A TRE ANNI DALL’11 SETTEMBRE

ABBIAMO APPRESO LA LEZIONE?

 

Il disastro delle Torri gemelle avrebbe dovuto aprire gli occhi sulle radici del terrorismo e indurre a rimediare alle situazioni che stanno all’origine degli attuali squilibri internazionali. Ma sembra che il mondo sia incapace di rispondere alle sfide di quest’ora tragica.

 

«Nulla potrà essere più come prima». È stato il ritornello che, sotto varie forme, abbiamo sentito e detto dopo l’11 settembre 2001. Un avvenimento così avrebbe dovuto provocare un ripensamento della situazione mondiale e, almeno, delle scelte quanto meno per mettere fine ai mali che ne possono venire. Ma è stato così?

La tragedia dell’11 settembre non ha condotto a un ripensamento. Ha provocato solo un indurimento delle posizioni, una prima risposta bellica alla violenza irrazionale del terrorismo che si è ripetuta a distanza di due anni senza vederne l’inefficacia e la non praticabilità. Sarebbe saggezza riconoscere che l’obiettivo ufficiale dichiarato delle due guerre, sconfiggere il terrorismo e riportare la democrazia in Afghanistan e in Iraq, non è stato raggiunto.

La situazione è sotto gli occhi di tutti. Lo ha ricordato con chiarezza e lucidità il cardinale Raffaele Martino, presidente della pontificia Commissione “Giustizia e Pace” del Vaticano: «Non basta uccidere un terrorista; se ne possono uccidere anche cento o mille, ma non si viene a capo del fenomeno se non si ricercano anche le radici, le cause, il malessere che fanno da sfondo». In questo modo le due guerre preventive, combattute contro il terrorismo internazionale, lo hanno invece consolidato e moltiplicato. Si continua a combattere su entrambi i fronti (anche se il primo è quasi dimenticato); Osama Bin Laden, se è ancora vivo, e, in ogni caso, il suo movimento fondamentalista continuano a tessere le loro trame di morte. I costi della guerra in vite umane sono altissimi, anche se sono tenuti accuratamente nascosti. Si conoscono solo le perdite della coalizione anglo-americana, che ammontano a qualche centinaio di vittime in Iraq. Ma le vittime civili afgane e irachene di questa guerra sembrano non esserci o essere trascurabili, chi ne parla? Eppure, secondo un’organizzazione che si fa chiamare Iraq Body Count, le vittime civili in Iraq si aggirano attorno alle trentamila; nei soli ospedali di Baghdad le vittime contate sono diecimila!

 

INTANTO

LA GUERRA CONTINUA

 

E la democrazia, ossia le elezioni previste per gennaio diventano problematiche. Suona amaramente ironico il ricordo di quel solenne Mission accomplished, proclamato dal presidente Bush, vestito da aviatore, il 1° maggio 2003. Altro che missione compiuta! La guerra continua e non se ne vede la fine, anzi.

Ma non è solo la situazione dell'Iraq che si è aggravata, né solo gli Stati Uniti e i loro alleati che non hanno compreso quello che si deve fare. Il disastro delle Torri gemelle avrebbe dovuto aprire gli occhi sulle radici del terrorismo e portare a mettere rimedio alle situazioni che stanno all'origine degli attuali squilibri internazionali. Invece sembra che il mondo intero sia stato contagiato dalla paura di questa violenza e sia diventato incapace di rispondere adeguatamente alle sfide di quest'ora tragica. Le scelte politiche ed economiche del mondo occidentale non sono cambiate in questi tre anni, né si sono viste nuove strategie in grado di curare le cause del terrorismo. Ci si accontenta di deplorare e condannare il terrorismo, quando non lo si alimenta con dichiarazioni catastrofiche o scelte inadeguate. Ogni persona che ragioni con la testa sa che il terrorismo si vince solo rimanendo uniti e facendo fronte unico contro il suo diffondersi e, in secondo luogo, prendendo la strada del dialogo e della trattativa. Giovanni Paolo II, che è ancora una delle poche persone che analizza con lucidità questa situazione, nel messaggio inviato all'incontro delle religioni organizzato dalla chiesa di Milano e dalla Comunità di S. Egidio (5-7 settembre 2004), ha detto: «Il mondo sta forse abbandonando la speranza di raggiungere la pace? Si ha a volte l'impressione di una progressiva assuefazione all'uso della violenza e allo spargimento di sangue innocente». E aggiungeva: «C'è bisogno del coraggio di globalizzare la solidarietà e la pace… La guerra è da considerarsi sempre una sconfitta della ragione e dell'umanità».

Ma non è solo sul fronte della guerra al terrorismo che il richiamo dell’11 settembre non ha funzionato. «La vera minaccia all’umanità non viene solo dal terrorismo, ma dalla situazione di caos in cui si trova il mondo», ha detto Ahmad Al Tayyib, rettore della prestigiosa università egiziana di Al Azhar, in occasione del convegno di Milano (cf. Testimoni, 16, p. 1). Le sperequazioni mondiali, le ingiustizie patenti eppure da troppo tempo tollerate, e che accentuano il sottosviluppo con le sue sequele di fame e malattie che colpiscono la maggioranza dell’umanità, tutto questo non può che alimentare la violenza e la paura nel mondo compromettendone la pace.

 

CI VORREBBE

UN PIANO MARSHALL

 

L’economia mondiale, elaborata dagli organismi internazionali e dai paesi più industrializzati del pianeta, secondo la logica del libero mercato e del profitto eretto a principio assoluto, avrebbe dovuto ripensare se stessa dandosi, come si dice, una regolata. Invece ci siamo trovati in mezzo a scandalosi crack economici e finanziari, come quelli di Enron, Parmalat e simili, che mostrano il continuare di una politica spregiudicata e tutt’altro che attenta alla situazione del mondo. Abbiamo anche assistito al consolidarsi di forme di protezionismo e di chiusura del mondo ricco nei confronti dei paesi più poveri ai quali si continua a far pagare molto alta la loro ammissione al mondo dei ricchi.

Ci saremmo attesi una svolta significativa nel commercio mondiale per permettere ai produttori più sfavoriti di entrare nel giro del commercio mondiale e per dare una mano, soprattutto, a quel miliardo di contadini (un miliardo e 101 milioni per l’esattezza nel 2001) che devono sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Invece, a partire da Cancun, gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone si sono rinchiusi ancora più dentro le difese protezionistiche della loro produzione e del loro commercio rifiutando ogni concessione ai paesi più poveri, senza comprendere che è solo vincendo la povertà e il sottosviluppo che si toglie terreno al terrorismo internazionale.

Spesso si è ventilata l’idea di realizzare un progetto di solidarietà globale, una specie di Piano Marshall, sostenuto dalle nazioni più sviluppate (G7, Europa, USA, Giappone) per la ricostruzione del mondo, per aiutare cioè i paesi più sfavoriti a muovere qualche passo avanti insieme con i più ricchi. Non se ne è fatto nulla per quella cronica miopia politica che caratterizza i paesi più ricchi i quali sembrano non rendersi conto che i paesi poveri finiranno, presto o tardi, per diventare una mina vagante che non si potrà controllare e contro la quale, un giorno o l’altro, il mondo occidentale inevitabilmente inciamperà.

Il disastro delle Torri gemelle e la guerra in Afghanistan prima e quella in Iraq poi, avevano fatto vedere l’urgenza di riformare le istituzioni finanziarie internazionali, come il Fondo monetario e la Banca Mondiale e, ancora più, le Nazioni Unite, per renderle organismi di servizio veramente internazionali, garanti della pace e della giustizia. Ma più il tempo passa più si vede che non si riesce a riformarle. L’ONU, come l’Europa, si è trovata divisa e bloccata nella sua capacità di intervento. Ma soprattutto non si vede alcuna voglia di risolvere “la madre” della maggioranza dei problemi internazionali che è il problema dei palestinesi cacciati dalla loro terra al momento della istituzione dello stato di Israele. Finché questo problema, che si trascina da decenni, non sarà seriamente preso in mano con la volontà di venirne a capo, non ci potrà essere pace in Medio Oriente e nel mondo arabo e, conseguentemente, nel mondo, perché esso è connesso con il problema dei rifornimenti energetici, così centrale nella nostra civiltà. Altro che un ripensamento!

 

UN MONDO NUOVO

SFIDA LE RELIGIONI

 

Davanti a questa situazione noi cristiani abbiamo una ragione in più per interrogarci sul senso di quello che sta succedendo e per discernere nei “segni dei tempi” e negli avvenimenti di questo tempo le indicazioni di cammino che la Provvidenza divina ci offre. È un imperativo che riguarda tutti, particolarmente i religiosi che sono al servizio del Regno, riconoscere l’azione di Dio e il suo regno all’opera nella storia. Che cosa sta succedendo nel mondo?

Una prima constatazione che appare abbastanza chiara è che in mezzo e attraverso questi fatti violenti e questi sovvertimenti mondiali sta nascendo e delineandosi un nuovo assetto del mondo. Sulla scena dell’umanità si presentano nuovi popoli rimasti nell’ombra e relegati a comparse della storia. Al declino del mondo occidentale, che finora ha dominato e imposto le sue scelte al mondo intero, corrisponde l’emergere di nuovi protagonisti. Uno di questi è senz’altro la Cina, un paese che s’affaccia sul mondo dopo un lungo periodo di assenza e che getta sul piatto della bilancia della storia tutto il suo peso. Membro del Consiglio di sicurezza dell’ONU, è stata recentemente cooptata nel mondo delle grandi nazioni con l’assegnazione delle Olimpiadi del 2008, ma la sua presenza nel mondo dell’industria e del commercio mondiali sono ormai un dato di fatto che è in grado di far pendere, se non sbilanciare, l’asse del mondo finora centrato sull’Atlantico.

Con la Cina, emerge anche l’India, potenza tecnologica e militare, che si affianca ormai alle altre potenze tradizionali, le quali con essa dovranno ormai fare i conti. E infine il mondo arabo che, pur diviso, ha una matrice unica. Anche in Africa stanno nascendo delle realtà politiche ed economiche nuove, come il NEPAD, che potrebbero avere un nuovo ruolo. Certamente il predominio degli USA uscirà ridimensionato da queste ultime vicende e il baricentro del mondo potrebbe spostarsi altrove.

Una seconda constatazione, collegata con la prima: il nuovo mondo che sta delineandosi attraverso il travaglio di questi anni, potrebbe nascere da un conflitto di culture. E questa sì sarebbe una vera sciagura globale. Per ovviarvi c’è bisogno di una spiritualità comune: una spiritualità globale. La globalizzazione economica e tecnologica sta aggredendo le culture e con il suo potere erosivo sta facendo nascere una cultura planetaria, la quale sta provocando delle reazioni di tipo fondamentalistico, già in atto nei paesi islamici. Il fondamentalismo non durerà a lungo, ma esso deve essere affrontato a viso scoperto attraverso un’azione congiunta di tutte le religioni per costruire un nuovo umanesimo comune. Solo a partire da un impegno comune delle religioni si può raggiungere questo obiettivo e solo questo comune umanesimo potrà garantire un mondo di pace e di collaborazione, una nuova civiltà dell’amore. È una sfida grande che Giovanni Paolo II non si stanca di lanciare alla nostra religione e alle altre religioni: attraverso un «rapporto di apertura e di dialogo» le religioni devono costruire «un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione» (Novo millennio ineunte 54).

 

CHE COSA

POSSIAMO FARE?

 

Davanti all’estendersi della violenza e del terrorismo internazionale è giusto chiedersi: che cosa possiamo fare? Certamente noi dobbiamo coniugare le forze religiose del mondo intero per consolidare la pace, diffondere la tolleranza e la volontà di dialogare con tutti e sempre, senza perdere il coraggio e la pazienza.

Ma c’è anche bisogno di preghiera. La scoperta dell’acqua calda ? Ho trovato in questi giorni un testo di Davide Maria Turoldo, dei primi anni ‘90, che mi pare sia una delle poche parole di saggezza che ho letto in questo tempo. Scrive il frate servita: «Non possiamo tacere che questi tempi sono tempi di altissima ferocia; tempi di genocidi, di torture, di terrorismo e di violenza. Non solo perché il sonno della ragione genera mostri, ma anche per questo impazzito uso della ragione che, quasi un Faust, ringrazia Dio di averci dato la ragione poiché così possiamo essere più raffinati nel male». La diagnosi è tanto spietata quanto vera, ma ancora più alto è il rimedio che Turoldo ci propone: «Su questo sfondo non possiamo fare nulla di meglio che inserire la preghiera come atto liberatorio e salvifico, come garanzia di umanità, come realizzazione della vera dimensione umana». E aggiunge che non si tratta solo della preghiera del cristiano, ma anche dell’ateo che spera in un passo avanti in umanità.

Questo è certamente il senso delle candele accese alle finestre, dei cortei silenziosi che hanno attraversato le città in questi ultimi tempi per esprimere questo desiderio di pace e di liberazione. Questo è anche il senso di chi ha digiunato e di chi ha pregato, nella linea tracciata dal papa tre anni fa dopo l’inizio della guerra in Afghanistan.

E noi Chiesa che facciamo? Un convegno, come quello organizzato a Milano lo scorso settembre, è certamente significativo: «Il coraggio di un nuovo umanesimo». In realtà tocca alle religioni spingere verso una nuova visione della vita. La pace ha bisogno di politici e di diplomatici, ma anche di religiosi, se vuol arrivare al cuore della gente. Bisogna educare alla pace, alla tolleranza, al dialogo e alla comunione nella diversità. Bisogna giungere a disarmare le coscienze per farne strumenti di pace e di riconciliazione.

La Chiesa, nella memoria delle sue intolleranze passate, di cui ha chiesto perdono nel corso del giubileo, dovrebbe crescere come assemblea di costruttori di pace e di servitori dei poveri. Sono concetti e valori che non sembrano “politici”, ma che sono efficaci perché si collocano sulla scia di Gesù Cristo che non aveva progetti politici, ma che ha dato la sua vita per ricostruire il mondo sulle coordinate del Regno. Forse c’è meno bisogno di dichiarazioni fracassone o profetiche, come oggi si chiamano, e più di un’azione di formazione capillare, silenziosa ma efficace, alla pace, quella che viene dalla croce del Signore.

 

Gabriele Ferrari s.x.