DIVENTARE_UN PENSIERO DI DIO
Pregare è lasciarci
trasportare verso Dio mentre Egli si sta avvicinando a noi, resi oggetto del
suo ascolto, della sua comprensione e della sua sollecitudine.
In quelle anime per le quali la preghiera è un fiore
raro, incantevole, sorprendente, essa pare raggiungere come l’opportunità
positiva inscritta in una sventura, quasi un sottoprodotto inevitabile o
avventizio dell’afflizione.
Ma la sofferenza non è la sorgente della preghiera. Una
buona ragione non fa accadere qualcosa come una causa produce un effetto; essa
si limita piuttosto a stimolare ciò che è potenzialmente presente, per
spingerlo a diventare realtà.
Il pericolo o il bisogno possono spianare la strada
perché cresca lo spirito di orazione, estirpando le erbacce della fiducia in
noi stessi, liberando il cuore da ogni durezza e ostinazione; ma essi non
possono mai dare origine alla preghiera.
L’idea della preghiera si basa sull’assunzione che per
l’uomo sia possibile accostarsi a Dio, per porre ai suoi piedi speranze, dolori
e desideri. Ma questa assunzione non è prendere atto di una particolare abilità
della quale siamo stati provvisti. Non sentiamo di possedere il dono magico che
consente di parlare all’Infinito; non siamo null’altro che testimoni dello
stupore della preghiera, dello sguardo meravigliato di chi si rivolge
all’Eterno.
L’entrare in contatto con Lui non è una nostra conquista.
È un dono che piomba dall’alto su di noi come una
meteora, piuttosto che sfrecciare verso l’alto come un razzo.
Prima che le parole della preghiera giungano alle labbra,
la mente deve credere in un Dio che vuole veramente farsi prossimo all’uomo, e
al tempo stesso nella nostra capacità di liberare la strada perché Egli possa
avvicinarsi. La preghiera non è un soliloquio.
La preghiera è come la luce che proviene da una lente
nella quale tutti i raggi che emanano dall’anima vengono fatti convergere in un
punto focale.
Vi sono dei momenti in cui risplendiamo perché ci
rendiamo conto di condividere la segreta sollecitudine di Dio per la terra.
Siamo in preghiera. Veniamo trasportati verso di Lui che
si sta avvicinando a noi. Tentiamo di cogliere la sua volontà e non solo il suo
comando.
La preghiera è la risposta a Dio: «Eccomi. Questo è il
rendiconto della mia vita. Scruta il mio cuore, le mie speranze e i miei
rimpianti».
Riprendiamo il cammino nella vergogna o nella gioia. Ma
la preghiera non finisce mai, perché la fede ci fa desiderare con audacia che
Egli si accosti a noi e ci interpelli come un padre, non solo come un sovrano;
non solo attraverso il nostro procedere nelle sue vie, ma anche con il suo
irrompere nel nostro errare.
Lo scopo della preghiera è essere portati alla sua
attenzione, essere ascoltati, compresi da Lui; non si tratta di conoscerlo ma
di essere conosciuti.
Pregare è cogliere la vita non solo come frutto della sua
potenza, ma come oggetto a cui la sua volontà rivolge la propria sollecitudine.
Perché l’aspirazione più recondita dell’uomo non è quella di dominare, bensì
quella di diventare oggetto della sua conoscenza.
Vivere «alla luce del suo sostegno», diventare un
pensiero di Dio, questa è la vera occupazione a cui l’uomo è destinato.
Ma siamo degni di esser conosciuti, di entrare nella sua
misericordia, di divenire oggetto della sua sollecitudine?
Non vi è miseria umana avvertita in modo più drammatico
di quella che consiste nell’essere abbandonati da Dio. Nulla è terribile come
essere respinti da lui. È un orrore vivere lasciati soli dall’Altissimo,
cancellati dalla sua mente.
La paura che Dio ci abbandoni, anche solo per un istante,
è uno sprone estremamente efficace nel cuore dell’uomo pio, che cerca così in
continuazione di porsi sotto lo sguardo di Dio, per far sì che la sua vita
resti degna di essere conosciuta da lui.
Tali uomini preferiscono essere feriti dalle sue
punizioni piuttosto che essere abbandonati.
Essi lo supplicano in ogni loro preghiera, più o meno
esplicitamente: «Signore, non ci abbandonare!».
Abraham Joshua
Heschel
da L’uomo alla
ricerca di Dio, Qiqajon, Bose 1995.