VERSO IL CONGRESSO SULLA VITA CONSACRATA

PER RITROVARE LO SLANCIO PROFETICO

 

A poche settimane dal grande congresso sulla vita consacrata, tanto lavoro organizzativo ma forse una scarsa risonanza nei “nostri” ambienti. Dal sito internet dell’Usmi ricaviamo alcune significative riflessioni sul documento di lavoro.

 

Il 23 novembre prossimo aprirà i battenti il primo grande congresso “autogestito” congiuntamente dalle due unioni dei superiori e delle superiore generali (USG e UISG), sul tema Passione per Cristo, passione per l’umanità.

Lo scopo fondamentale di questo evento è quello di riuscire a individuare le “cose nuove” che, sotto l’azione dello Spirito, stanno nascendo all’interno della vita consacrata. È presto per dire se e quali cose nuove ci sarà dato vedere durante e dopo il congresso. Per ora possiamo vedere solo quello che si sta muovendo in vista di questo evento.

 

ESERCIZI

DI SOPRAVVIVENZA

 

Sul sito internet dell’Usmi sono apparsi i testi di alcune interviste sul documento di lavoro. Il carmelitano Bruno Secondin, uno degli estensori del documento preparatorio, esordisce ricostruendone opportunamente il lungo e laborioso iter di elaborazione. Il punto di partenza è stato quello di «una larga sollecitazione a centinaia di religiosi con responsabilità e competenza, chiedendo di mettere a fuoco  i problemi e le urgenze che, secondo loro, potevano essere oggetto di approfondimento e discernimento». In base alle risposte pervenute sono stati individuati «i nuclei più interessanti e problematici». Una speciale commissione teologica internazionale ha quindi elaborato un primo testo di sintesi, arrivando, dopo successive rielaborazioni, alla redazione del documento di lavoro attuale.

In tutto questo percorso hanno sempre congiuntamente interagito le due unioni dei superiori e delle superiori generali. Il documento, precisa, «è solo un aspetto, certo importante, del congresso». Non meno importante dovrebbe essere però anche la partecipazione non solo degli esperti nell’esprimere pareri e reazioni, ma anche e soprattutto quella viva e intensa di tutti nel momento del congresso. Ciò che interessa agli ispiratori di questa macchina enorme che si è messa in moto con il congresso, non è tanto «la pura esposizione di grandi discorsi e teorie», quanto piuttosto «vivere un evento che sia insieme gioia e grazia, discernimento e progettualità, in dialogo sereno e aperto».

Certamente durante i lavori non mancheranno accorate riflessioni sul preoccupante e diffuso calo di vocazioni. Ma Secondin non è affatto spaventato da questa crisi. A suo avviso, infatti, «sono in crisi certi modi di vivere la vocazione, certi modelli deculturati di religioso, suora, prete, consacrato. E non è detto che in fondo sia un male che avvengano certe crisi: altrimenti non si mette in discussione mai nulla. La crisi è crisi salutare, anche se i numeri (in discesa da decenni) sconvolgono molte cose costituite e ormai standardizzate. Siamo ancora tanti noi consacrati, e soprattutto non abbiamo saputo conservare lo slancio profetico di cui il concilio e il rinnovamento ci aveva fatto credito».

«È questa, aggiunge, la vera crisi problematica: l’affievolirsi dello slancio, della capacità di innovazione e di creatività. Facciamo troppi esercizi inutili di sopravvivenza: che a mio parere mostrano uno stato nevrotico e impaurito di molti istituti. E pur di non chiudere case o anche province ci si aggrappa a tutto, perdendo qualità e forse anche identità. E i giovani questo lo percepiscono subito, hanno antenne sensibili per questo; e quindi non si sentono attratti per progetti dettati dalla paura e dalla nevrosi di sopravvivere comunque».

Il documento di lavoro si sofferma a lungo sulla individuazione delle urgenze e delle sfide che interpellano in profondità la vita consacrata oggi. Anche se ce ne sarebbero tante altre degne di attenzione, quelle elencate nel documento «bastano per cominciare ad aprire gli occhi, per abitare in questa storia e in questi orizzonti, e non vivere a cespuglio, come molti fanno, preoccupati nevroticamente del loro “particolare”». Ogni sfida ha un suo sicuro risvolto positivo. Proprio per questo è «urgente smettere di guardarsi l’ombelico e di piangersi addosso, di riciclarsi senza un discernimento serio e carismatico». Una delle sfide più serie è forse quella di un mondo senza grandi ideali, di un mondo «che fa della religione un supermercato e un melting pot, per proporre – come insiste il papa nella esortazione Vita consecrata – non nuove teorie ma esistenze segnate e trasfigurate dalla grazia, dalla passione per il dialogo interiore autentico e guaritore, dalla compagnia audace e trasformatrice con tutti i flagellati della storia».

È sulla base di questa sensibilità che si sono volute recuperare espressamente le due icone della samaritana e del samaritano, destando forse in molti una certa sorpresa e una certa perplessità per questa scelta. Per ricredersi, osserva Secondin, non c’è che da rileggere i ben 17 paragrafi relativi a queste due icone. Con un linguaggio suggestivo e insieme poetico «vengono recuperati tutti i grandi valori della vita consacrata, ma sotto una nuova luce, quella detta “samaritana”». Si tratta di una vita «fatta di cuori guariti e mani servizievoli», fatta «di danza femminile attorno al pozzo dell’acqua viva», fatta «di diaconia della carità fattiva e coinvolgente». Forse ci si dovrebbe coraggiosamente liberare «da una certa teologia imbalsamata che insiste da secoli sulla “via della perfezione”, per scoprire il valore ispirante proprio della vita “samaritana”, della fragilità e della imperfezione recuperate in modo empatico e avvolgente».

Uno degli spazi in cui la diaconia della carità potrebbe diventare fattiva e coinvolgente è sicuramente quello parrocchiale. Ma quale dovrebbe essere, allora, il ruolo dei religiosi e delle religiose in questa struttura pastorale? «Io ho un po’ di difficoltà, risponde Secondin, a collocare la vita consacrata dentro lo schema parrocchiale. Anzi penso che la sua perdita di incisività sia dovuta anche alla eccessiva “parrocchializzazione”, nel senso della riduzione al servizio e manutenzione della struttura di base territoriale». La vita consacrata, proprio per sua natura, «ha orizzonti più ampi, ha un tasso di profezia che fermenta trasversalmente la Chiesa, e sta stretto dentro la manutenzione burocratica della fede, come spesso avviene in parrocchia».

La vita consacrata potrà conoscere un nuovo rilancio solo ritrovando «il suo statuto di marginalità e di flessibilità carismatica», cercando di «intuire nuovi bisogni e inventare nuove forme di aggregazione sui valori e la evangelizzazione». «Credo, conclude Secondin, che non sia vocazione dei consacrati vendere pane: devono essere piuttosto lievito che tutto fermenta, devono sapere abitare i nuovi orizzonti con libertà sovversiva e creativa. Così sono state le stagioni migliori».

 

LE ATTESE

DELLE GENERALI

 

Pensando alle tante sfide di fronte alle quali si trova oggi la vita consacrata, la madre Giuseppina Alberghina, superiora generale delle suore di Gesù Buon Pastore e vicepresidente dell’Usmi, è sempre più convinta di vivere giorni “di grazia e di prova”. Prendiamo il caso, dice, dell’attuale crisi di vocazioni. Che cos’è se non «una ulteriore chiamata a tornare alle origini della vocazione cristiana e quindi ai fondamenti della vocazione di speciale consacrazione»? Se è vero che qualcosa sta morendo, è altrettanto certo però che da questa morte non potrà non sorgere “una vita nuova”.

I blocchi stessi di cui si parla ampiamente nel documento non ci dovrebbero spaventare più di tanto. Certo, non sarà mai sufficientemente approfondita la consapevolezza di certi ostacoli che rendono più difficoltoso il cammino della vita consacrata: le infedeltà e i tanti limiti personali, la mancanza di coerenza e di radicalità nella risposta vocazionale. Anche la paura stessa di essere sempre di meno, sempre più pochi, «non la considero molto evangelica». Siamo certamente in una «situazione di diaspora, di disseminazione nel mondo che dobbiamo saper interpretare come spinta, come sblocco di alcune nostre chiusure».

Abbiamo a che fare a volte anche con una Chiesa talmente preoccupata di sé e ripiegata all’interno da non essere «più in grado di garantire l’annuncio del vangelo». Ma altrettanto spesso, come si dice nel documento, abbiamo a che fare con tanti consacrati preoccupati «di sentirsi in disparte rispetto ad altri gruppi più docili e di fatto poco apprezzati». Ma è una preoccupazione infondata per dei consacrati chiamati non ad essere “protagonisti” sulla scena del mondo ma a «diventare coraggiosi e audaci discepoli di Cristo, che non hanno paura di essere piccoli e poveri».

Se una delle più grandi crisi della società di oggi è la mancanza di vita di relazione, la testimonianza profetica dei consacrati non può non essere quella di una reale comunione fraterna. Diventare “esperti di comunione” è un traguardo ancora lontano, ma non irraggiungibile. Proprio da qui nasce la profezia della vita consacrata: testimoniare che ogni lacerazione può essere riconciliata.

Anche per la superiora generale delle suore del Divin Salvatore e presidente dell’UISG, madre Terezinha Rasera, è fondamentale saper «discernere per rifondare». Se la vita religiosa è un dono dello Spirito, ricevuto dalla Chiesa per il mondo, allora «occorre una rivitalizzazione radicale che ci dia una nuova fisionomia».

Tutte le grandi sfide di cui parla il documento di lavoro «ci coinvolgono e ci chiamano ad un nuovo modo di vivere la vita religiosa». Se è vero che molto è stato fatto è altrettanto certo che «c’è ancora molto da fare». Soprattutto non sarà mai troppa l’attenzione ai segni dei tempi. Oggi come ieri, ad esempio, la nascita di un nuovo istituto religioso dovrebbe rispondere a una reale esigenza all’interno della vita della Chiesa e della società. Ma se abbiamo ancora tanta strada da percorrere, la speranza di tutti è che il congresso sia veramente «uno stimolo per intraprendere con coraggio e fiducia un nuovo tratto di questo cammino». Non è infatti possibile «rinnovare le nostre congregazioni» se non «partendo dagli ideali, dal profetismo dei nostri fondatori e fondatrici, guardando sempre con attenzione al mondo circostante, curiosi di cogliere i segni dei tempi».

Il documento preparatorio stesso afferma che non è possibile progettare il futuro se non partendo da un cambiamento di mentalità istituzionale profondo. Troppe energie, osserva la consigliera generale delle Pie Discepole del Divin Maestro, suor Regina Cesarato, sono usate in modo ripetitivo e a volte sono addirittura sprecate, in ambito sia ecclesiale che umanitario, per tutta una serie di ragioni quanto mai complesse. Se a volte si arriva a parlare di “situazioni di soffocamento”, queste sono più propriamente di ordine storico e strutturale. Proprio in un tempo di “svolte epocali” come la nostra si impone «l’urgenza di un cambiamento di mentalità istituzionale per cui il dialogo e la collaborazione tra i nostri istituti non dev’essere lasciata alla buona volontà di qualche singola persona».

Prima del concilio ci si preoccupava soprattutto di come mantenere vive le proprie strutture e le proprie opere apostoliche. Il ruolo del governo era allora più nettamente di tipo amministrativo che non di animazione. Le risorse stesse «venivano gestite all’interno, ci si sentiva autosufficienti e si aveva una certa ansia di “reclutare” le vocazioni necessarie».

Oggi le situazioni sono notevolmente cambiate: «Le nostre congregazioni sottoposte alla dura prova della scarsità vocazionale e di altro genere, ricevono la grazia e l’opportunità di diventare più povere e dunque disponibili a condividere il dono ricevuto». È proprio la nuova ecclesiologia di comunione che educa i consacrati «a un dialogo di ampio respiro con tutte le componenti ecclesiali e con le culture». Re-inventare oggi, sulla spinta dei fondatori e delle fondatrici, un nuovo modo di servire sia la Chiesa sia il mondo non è facile.

Senza una riscoperta più radicale del vangelo, senza un incontro più personale con Gesù Cristo, non sarà possibile «deporre l’eccessiva cura del “proprio orticello” per guardare insieme e senza competizione alcuna, il grande campo del regno di Dio a cui siamo tutti chiamati a lavorare».

Non basta infatti rinnovare le forme di governo. Ciò che conta è di «aiutarci a crescere in una cultura di partecipazione e di prossimità». In tempo come il nostro in cui si sta riscoprendo opportunamente la “spiritualità dell’esodo”, formandosi all’ascolto, alla sequela, al servizio, alla speranza, vivendo in un clima abituale di discernimento per obbedire poi, in piena consapevolezza e libertà, alle indicazioni di Dio, suor Cerasato sente l’esigenza di avanzare a tutte le altre consacrate una proposta: «aiutarci, come donne consacrate a Dio, a lasciarci evangelizzare noi per prime». Solo vivendo la sequela di Cristo come un’attrazione, un innamoramento, una grazia da vivere in comunità cristiane, sarà allora possibile testimoniare «la possibilità di una trasformazione della storia e delle relazioni, a livello profondo, basata sull’amore gratuito, ricevuto e donato». Anche il numero sempre più ridotto di consacrati, soprattutto in Europa, è una “prova” che può però trasformarsi in una grande opportunità per puntare più decisamente «sulla qualità evangelica della nostra presenza». Se le comunità religiose si propongono come luoghi di vita e a servizio della vita, dentro un’esperienza di Chiesa comunione, allora «vedremo rifiorire le vocazioni per tutti i ministeri necessari all’edificazione del Corpo di Cristo».

 

Angelo Arrighini