo effetto e compiere il suo atto».
d) L’agape infonde il coraggio di essere distaccati da
tutto per dedicarsi alla missione con particolare attenzione all’azione dello
Spirito. Quando siamo pieni dei nostri piani e delle nostre iniziative, è
facile che consideriamo lo Spirito Santo come un nostro collaboratore, che lo
invochiamo perché venga a sorreggere le nostre scelte, perdendo in tal modo il
senso delle proporzioni.
È lo Spirito che guida la missione e chi opera nella
missione e noi non siamo che umilissimi suoi collaboratori, “soltanto dei servi
e nient’altro che dei servi”.
Per comprendere le vie dello Spirito, occorre avere il
cuore purificato, nel quale sboccia il raro fiore del distacco interiore.
«Quando si è rinunciato a tutto – soleva dire papa
Giovanni – proprio a tutto, ogni audacia diventa la cosa più semplice e più
naturale del mondo». Le audacie di papa Giovanni, che tanto influsso hanno
avuto sulla Chiesa e sul mondo, sono frutto di questo distacco interiore, del
suo cammino spirituale, un cammino che ha lasciato posto allo Spirito e gli ha
permesso di aprire nuovi cammini alla missione.
Il distacco interiore è la condizione prima per
discernere le vie dello Spirito nella missione. Un uomo “spirituale”,
pneumatikòs, un uomo distaccato da sé perché è preoccupato di lasciare posto
allo Spirito, un uomo preoccupato di compiere la santa volontà di Dio, è in
grado di scoprire meglio dove le Spirito apre le porte per la testimonianza del
vangelo. Come dimostrano le prime comunità cristiane, le quali, costruite dalla
Parola e dallo Spirito, riunite in preghiera attorno all’apostolo e
all’eucaristia, erano pronte a captare le indicazioni dello Spirito. Il
programma missionario lo fissava lo Spirito ed esse, prive di potere,
sprovviste di cultura, povere di mezzi umani, erano pronte e seguirlo. Lo
Spirito era un’esperienza concreta, sia nella vita personale, come in quella
comunitaria, un’esperienza tangibile e visibile nella vita missionaria.
Cammino personale e cammino missionario facevano e fanno
parte dello stesso cammino “spirituale”, un cammino che era ed è frutto della
stessa azione dello Spirito Santo.
IL CAMMINO
CONTINUA
Nel vortice dei nostri problemi quotidiani, in cui
c’immerge la missione, si avvicina premuroso, ancora una volta, a noi il nostro
Gregorio perché non ci smarriamo, né soccombiamo. Ci prende per mano e ci
invita: «Saliamo ai vertici della contemplazione per la scala della vita
attiva. Quando si è giunti alla perfezione delle opere buone, allora comincia
la contemplazione».
a) Salire ancora una volta per incontrare colui che ci ha
ferito, che desideriamo servire, ma, che ancor più ardentemente, desideriamo
incontrare. «L’anima, grazie all’incarnazione, ha ricevuto in sé la freccia di
Dio. Ferita al cuore dalla punta della fede, mortalmente ferita dall’amore, la
sua piaga subito si trasforma in gioia nuziale» (Nisseno).
E Bernardo dice qualche cosa del suo incontro col Verbo,
un qualche cosa che si avvicina a una vera esperienza nuziale: «“Che mi baci
con il bacio della sua bocca” (Cant 1,1) Chi parla in questo modo? La sposa.
Chi è costei? L’anima assetata di Dio. Colei che ama chiede un bacio. Non
chiede libertà, non ricompensa, non eredità e neppure scienza, ma un bacio,
come sposa assolutamente disinteressata, infiammata da un amore santo, che non
riesce più a nascondere il fuoco che la consuma. Non ti sembra
quasi che voglia dire
apertamente: “Che cos’altro c’è per me in cielo? E che
cos’altro desidero all’infuori di te sulla terra?”».
E il Verbo viene e rassicura e conforta – assicura
Bernardo – anche se le sue visite sono rare, brevi, rapide, ma indimenticabili.
E poi «lo Sposo si nasconde, perché non trovandolo, la Sposa lo cerchi con
rinnovato amore». E qui ci stanno tutti i commenti al Cantico dei Cantici,
riservati non soltanto ai contemplativi.
b) Possiamo correre il rischio di citare qui Teresa
d’Avila, la quale ci ricorda: «Noi desideriamo e pratichiamo l’orazione, non
per godere, ma per avere la
forza di servire il Signore»
(Castello 7, 4, 6). E: «Il fine dell’orazione consiste
nel produrre opere e opere» (Castello 7, 4, 12).
Non solo, ma queste opere saranno tanto più degne del
Regno di Dio, quanto più saranno frutto prezioso di un preziosissimo amore:
«Non arriveremo mai ad avere un perfetto amore del prossimo, se non lo faremo
nascere dalla medesima radice dell’amor di Dio. Le opere esteriori che
promanano da questa radice sono fiori ammirabili e profumatissimi, perché fatte
unicamente per Dio senza alcun interesse personale».
E noi allora siamo chiamati a produrre fiori ammirabili,
come pure a non essere servi inutili e neghittosi, ma tesi a trafficare i
talenti ricevuti, invitati a cercare e a servire il Verbo con rinnovata agape,
nei suoi fratelli, nei più lontani dei suoi fratelli, nei più poveri, negli
areopaghi più sfidanti del mondo globalizzato, con rinnovata fantasia, con il
coraggio creativo di un cuore innamorato, con l’intelligenza di chi sa che deve
essere preparato e all’altezza delle nuove sfide e quindi che studia, ricerca,
non risparmia intelligenza, fantasia, dedizione.
E soprattutto con infinita pazienza, di fronte alle
vischiosità del reale, sapendo che «la pazienza è il martirio in tempo di
pace», come ci ricorda l’incomparabile Gregorio romano. Pazienti con il
Christus patiens in passione sua.
E poi? E poi la missione continua, in un percorso di
costante salire per discendere e di discendere per salire, mossa da un amore
instancabile che non ci appartiene, ma che abbiamo fatto nostro, con il
desiderio d’incrollabile fedeltà a Dio e al popolo al quale c’invia, in un
progressiva crescita nella capacità di donazione e in una più avvertita
acutezza di sguardo per comprendere le cose e le vie di Dio. E così cresce la
passione apostolica, che si realizza nel dono si sé agli altri, nella
partecipazione al dono di sé del Verbo, quale dono nuziale all’amore del Verbo
che si dona.
E poi? E poi nella quotidianità c’imbattiamo spesso nel
salire del nostro slancio, ma anche nel discendere nella nostra pochezza e
miseria. Nella quotidianità cozziamo contro gli ostacoli e le durezze della
missione, come pure ci ritroviamo smarriti nelle nostre sofferte infedeltà.
E mi trovo, a volte stanco, a volte inaridito, a
chiedermi: che significato ha quanto sto facendo, che senso ha tutto questo mio
spendermi, questo mio logorarmi, questo mio combattere, a volte senza molti
visibili risultati… È il momento della tentazione più radicale. È il sabato
santo del senso dell’inutilità, delle nebbie, della scomparsa del futuro. È il
momento della scelta della fedeltà a ogni costo. È il momento della presa di
coscienza che occorre essere fedeli in questo tempo dalle fedeltà brevi, dal
narcisismo che eleva a principio sommo “la fedeltà a se stessi” più che agli
altri, soprattutto all’Altro, che ci ha legato a sé con un amore irrevocabile e
al quale abbiamo dato la risposta di una parola irrevocabile.
È il tempo di essere “perseveranti nella preghiera, forti
nelle tribolazioni e lieti nella speranza”, come ricorda la lettera ai Romani,
anche per sostenere la difficile fedeltà dei giovani, generosi e pieni di
entusiasmo, ma spesso tanto fragili affettivamente, psicologicamente e per
nulla aiutati dalla società circostante.
Ma, proprio in questi oscuri momenti, proprio
nell’immersione nella missione più impegnativa e spesso deludente, il Padre
scava nel cuore del suo servo, la nostalgia della patria celeste, il luogo
della soluzione dei troppi nodi intricati, della realizzazione di tanti sogni
incompiuti, del completamento di un lavoro sempre imperfetto, dell’incontro con
colui che si è amato, seguito e servito spesso nell’oscurità della fede ma
sempre con lo sguardo fiducioso della speranza.
Lasciamo la parola a un uomo, un altro Gregorio, un altro
“vigilante”, un teologo e un poeta, un intellettuale obbligato all’azione, un
vescovo mangiato controvoglia dalle cose, ma che sa di non poter essere fermato
dalle cose.
È la sua una delicata e alta preghiera, frutto di una
vita orientata alla Trinità, ch’egli considera “sua” per la tenacia con cui
l’ha difesa e cercata. Potrebbe essere la preghiera di chi, immerso nella
missione, talvolta in una missione che sembra impossibile, è invitato ad alzare
lo sguardo per riprendere una coscienza sempre più viva di essere in cammino
verso la patria della beatitudine trinitaria:
«Dove andrà questa mia vita che scorre in mezzo a tante
sollecitudini?
Dimmelo, Verbo di Dio. Io prego perché essa sfoci
nell’incrollabile abitazione dove vive la mia Trinità, dove risplende questo
Splendore unico, verso il quale ci sospingono le fragili ombre che appena
percepiamo» (Nazianzeno).
E poi? E poi mi attende “la mia Trinità”, nell’ultima
ascesa, senza ulteriore discesa nel regno delle fragili ombre, sul monte
dell’incrollabile sua e mia abitazione.
Il cammino spirituale della missione conduce alla casa
del Padre che attende a braccia aperte, alla casa del Verbo che vi è disceso
umile per risalire glorioso, alla patria dello Spirito che mi ha guidato nel
cammino della missione e che con me ritorna a casa, lieto dei suoi frutti.
Questa è la nostra patria, la mia patria, la patria della
mia e della nostra Trinità.
p. Pier Giordano
Cabra