TERESA DI LISIEUX E IL MISTERO PASQUALE
AMARE FINO A MORIR D’AMORE
La contemplazione
del Crocifisso lancia Teresa sul cammino della vocazione missionaria. Vi è
introdotta a partire dal suo livello primordiale: il dramma della croce.
Comprende che non c’è altra porta d’ingresso che la croce di Gesù che renda
feconda l’unione dell’uomo con la salvezza di Dio.
Pellegrini da tutto il mondo si sono ritrovati il 12
luglio scorso a Lisieux per festeggiare il 50° anniversario della consacrazione
della basilica dedicata a santa Teresa del Bambino Gesù. Una manifestazione di
così grandi dimensione sta a dimostrare quanto questa santa sia dovunque amata
e venerata. Teresa è patrona universale delle missioni. Nella prossimità del
mese di ottobre, mese delle missioni per eccellenza, proponiamo questo articolo
che traccia le grandi linee della sua spiritualità missionaria attinta dalla
contemplazione del mistero pasquale. Teresa ci insegna che, al di là di tutto
il nostro fare, l’ansia missionaria deve trovare la sua ispirazione e la sua
forza dalla contemplazione della croce di Cristo e stando ai suoi piedi.
Accostare Teresa di Lisieux nella luce della Pasqua può
destare sorpresa.1 In effetti come è possibile parlare in questi termini di
Teresa, la santa dell’infanzia spirituale, figlia d’un XIX secolo che riserva
al mistero pasquale un posto abbastanza secondario nella liturgia? Questo modo di
accostarla è, tuttavia, una via privilegiata per cogliere il fondo del suo
messaggio evangelico. La vita di Teresa è un’epifania della missione di Cristo,
specialmente della sua conclusione pasquale. La sua esperienza di Gesù,
espressa nella “piccola via” «è come una traduzione dell’ideale evangelico,
provvidenzialmente offerta al mondo moderno».2
L’ideale evangelico, di cui qui si parla, tradotto nella
piccola via teresiana, altro non è che l’amore senza limiti, l’amore assoluto,
l’amore di Dio dato agli uomini in Gesù Cristo, manifestato “amandoli fino alla
perfezione, fino alla fine”, fino agli estremi confini della condizione umana
(Gv 13,1). «Il Cristo è il mio amore, è tutta la mia vita» (PN 26,1),3 scrive
Teresa nel gennaio 1896 al termine di un periodo segnato dalla sua offerta
all’amore e poco prima di consumarla nella notte spirituale dei suoi ultimi
diciotto mesi. Davanti alla sua traiettoria spirituale, Edith Stein scriveva:
«Mi trovavo davanti una vita umana totalmente e unicamente attraversata fino
alla fine dall’amore di Dio. Non conosco nulla di più grande ed è un po’ di
questo che vorrei trasferire nella mia vita e in quella di coloro che mi stanno
attorno».4 Non c’è «nulla di più grande», infatti, che «amare fino a morire
d’amore»” (C (G) 7v°), sull’esempio di Cristo e vivendo alla sua sequela.
Se l’espressione «mistero pasquale» non appare in
Teresa5– come del resto nei suoi contemporanei – la realtà di questo mistero è
nel cuore della sua esperienza teologale. Lo slancio nuziale, che nutre incessantemente
per Gesù Cristo, procede da un’elevazione a Dio, per mezzo della fiducia
filiale, all’interno e in direzione dell’amore estremo, l’ “amore
misericordioso” del Padre. Questo slancio è volontà di amare fino alla
donazione totale di sé all’amore di Dio e di partecipare, in virtù di
quest’offerta, alla morte redentrice di Cristo: «amare fino a morire d’amore».
Per conseguenza, con Teresa ci troviamo al cuore della vocazione battesimale,
il cui fondamento è la Pasqua di Cristo (Rm 6,3-4). La questione, cui
cercheremo di rispondere, è la seguente: quale è la fisionomia pasquale del
pensiero di Teresa, sì da permettere a Teresa di guidare l’uomo, oggi, verso il
Crocifisso risorto.
Lo farò in tre tempi. Anzitutto chiarendo il fondo
dottrinale di uno dei principali testi del messaggio pasquale di Teresa, in cui
si dà relazione d’una esperienza di contemplazione del Crocifisso risorto. In
seguito, collegando la Pasqua di Cristo, il movimento spirituale che questa ha
fatto nascere nella vita di Teresa, alla parola-luce del suo pensiero
evangelico: fiducia, inseparabile da un’altra parola chiave, povertà. Vedremo,
con Teresa, che il punto cruciale, di passaggio dell’essere umano in Gesù
Cristo, sta nella verità contenuta in queste due parole: fiducia e povertà.
Evocheremo infine la prova della fede di Teresa, prova pasquale per eccellenza,
l’ora nella quale Tersa passa interamente in Gesù Cristo, amando fino nelle
angosce della morte.
ALLA LUCE DI GESÙ
MORTO PER AMORE
Una domanda non cessa di tormentare Teresa: è possibile
vivere già da adesso, nel presente fuggevole della vita umana, una vita
d’amore, nell’amore stesso, il “puro amore” (B (M) 4 v°)? La sua offerta
all’Amore, fatta il 9 giugno 1895, non mirava ad altro: «Allo scopo di vivere
in un atto d’amore perfetto…» (Pri 6).
La risposta a questa domanda d’ordine mistico le fu, in
sostanza, data una domenica di luglio 1887, mentre contemplava Gesù crocifisso,
nel corso di un’eucaristia nella cattedrale di Lisieux. Ascoltiamo da Teresa il
racconto dell’avvenimento:
«Una domenica, guardando una fotografia di Nostro Signore
in croce, fui colpita dal sangue che cadeva da una delle sue mani divine,6 ne
provai una grande sofferenza pensando che quel sangue cadeva a terra senza che
alcuno s’affrettasse a raccoglierlo, e decisi di restare spiritualmente ai
piedi della croce per ricevere la rugiada divina che ne scendeva, pensando di
doverla poi versare sulle anime… Il grido di Gesù sulla croce pure risuonava
costantemente nel mio cuore: “Ho sete!”. Quelle parole accendevano in me un
ardore sconosciuto e molto vivo…Volevo dare da bere al mio Amato e mi sentivo
io stessa divorare dalla sete delle anime…» (A 45 r°).
Teresa appare qui come una che vibra tutta al mistero di
Cristo nel suo passaggio verso il Padre, mentre dà la sua vita per la vita di
tutti. Infatti, la luce di cui Teresa è qui gratificata, è di genere dogmatico:
essa fa capire a Teresa la sapienza e la verità della salvezza in atto; e, di
conseguenza, la posta in gioco d’una salvezza che deve essere continuamente
ricevuta dalla Chiesa per vivere oggi nell’atto salvifico del Cristo pasquale.
Colpita da questo fatto,Teresa si colloca allora in una posizione eminentemente
ecclesiale: «Decisi di restare spiritualmente ai piedi della croce». Ella si
impegna, con determinazione, a rimanere esistenzialmente in accordo con ciò che
ha visto e contemplato del Cristo Salvatore.
DAL CROCIFISSO
ALLA VOCAZIONE MISSIONARIA
In continuità con la grazia del Natale 1886, che libera
Teresa da una dolorosa inibizione, la contemplazione del Crocifisso la lancia
in modo irreversibile sul cammino della sua vocazione missionaria. Teresa vi è
introdotta a partire dal suo livello primordiale: il dramma della croce. Essa
comprende che non c’è altra porta d’ingresso che la croce di Gesù che renda
feconda l’unione dell’uomo con la salvezza di Dio. Questo è uno degli
insegnamenti costanti di Teresa: è impossibile dare un contributo efficace
all’estensione storica della salvezza operata dall’unico Redentore, se non c’è
una comunione personale con la sua offerta pasquale. In effetti, nessuno può
trarre beneficio dalla risurrezione del Cristo e diffonderne i semi di vita, se
si comporta come “un nemico della sua croce” (Fil 3,18), se non è in rapporto
empatico con le sofferenze della sua passione (Fil 3,10-11), se non comunica in
modo effettivo al sommo del suo amore e se non vi trova la sua gioia (B(M) 4v°;
C (G) 7 r°).
«La risurrezione alla vita eterna» e la sua effusione
nella nostra vita presente «si trovano già, in modo anticipato, nella
positività della morte di Gesù».7 I due momenti del mistero pasquale non sono
giustapposti, ma contenuti l’uno nell’altro. «La risurrezione è il rovescio
luminoso della pienezza di vita raggiunta nell’oscurità»8 della croce. Così,
nel Crocifisso, Teresa non riconosce solamente il versante doloroso della
Pasqua, ma nell’amore di Dio che dona suo Figlio e in quello di Gesù che si
dona per la vita dell’uomo, Teresa riconosce, anche e prima di tutto,
l’onnipotenza della redenzione in atto. Per Teresa, coerente in questo con la
visione del Nuovo Testamento – tanto con quella di Giovanni che di Paolo – il
glorificato è il Crocifisso. Gesù in croce è il Cristo, l’ “Amico Divino”, il
Signore e il Figlio di Dio che la morte non ha potuto trattenere e il cui sangue,
come una “divina rugiada” non può scorrere senza generare vita e risurrezione.
Di qui viene l’attrazione dei mistici, e in particolare di Teresa, verso la
Pasqua del Cristo nella misura in cui questa si compie nella ecclesia della
presente umanità.
Spieghiamolo con altre parole. A causa dell’unità delle
due facce del mistero pasquale, l’efficacia della risurrezione del Cristo non
può essere ricevuta e non può dare la vita all’uomo credente senza una
comunione spirituale ed esistenziale con la prima tappa della glorificazione
pasquale del Cristo, con il suo innalzamento sulla croce.9
LA CARITÀ, AL CUORE
DELL’AMORE DIVINO
Scoprendo insieme con Teresa il nodo pasquale che tiene
insieme morte e risurrezione del Cristo, noi arriviamo a cogliere la logica interna
dell’amore divino, la carità. La sua espressione temporale raggiunge il massimo
e il termine della sua trascrizione umana nella oscurità del venerdì santo,
mentre la diffusione della sua fecondità universale prende origine nella luce
trans-temporale della domenica di Pasqua. In modo che agli occhi della fede, la
croce di Gesù, o il Volto santo venerato da Teresa, non può che essere
gloriosa, non può che distruggere il peccato e la morte, non può che portare la
vita. «Per il cristiano la croce, scriveva Louis Bouyer, è già illuminata dalla
risurrezione. La croce in se stessa – quando è vista dal di dentro, come la
realizzazione qui in terra di ciò che ci portava Cristo, l’amor di Dio – è già
gloriosa. La croce del cristiano, come quella del Cristo, è la vittoria ancora
nascosta ai nostri occhi, ma già presente per la fede».10 Perciò, «se la realtà
della croce si apre già nella realtà della risurrezione»11 è prima di tutto
perché la realtà della risurrezione germina in quella della croce. Ne discende
in modo vitale. La risurrezione è il frutto e l’universalizzazione di ciò che,
in modo oscuro, è seminato e abbozzato dalla croce.12 Certo, è per il fatto di
essere già “risuscitato con Cristo” (Col 3,1), che il cristiano può soffrire e
“morire con lui” (2Tm 2,11) e “considerarsi morto al peccato e vivente per Dio”
(Rm 6,11).13 Ed è per questo, inoltre, che è nella sua fede, grazie alla sua
adesione personale al Crocifisso, che lo stesso cristiano riceve l’energia
spirituale e la forza esistenziale della risurrezione. Questa è la luce
teologale che illumina Teresa nell’estate del 1887.
In vista di raccogliere la fecondità redentrice del
sangue del Crocifisso risuscitato e di riversarla ovunque, Teresa, umanamente
liberata e maggiormente unita al Cristo a partire dal Natale del 1886, decide
di «restare spiritualmente ai piedi della croce». Essa scorge la forza segreta
della diffusione della salvezza nella risposta piena di fiducia e di fede che
Dio, nel suo gesto salvatore, attende dagli uomini. Contempla questo segreto
attraverso il dramma dell’Amore consegnato: «Provai una gran sofferenza
pensando che quel sangue cadeva a terra senza che alcuno s’affrettasse a
raccoglierlo». Teresa sente l’urgenza d’essere innestata sull’albero della
croce e di divenirne un ramo in cui scorre un’unica linfa. Sa che la salvezza
offerta dalla morte di Gesù e la sua diffusione universale sarebbero vanificate
senza la fede dell’uomo e senza il suo impegno nel mistero pasquale: ricevere
la rugiada divina – il sangue di Cristo – che cola dalla croce e diffonderlo
sulle anime grazie alla preghiera e al sacrificio oppure, per usare le parole
di Teresa, grazie al dono di sé per mezzo della carità attuale. Nella vita
presente, il cristiano non vive del Cristo risuscitato e non raccoglie la sua
salvezza che attraverso la comunione alla sua croce, alla sua morte per amore,
sulla croce.
Non intendo trattenermi oltre sul processo per cui Teresa
è stata assimilata al mistero pasquale.14 Lascerò piuttosto che Teresa,
attraverso i suoi scritti, parli del dinamismo pasquale che l’ha
progressivamente radicata in Gesù Cristo, che l’ha tenuta e mantenuta in lui
fino alla fine nell’amore.
LA PIENEZZA
DELL’AMORE
Senza alcun dubbio, l’universale indice d’ascolto
riservato a Teresa è dovuto alla purezza evangelica del suo invito alla
fiducia. Infatti, nella presente condizione umana è la fiducia che realizza il
movimento pasquale di una vita nel Cristo. È la fiducia che fa passare l’uomo
in Gesù Cristo, che lo conserva nella permanenza della sua Parola e nella
stabilità del suo amore. «È la fiducia, e niente altro che la fiducia, che deve
condurci all’amore» (LT 197); in realtà solo la fiducia può farlo. La fiducia
secondo Teresa è la fede viva nell’amore di Dio, quella che decentra da sé e
introduce, consegna, al suo amore, quell’ amore misericordioso che Teresa,
piena di meraviglia, scopre al momento in cui esso s’abbassa fino alla
piccolezza umana, raggiungendola nella sua debolezza e povertà.
Infatti Teresa, e questo è un punto molto importante, sa
si essere una piccola anima infinitamente amata da Dio. Siamo qui in presenza
di un tratto della sua personalità che non si deve mai perdere di vista quando
si avvicina Teresa, soprattutto dall’angolatura del mistero pasquale: «Io sono
una piccolissima anima che non riesce a offrire a Dio che delle piccolissime
cose» (C (G) 31 r°). Lungi dall’essere una vuota figura stilistica, una pia
esagerazione o una forma retorica che vuol far credere all’umiltà, queste
parole sono da prendere sul serio. Teresa è una persona povera, in tutta
verità; una persona che assume la sua condizione di essere umano caratterizzato
dalla mancanza, dalla finitezza e da una finitezza ferita. Con profonda
esattezza, Jean Vanier afferma «di vedere Teresa come una povera, insieme molto
bella e molto fragile, angosciata. In tutta la sua debolezza viene fuori la
fiducia. Questo è, secondo me, il mistero della bellezza di Teresa. Mi piace
dato che io sono povero e di lei, come povera, ho bisogno».15
Non si può comprendere il messaggio pasquale di Teresa se
non la si riconosce per quello che essa realmente è, quale lei stessa non cessa
di riconoscersi: e cioè una povera, una piccola anima, in cui Dio ha in qualche
modo rinnovato il segno della Pasqua del suo Figlio, proprio perché è in Dio
stesso che Teresa ha riconosciuto la sua povertà, il suo fondamentale mancare,
la sua piccolezza o la sua debolezza, come essa stessa dice.
NELLA DEBOLEZZA
LA SUA FIDUCIA
All’età di 15 anni, Teresa, postulante carmelitana,
scrive le parole seguenti che già contengono il suo messaggio: «è la sua
debolezza che fa tutta la sua fiducia» (LT 55). Come si deve comprendere questa
sorprendente affermazione di Teresa che ci offre tuttavia la chiave della sua
vita pasquale? Teresa si volge verso Dio, può fidarsi, affidarsi a lui non a
causa della, ma grazie alla sua debolezza, in altre parole, grazie
all’incapacità di darsi sicurezza, d’appoggiarsi su se stessa con
autocompiacenza. Questo è il fondamento negativo della fiducia. Quello positivo
sta nella percezione di Dio. Con un senso spirituale straordinario per la sua
epoca, segnata da una visione di Dio severo e temuto, Teresa è convinta che
l’attributo fondamentale di Dio è la misericordia. Come lo sa? Teresa ha
conosciuto la dottrina di Francesco di Sales attraverso sua madre e una sua zia
visitandina. Francesco di Sales già insisteva sulla fiducia in quel «Dio
d’amore innamorato del nostro amore».16 Teresa sente anche l’influenza del
romanticismo cattolico trasmessogli dal padre attraverso Chateaubriand,
Lamartine, Joseph de Maistre,17 delle letture che favoriscono la meditazione
sull’umanità del Cristo misericordioso.
Ma prima di tutto è attraverso un senso molto preciso
della rivelazione di Dio nel contatto con la Scrittura che Teresa sa che Dio è
«compassionevole e pieno di dolcezza» (Sal 103/102,8).18 E poiché è
compassionevole, Dio non può essere lontano dagli uomini. C’è ancora qualcosa
che Teresa capisce: Dio si è fatto del tutto vicino agli uomini abbassandosi
fino a loro. Lui stesso, per amore, si è rivestito della debolezza umana,
venendo a nascere tra gli uomini: mistero del presepio – è il mistero del
Bambino Gesù – che si compie nel mistero della Croce – ecco il mistero del
Volto santo, del volto pasquale di Gesù; è la grandezza dell’amore
misericordioso di Dio che sposa sia la piccolezza che la miseria dell’uomo:
Teresa del Bambino Gesù e del Volto santo.
I numerosi intoppi nella vita affettiva di Teresa,
attraverso cui lei si è in qualche modo costruita, le hanno dato la viva
consapevolezza della sua piccolezza. Teresa sa che è “imperfetta”, “debole”,
“piccola”; e quando nell’autunno del 1894 legge nel libro dei Proverbi, “Se
qualcuno è piccolo venga a me” (Pr 9,4), Teresa si sente direttamente, molto
personalmente, interessata. Accade in lei una folgorante conferma di ciò che
sperimentava da parecchi anni ormai all’interno della sua debolezza, nel fondo
delle sue prove. Che cosa viene a confermare questo versetto biblico?
L’handicap fisico, la debolezza psicologica o le fragilità morali, le
permanenti imperfezioni della nostra condizione attuale, che fanno di ogni
essere umano un “piccolo”, il quale spesso ignora o fa finta di ignorare di
essere così, tutto questo insieme di debolezza, non è, in quanto tale, ostacolo
all’effusione dell’amore di Dio nel cuore dell’uomo. Anzi è il contrario, visto
che Gesù, il «Verbo divino» è venuto a prendere su di sé, ad assumere
totalmente, facendosi uno di noi, questa debolezza e questa fragilità. «Non
posso aver paura di un Dio che si è fatto per me così piccolo, scrive sotto
un’immagine del bambino Gesù dipinto in un’ostia. Lo amo ed egli non è che
amore e misericordia» (LT 266).
Nel corso della sua breve esistenza, Teresa sa che Dio è
vicino a chiunque è consapevole della sua debolezza e della sua povertà. Una
vicinanza attiva, trasformatrice che favorisce il cammino pasquale della
fiducia. Di qui la maniera forte, perfino sconcertante, con cui Teresa si
esprime: «Ciò che piace a Dio non sono anzitutto le mie virtù, ma è il vedere
che amo la mia piccolezza e la mia povertà, è quella speranza cieca, la fiducia
illimitata cioè, che metto nella sua misericordia… Ecco il mio unico tesoro»
(LT 197). Questo “tesoro” che Teresa desidera condividere contiene ed enuncia
per ogni uomo il punto cruciale di Gesù Cristo nel suo passaggio verso il
Padre: Pasqua, fioritura della vita battesimale.
Il genio di Teresa è di aver sfruttato gli avvenimenti
della sua vita alla luce del Vangelo, in particolare le prove e le ombre che
l’hanno resa fragile fino al punto di minacciarne gravemente, in certi momenti,
la salute e l’equilibrio psichico. L’opera redentrice di Dio, la Pasqua di suo
Figlio, ci dice Teresa, si radica in modo privilegiato nelle fratture, nelle
fragilità e nelle ferite dell’uomo. Perché questa maniera di fare, così
disorientante alla vista umana? Alla maniera del figliol prodigo, l’uomo si
apre più autenticamente ad altro e a più che se stesso, dal fondo dei suoi
sbagli, delle sue ombre, delle sue mancanze. A quel punto si distoglie
maggiormente dalle sue illusioni, dai suoi sogni di potenza per volgersi, al di
là di se stesso, verso la sorgente del suo essere.
Dio ha bisogno d’un cuore libero, non occupato di sé per
poter agire in profondità. Qui sta la chiave d’un’esistenza pasquale, una vita
umana riuscita secondo Dio. Rivolgendosi a sr. Geneviève a nome della Vergine
Maria, Teresa scrive: «Se tu vuoi sopportare in pace la prova di non piacere a
te stessa, di non compiacerti narcisisticamente, mi offrirai un asilo dolce; è
vero che tu soffrirai perché sarai alla porta di casa tua, nell’incapacità di
ammirarti, ma non temere, più sarai povera e più Gesù ti amerà, andrà lontano,
molto lontano per cercarti, se per caso tu ti perdi un po’. A lui piace di più
vedere che inciampi nella notte contro i sassi della strada, che avanzi a
tastoni, magari cadendo, ma nella direzione giusta, con tutta te stessa,
attraverso la fiducia, che se tu camminassi nella piena luce del giorno su una
strada smaltata di fiori che potrebbero ritardare il tuo passo o se progredissi
nella superbia con vanità» (LT 211). Al fine di produrre il frutto pasquale
dell’amore – vita e risurrezione – i fondamenti della fiducia in Dio non
possono essere posti in altro modo che nella terra della consapevolezza della
debolezza umana. Intendiamoci bene: si tratta della coscienza della propria
radicale incapacità di andare a Dio senza Dio e della presa di coscienza che
può causare sofferenza attraverso prove o debolezze specifiche – fisiche,
psichiche, morali – che come tali non hanno evidentemente nulla di positivo.
Se la fiducia nasconde in se stessa un’energia pasquale,
un potenziale d’eternità, non è per questo un seme meno fragile. Per essere
feconda domanda il venir meno dell’amore proprio, di ogni finzione, direbbe
Teresa, di ciò che ci lega, che ci fissa su noi stessi. Si legge nel profeta
Geremia una citazione che Teresa cita e commenta in una delle sue lettere (LT
243): “L’uomo non è padrone del suo cammino” (Ger 10,23); in altre parole, non
è stato dato all’uomo di compiersi da solo. La via dell’uomo riuscito si trova
in Dio, in quel divenire impercebile che è tracciato dal suo Spirito.
Anticipando l’uomo, Dio stesso scopre questa strada; non
ricompensando, anzitutto, le virtù dell’uomo e la bravura del suo savoir-faire.
Dio lo apre per mezzo della relazione che suscita tra lui e l’uomo; il più
delle volte gli uni per mezzo degli altri e verso gli altri; l’uomo prende, in
questo modo, parte all’opera della salvezza di Dio. Abbiamo qui, come in
filigrana il mistero della Chiesa che è mistero d’alleanza. Questa relazione
tra Dio e l’uomo è marcata dalla fede viva, la fiducia direbbe Teresa, la
libera corrispondenza dell’uomo al dono della vita ricevuta ogni momento dalla
mano di Dio (LT 243).
In tal modo Teresa ci mostra che il cammino pasquale
della fiducia nell’amore tiene pienamente conto della nostra fragilità umana,
delle prove della nostra vita, delle difficoltà del giorno dopo giorno, e che
questa via è una lezione di realismo, una scuola di verità. Essa si percorre
insieme con la propria condizione umana reale, non con quella ideale o sognata.
Essa integra la finitezza dall’uomo, i suoi limiti, le sue mancanze, il segno
delle sue ferite, le linee oscure delle sue miserie psichiche o morali,
nascoste o patenti, sempre paralizzanti, senza rendere per questo impossibile
la via dell’amore, del dono di sé nell’amore. Infatti Dio, mettendosi al
livello dell’uomo, si è avvicinato a ogni miseria umana per manifestare la
verità dell’amore, la forza della sua Pasqua, e farla sbocciare nel cuore
dell’uomo, in ogni uomo preso dalla verità nell’amore. «Non sono che una
bambina, impotente e debole, ciononostante è proprio la mia debolezza che mi dà
l’audacia di offrirmi vittima per il tuo amore, o Gesù», – un essere totalmente
consegnato, vulnerabile, disponibile all’amore, all’apertura universale
inerente all’amore – «sono troppo piccola per fare delle cose grandi… e la mia
follia è quella di sperare che il tuo amore mi accetti come vittima» – che mi
accetti come tale: un essere debole, senza difese, che non offre nessuna resistenza
al “tuo amore”, debitore del “tuo amore”, interamente consegnato a lui (B(M) 3
v° e 5 v°).
In definitiva, Teresa ricorda all’umanità che
effettivamente la lieta notizia è annunziata ai poveri, a chiunque si riconosce
come tale. Vangelo dell’amore di Dio manifestato nel suo Figlio, nella Pasqua
del suo Figlio, sollecita da parte dell’uomo una fiducia piena, alleggerita di
ogni falsa apparenza, che l’impegna, con decisione, come egli è, nel dono di sé
e che l’iscrive oltre se se stesso in Dio, il Dio che viene da lui e il Dio che
lo porta verso gli altri. In breve: la fiducia secondo Teresa invita l’uomo a
non “appoggiarsi” più presuntuosamente su di sé né a ripiegarsi su di sé pieno
di paura, ma ad aprirsi al mistero del sorgere della sua creazione e della sua
redenzione: l’amore che è Dio; e a lasciarsi plasmare da lui, perché «tutto
quello che vive grazie ad un altro è configurato a colui grazie al quale
vive».19 Questo è il rimedio alle angosce esistenziali che devastano la nostra
società. Il senso della vita umana non può avere come fine assoluto le sole
risorse dell’uomo. Costruire unicamente su queste ultime, con esse, significa
condannare la propria vita a dei pericolosi fallimenti. «Non posso appoggiarmi
su nulla, su nessuna delle mie opere per trovare fiducia. (…) Si prova una così
grande pace quando si è assolutamente poveri, quando non si conta che sul buon
Dio» (CJ 6.8.4).
Infatti Teresa conduce là dove il Vangelo attira: dalla
parte del mistero, di cui l’uomo, ogni uomo, è portatore, ma come nel vuoto,
nel germe, nell’attesa d’un incontro con il mistero dell’amore infinito, quel
mistero di Dio e del suo disegno in cui risplende, in modo definitivo,
insuperabile, la Pasqua di Cristo. A differenza delle prospettive umane chiuse
in se stesse, questo mistero agisce là dove si afferma la libera rinuncia a
ogni ricerca di potere personale. Lungi dall’essere un appiattimento dell’io,
che svaluta la persona, noi ritroviamo qui il senso della debolezza umana
proprio dell’apostolo Paolo (2Co 12,9), per mezzo della quale Dio agisce con
potenza e porta a perfezione l’uomo, lo restituisce alla sua gioia originaria
di figlio di Dio e di fratello universale.
Valutiamo, a mo’ di conclusione, il coronamento
dell’opera pasquale vissuta da Teresa: la sua “prova della fede” che è nello
stesso tempo una prova della speranza; “prova della fede” e della speranza
nella vita eterna con Dio, la vita post-mortem con Dio. A questo ha portato la
prova finale di Teresa. Ricordiamo i fatti.
AMARE
NELLA NOTTE
«Nei giorni così gioiosi del tempo pasquale», e
precisamente nell’ottava di Pasqua dell’aprile 1896, arriva l’inattesa e
brutale caduta nella notte. In un impressionante contrasto e in una
sorprendente asimmetria liturgica, il tempo di Pasqua fa risuonare l’ora della
oscurità. Mentre Teresa giubila durante la giornata del venerdì santo nella
«speranza d’andare presto a vedere Gesù», a causa della sua prima emottisi,
ecco che «la sua anima è invasa dalle tenebre più fitte» (C(G)5 v°). Ella
«sente che ci sono davvero delle anime che non hanno la fede». Il pensiero del
cielo diventa “combattimento e tormento”. «Questa prova, aggiunge Teresa, non
doveva durare qualche giorno, qualche settimana, essa non doveva spegnersi che
quando lo volesse il buon Dio e… quest’ora non è ancora arrivata» (ibid.).
Con intensità variabile, le tenebre spirituali
l’accompagnano fino alla fine della vita. Teresa ha tentato di descriverle.
Richiamando anzitutto la sua certezza sull’esistenza del cielo che veniva dalla
sua infanzia, presentendo «che un’altra terra le sarebbe stata un giorno sua
stabile dimora», la prova provoca su questo punto l’impatto di un cambiamento
radicale: «Improvvisamente la nebbia che mi circonda diventa più fitta, penetra
nell’anima e l’avvolge in modo tale che non mi è più possibile trovare in essa
l’immagine così dolce della mia patria: tutto è scomparso! Quando voglio far
riposare il mio cuore stanco delle tenebre che lo circondano per mezzo del
ricordo del paese luminoso verso cui aspiro, il mio tormento raddoppia e mi sembra
che le tenebre, prendendo in prestito la voce dei peccatori mi dicano,
prendendosi gioco di me: “Tu sogni la luce, una patria olezzante dei più soavi
profumi, tu sogni il possesso eterno del Creatore di tutte queste meraviglie,
tu credi di uscire un giorno dalle nebbie che ti avvolgono, va pure avanti, va
avanti, rallegrati della morte che ti darà non quello che tu speri, ma una
notte ancora più profonda, la notte del nulla”» (C(G) 6 v°).
Questo celebre testo di Teresa è di fondamentale
importanza. Ne sono stati sottolineati la bellezza letteraria e gli accenti che
ricordano Nietzsche.20 Il testo lascia in qualche modo immaginare il peso di
oppressione interiore che Teresa porta e, nello stesso tempo, subisce, e che in
nessun momento lei porta senza Dio. Non l’avrebbe potuto. Povera per se stessa,
debitrice a Dio, è con lui e verso di lui che porta, che può sopportare il peso
delle tenebre che l’opprimono. Ed è nella effusione del suo amore
misericordioso, al quale si è offerta, che essa vive e può assumere “la prova
della fede” e della speranza che l’attanaglia. Che cosa porta esattamente?
L’abbandono degli atei, sperimentato psicologicamente o esistenzialmente.
Teresa respira l’aria deleteria che viene dalle conseguenze del rifiuto o
dell’ignoranza di Dio. Assapora il non-senso di una vita senza Dio, notte
esistenziale che insinua il nulla eterno.
Al di là dei condizionamenti psicologici, culturali,
sociali e storici che possono favorire la sua espropriazione, Teresa rivela
nello stesso tempo l’iniquo principio dell’ateismo assoluto: «le tenebre che
prendono in prestito la voce dei peccatori». Sono esse che suggeriscono a
Teresa – senza che questa vi acconsenta – un dubbio formale, un dubbio che
scalza la sua fede nell’aldilà e la sua speranza del cielo, che attacca il
dinamismo essenziale della piccola via: la fiducia teologale, connotata
particolarmente dall’essere una fiducia filiale.
Al seguito del Cristo e in unione con lui, “che passa da
questo mondo al Padre”, Teresa realizza pienamente quello che ha contemplato
una domenica di luglio 1887. Decisa a rimanere ai piedi della croce, essa si
scopre seduta nella fila dei peccatori, desiderosa di «salvare i suoi fratelli
peccatori» (PN 46,4). Solidale con essi, prega in nome loro, con essi, per
essi: «Abbi pietà di noi, Signore, perché siamo dei poveri peccatori!… Oh,
Signore, rimandateci indietro giustificati» (C(G) 6 r°). In definitiva, la
prova vissuta da Teresa cancella la distanza che la separava dai peccatori,
specialmente dai non credenti, dei razionalisti e degli atei del suo tempo.
“Teresa della notte”21 diventa effettivamente la sorella dei “peccatori” e
degli “empi”, compagna della loro angoscia, senza per questo condividerne la
disaffezione nei riguardi di Dio e, meno ancora, la rivolta contro Dio. Teresa
è solidale con la loro umanità da salvare non con la sfida da loro lanciata
contro Dio. Fondamentalmente essa resta la “Teresa della luce”. Gesù, più che
mai, l’abita, risplende in essa, con essa, nelle tenebre. La fede di Teresa non
è distrutta; è messa alla prova, radicalmente interpellata dalla sua prossimità
mistica con i senza-fede.
Marie-Michel Labourdette aveva colto molto bene lo strano
paradosso della prova teresiana; si tratta di una prova di compassione nella
quale si compie un’esperienza pasquale delle più forti: Teresa «ha accettato di
sedersi alla tavola dei peccatori – scrive – di diventare, e di essere per
sempre abitata da una fede che si è fatta silenziosa, la compagna di tutti i
prigionieri della non credenza; essa non li raggiunge più come un crociato o
come un missionario nel senso corrente di quel tempo, che essa ha tanto usato,
ma come una loro sorella. Aveva sognato altre volte, immaginando per sé una
alternativa alla vita carmelitana, di condividere, lei così pura e preservata,
la vita delle penitenti,22 dalle quali non si sarebbe distinta per nulla. Ed
ecco che essa accetta, questa volta in un modo ben più reale per quanto
mistico, d’andare ad abitare nella terra della non credenza per esserne il
sale. Non si trattava certamente di perdere la sua fede come mai aveva pensato
di perdere la sua purezza per vivere con le penitenti. Ma anche in quel mondo,
colpito dalla più atroce miseria, si deve presentare l’amore di Gesù Cristo,
alimentato da una fede oscura e senza stampelle».23
La prova degli ultimi diciotto mesi della vita di Teresa
è assunta in una prospettiva fondamentalmente teologale. È una crocifissione
spirituale vissuta in unione con Gesù nella sua passione. È il risultato di una
kenosi partecipata iniziatasi da anni e che finisce per toccare il cuore del
mistero pasquale in quanto questo si compie qui in terra. Mangiando “il pane
dei dolori”con coloro che non credono, gustando la desolazione di un divenire
senza un aldilà, uno degli errori più grandi del suo tempo, Teresa rimane più
che mai con Dio, il Dio salvatore, il Figlio di Dio nell’opera della sua
Pasqua. È questo contrasto impressionante, in cui si uniscono notte e luce, che
rende Teresa nella prova una trasparenza così perfetta del Messia crocifisso.
Con lui, unita a lui dalla fede viva di una fiducia nuda, Teresa ha portato il
mistero di un vivo inserimento nel dramma della salvezza, in vista di
«purificare la tavola insozzata dai poveri peccatori» e di far splendere, nella
notte del nulla, «la
fiaccola della fede» (C(G) 6 r°).
Infine, la prova della fede e della speranza getta Teresa
nella più grande prova dell’amore: amare fino a morire per quelli che si amano.
Il Cristo redentore, il suo mistero pasquale, è effettivamente diventato “tutta
la vita” di Teresa. «Istruita circa il segreto», essa ha «raccolto i suoi
insegnamenti divini», quelli «della scienza dell’amore» (B (M) 1r°). Le hanno
rivelato il Vangelo, il cammino della fiducia e della povertà, «L’unico cammino
che conduce alla fornace divina» dell’amore: «l’abbandono del piccolo bambino
che s’addormenta senza paura nella braccia di suo Padre» (ibid.). Non
sbagliamoci con la tonalità infantile del linguaggio di Teresa: “le braccia del
Padre” sono il simbolo che esprime la misericordia di Dio, offerta una volta
per sempre ad ogni uomo nel Figlio consegnato sulla croce e per mezzo del quale
gli è stato comunicato il suo Spirito.
Attraverso la notte della fiducia e la libera decisione
di abbandonarsi ai piedi della croce, Teresa ha effettivamente «amato fino a
morire d’amore». Ha conosciuto tutta intera la verità della morte d’amore del
Cristo pasquale, al momento del suo passaggio verso il Padre, l’ora del suo
grande abbandono nelle mani del Padre: In manus tuas, Domine…
La vita e il pensiero di Teresa invitano l’uomo
desideroso a capire la fiducia dei poveri che risplende sul volto del Cristo
pasquale. Lo spingono ad ascoltare l’infinita misericordia che discende nel suo
intimo, a cogliere il mistero dell’infanzia che viene, l’infanzia eterna dove
la sua umanità si riceve senza riserve dalla mano di un Altro. Cristo, la
Pasqua di Cristo fa risplendere, oggi, nel nostro mondo questo mistero di vita
eterna.
Jean Clapier ocd
da nouvelle revue
théologique, luglio settembre 2004
1 Di fatto, guardando alla bibliografia teresiana, questo
tema è stato oggetto di un solo articolo: Une moniale bénédictine, Sainte
Thérèse de l’Enfant Jésus et le Mystère Pascal, in Vie Thérésienne 9 (1963)
2-20. Rimandiamo ad un nostro recente studio Aimer jusqu’à mourir d’amour, Thérèse
et le mystère pascal, coll. Théologies, Paris, Cerf, 2003 (se ne veda la
recensione di N. Hausman, in Novelle Revue Théologique 126 (2004) p. 522).
2 Congar Y., Jalons pour une théologie du laïcat (1953),
coll. Unam Sanctam 22, Paris, Cerf, 19542 , p. 588.
3 Le abbreviazioni e le sigle sono quelle adottate
dall’edizione critica del Centenario: LT (Lettera); PN (poesia); Pri
(preghiera); CJ (carnet jaune, quaderno giallo); CRM (carnet rouge, scritto per
Sr. Maria della Trinità, pubblicato da Vie Thérésienne 74 e 75). I tre
principali manoscritti di Teresa sono indicati di solito, dopo il 1956, dal
Padre Francesco di Santa Maria come segue: A,B,C, secondo un ordine
cronologico. Nel 1999 Conrad De Meester propone una nuova edizione critica dei
tre manoscritti abbandonando l’ordine del P. Francesco di Santa Maria (A,B,C) e
riprendendo la struttura primitiva della Storia di un anima. Il quaderno A,
dedicato nel 1895 alla Madre Agnese è seguito dal quaderno G, dedicato nel 1897
alla Madre Maria di Gonzaga; poi dalla lettera indirizzata nel 1896 a Sr Maria
del Sacro Cuore (con la sigla M). L’ordine ABC diventa dunque AGM. In questa
sede facciamo nostra la scelta di C. De Meester, come segue: A, B(M), C(G).
4 Lettera a Sr. Aldegonda del 17 marzo 1933; Cf.
Manuscrits autobiographiques pubblicati dal P. François de Sainte Marie, t. I,
OCL, 1956, p. 56.
5 E poco anche la parola Pasqua (7 volte) o pasquale (2
volte). Non dimentichiamo tuttavia la concordanza pasquale che Teresa redige
nel 1896 o 1897, compilando, a partire dai Vangeli, i fatti e le parole di Gesù
Risorto (cf. La Bible avec Thérèse de Lisieux, Paris, Cerf et DDB, 1979, p.
183-185).
6 L’immagine, rappresentante un Cristo in croce del
Müller edita da Schaeffer, non mostra il sangue che cola dalle mani del Crocifisso
(cf. Manuscrits autobiographiques, éd. critique du Centenarie, Paris 1992, note
au folio 45 v°, p. 142). Teresa lo riconosce interiormente per appropriazione
simbolica e affettiva del dramma che contemplava. Notiamo tuttavia che quella
domenica, che precedeva la condanna di Henri Pranzino, avvenuta il mercoledì 13
luglio, non può che essere il 3 o il 10 luglio (cf. il calendario universale).
Allora essendo la prima domenica di luglio, rileviamo che il 3 luglio
corrispondeva alla festa del Preziosissimo Sangue (cf. Diurnal de Bayeux, 1874,
p. 557; messale personale di Teresa [Archivi del Carmelo di Lisieux] e che, in
ogni caso, può corrispondere alla domenica evocata da Teresa, rivelando
pertanto l’influenza liturgica sull’esperienza del Crocifisso.
7 Von Balthasar H.U., Simplicité chrétienne, tr. R.
Givord et V. Carraud, coll. Essai, Paris, Desclée, 1992, p.64.
8 Ibid.
9 È per questo che l’evangelista Giovanni ha potuto
«riunire in un unico concetto, indivisibile, l’innalzamento sulla croce e la glorificazione
del Risorto. Credere in una risurrezione senza accettare la pienezza raccolta
nella croce di Gesù, significherebbe esigere la trasformazione della nostra
esistenza mortale imperfetta in un’esistenza immortale senza che essa sia
giunta alla maturità per la vita eterna» (Von Balthasar H.U., Simplicité
chrétienne[citato sopra, nota 7], p. 65).
10 Bouyer L., Initiation chrétienne (1958), coll. Livres
de vie 52, Paris, Seuil, 1964, p. 148.
11 Ibid., p. 66.
12 Bouyer L., Le mystère pascal (1947), coll. Lex Orandi
4, Paris, Cerf, 1957, p. 377.
13 Hennaux J.-M., Le mystère de la vie consacrée, Passion
et enfance de Dieu, coll. Vie consacrée 1, Namur, Vie consacrée, 1992, p. 36.
14 A partire dal 1889, il fatto della malattia di suo
padre e gli anni della “kenosi interiore” che lo seguirono e per i quali Teresa
giunge all’abbandono teologale nell’amore (cf. Clapier J., “Aimer jusqu’à
mourir d’amour” [citato sopra n. 1], p. 188-245).
15 “Teresa apre una strada per i poveri”, in Une sainte
pour le troisième millénaire, Colloquio internazionale del Centenario, Lisieux
30 settembre-4 ottobre 1996, Venasque, éd. Du Carmel, 1997, p.
214 (v. Nouvelle Revue Théologique 120 [1998] 654).
16 François de Sales, Traité de l’Amour de Dieu, libro 2,
cap. 8.
17 Vedere i “Fragments littéraires” del Sig. Louis Martin
[padre di Teresa, ndt], redatti nel corso dell’anno 1842. Si tratta di due
quaderni di note personali in cui il Sig. Martin ha copiato dei testi
spirituali e letterari. Si trovano a pagina 46-69, con qualche estratto, nella
Congregatio pro causis sanctorum, Officium historicum. 138, Baionem et
Lexovien. Beatificationis et canonisationis servorum Dei Ludovici Martin et
Mariæ Azeliæ Guerin coniugum (+ 1894, 1877), Summarium documentorum ex officio
concinnatum, Rome, 1987, 1251 p. Cf. anche Gaucher G., « Louis Martin: le
Roi humilié » in Vie Thérésienne 157 (2000) 53.
18 A 3 v°; C(G) 7 v°; LT 226.
19 Tommaso d’Aquino, Commentaire sur l’évangile de saint
Jean, II, éd. M.-D. Philippe, OP, Rimont, Les amis de Saint Jean, 1982, leçon
5, n.791, p. 323s.
20 Cf. Hausman N., Frédéric Nietzsche, Thérèse de
Lisieux, Deux poétiques de la modernité, Paris, Beauchesne, 1984, p. 11;
D’Ornellas P., Sainte Thérèse de l’Enfant –Jésus, Paris, Mame/Cerf, 1997, p.
97-99.
21 Secondo un’espressione di Didier Decoin.
22 Si tratta delle ex-prostitute che vivevano in una casa
di protezione (CRM 82).
23 Revue Thomiste 74 (1974) 116-117.