VITA SIDÁ - CURARE L’AIDS IN MOZAMBICO

UN PROGETTO DIVENUTO REALTA’.

 

Dopo otto mesi si vedono i primi frutti. Persone che riprendono ad amare la vita dopo l’esperienza del rifiuto da parte dei familiari, della paura di una morte inevitabile, dell’emarginazione sociale.

Credere alla vita fa rinascere la speranza.

 

Sei del mattino. In una casa dell’Avenida 1° de Julho di Quelimane, capoluogo della Zambezia in Mozambico, la giornata inizia con la preghiera del mattino. La doutora Lúcia e un piccolo gruppo di volontari italiani accolgono con questo gesto il dono di una nuova giornata, prima di muoversi solleciti verso l’ospedale provinciale della città. Li attende il day hospital, un piccolo ambiente ricavato in un padiglione dell’ospedale, dove dal gennaio di quest’anno prestano il loro servizio di diagnosi e cura antiretrovirale per i malati di AIDS.

 

UN PROGETTO PER DARE SPERANZA

 

Il medico Lucia De Franceschi e i volontari italiani – che periodicamente alternano la loro presenza compatibilmente con i loro impegni di lavoro – non agiscono a titolo personale. Sono la punta avanzata e operativa di un progetto più ampio che affonda le sue radici in un’esperienza di fede e di solidarietà che da alcuni anni anima un gruppo di volontari trentini, emiliani e veneti.

La consapevolezza che la vita è un dono da condividere ha portato queste persone a coinvolgersi, nel tempo, in alcune iniziative a favore della popolazione del Mozambico, uno degli stati più poveri dell’Africa in cui operano da sessant’anni i missionari dehoniani.

Da più di tre anni la Valle dei Laghi in Trentino, e più recentemente Bologna e alcune zone del Veneto, sono un susseguirsi di iniziative per la raccolta di fondi che hanno permesso dapprima la costruzione di una scuola primaria a Momola (Nampula), la ristrutturazione degli impianti elettrici di una scuola professionale a Gurué (Zambezia), e quest’anno l’iniziativa di gran lunga più esigente: l’impegno di coinvolgersi nella lotta contro l’AIDS, che in questo paese semina ogni anno più di 150.000 vittime.

Secondo le stime più recenti circa il 25-30% della popolazione mozambicana è sieropositiva. Ogni giorno si calcolano cinquecento nuovi infetti, e il numero non sembra destinato a calare nonostante la campagna di sensibilizzazione e l’offerta di test gratuito della sieropositività che da tempo è in corso per iniziativa del governo. La cultura locale nei confronti della malattia in genere, e in specifico dell’AIDS, non sembra ancora conoscere i presupposti necessari per un’azione efficace. Più precisamente, secondo il parere del Ministero della sanità mozambicano, è indispensabile che il governo attivi una campagna intensiva di somministrazione gratuita di farmaci antiretrovirali se non si vuole assistere alla scomparsa repentina di larghe fasce di popolazione, oltre al rischio di infezione di tanti neonati.

In questa direzione si inserisce l’azione del progetto Vita SiDá – Curare l’AIDS in Mozambico (SIDA è il corrispettivo di AIDS in lingua portoghese), che assume i tratti di una vera e propria sfida: credere nella vita e nella dignità di ogni persona, lavorando per favorirne le condizioni, anche quando l’ignoranza o la paura offuscano questi valori. E credere che rischiare sulla fede rende possibili anche i sogni. Quello che all’associazione Progetto Mozambico Onlus sembrava un pio desiderio o un bel sogno è ormai divenuto una realtà in espansione, grazie anche alla collaborazione, in determinati ambiti, con la Comunità di S. Egidio.

Il day hospital di Quelimane da otto mesi si occupa di malati di AIDS a livello diagnostico e terapeutico, con l’utilizzo delle più recenti terapie antiretrovirali, in grado di contenere e ridurre la carica virale e di favorire un significativo recupero a livello immunitario. Questi medicinali sono oggi reperibili grazie all’iniziativa di India e Brasile, che li producono – al di fuori del mercato dei colossi farmaceutici multinazionali – a un costo accessibile. Basti pensare che con 360 euro l’associazione può curare un malato per un anno!

A oggi le persone in terapia sono 150, entro la fine dell’anno 200, altre 500 quelle visitate e sottoposte al test HIV che torneranno per una visita di controllo fra tre mesi e circa 1.500 le persone visitate al day hospital dall’inizio dell’anno. Il sogno di Progetto Mozambico Onlus è di poter arrivare, in cinque anni, a offrire la terapia antiretrovirale a mille persone, seguirne a distanza altri tremila, per complessivi diecimila contatti nel day hospital.

Questo progetto comporterà una spesa di tre milioni di euro. Una cifra enorme, se paragonata con le forze effettive dei volontari. Ma la loro creatività e capacità di animazione ha saputo dar vita a una campagna di sensibilizzazione che ha coinvolto economicamente centinaia di persone, la Provincia di Trento, la Regione Emilia Romagna e la CEI, e così il sogno si va facendo realtà.

Sono venticinque, finora, i volontari partiti per Quelimane. Gente comune, che impegna parte del suo tempo a servizio del progetto nelle attività più varie. E, tra loro, due medici, tre infermiere, un tecnico di laboratorio, uno psicologo e, nei prossimi mesi, altri tre medici (due ex-primari) e due infermieri. Questa alternanza di presenze manda chiaro il messaggio di una volontà di condivisione che vuole mantenere alta la speranza in una vita degna di essere vissuta appieno nonostante l’esperienza traumatica della malattia.

 

«IO NON SONO

LA MIA MALATTIA»

 

Moises, Katia, Anna Paola e il suo bimbo Emerson, e poi Teles, Hernan, Ignacia, Nelson, Elsa, Amalia… nomi che appartengono a volti e storie precisi, e offrono a un’iniziativa umanitaria i contorni di una vera storia di vita e di condivisione. Nomi, volti e storie di uomini e donne segnati dalla malattia, dal rifiuto della famiglia e dall’emarginazione sociale, presentatisi al day hospital in condizioni pietose, con patologie opportunistiche che li avevano invasi e condotto alcuni di loro a pochi passi dalla tomba. Nomi e volti di persone che oggi hanno iniziato a curarsi e nutrirsi, a prendersi cura del proprio aspetto fisico, ad assumersi la responsabilità della propria vita.

Che bello il clima un po’ imbarazzato di timidezza e insieme di grande dignità che si respira il martedì pomeriggio, quando i malati si incontrano al day hospital nel “gruppo di adesione” (il momento terapeutico di gruppo settimanale) col desiderio di ricominciare a vivere e di condividere questo anelito profondo tra loro e con le persone nuove che non mancano mai di aggiungersi al numero dei pazienti in cura! In quel momento ci si rende conto che sono persone che non accettano supinamente – nonostante tutta la fatica del caso – di rimanere vincolate a un destino ineluttabile deciso da comportamenti sbagliati, dal senso di colpa per errori di percorso compiuti nella loro vita, da pregiudizi o stereotipi sociali, ma che rialzano la testa e decidono, per quanto dipende da loro, che dalla polvere e dall’anticamera della morte si può risorgere. E possono osare questo atteggiamento perché hanno incontrato persone che li hanno presi come erano, senza sindacare sul loro passato, li hanno guardati negli occhi e hanno detto, riecheggiando il profeta: «tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo…» (cf. Is 43,4). Questa disponibilità incondizionata rende possibile, in certi casi, anche le confidenze più profonde, e mostra in alcuni di questi fratelli e sorelle ammalati un timido inizio di recupero nei confronti di quei valori umani e religiosi che sembravano andati perduti.

La dignità di queste persone – malate ma determinate a curarsi per continuare a vivere, lavorare e amare – mi hanno fatto pensare, in quei giorni, che se qualcosa può cambiare nelle relazioni sociali e nella struttura della loro società, sarà paradossalmente a partire da loro, dalla loro esperienza di essersi perduti e sentirsi provvidenzialmente ritrovati e dal coraggio di credere umilmente nella loro dignità, riconosciuta ora in modo senz’altro più autentico perché ritrovata passando attraverso il crogiuolo della loro malattia. Sarebbe la vera rivoluzione, che nasce dai poveri e da quelli considerati già perduti.

Paradossalmente la malattia ha permesso loro di prendere coscienza del loro valore di persone: essi sono molto più della loro patologia. Non si sentono più identificabili con il morbo che li ha aggrediti, e le loro testimonianze raccontano del coraggio e dell’orgoglio di passare per le strade della città a testa alta, piccolo germoglio di un riscatto sociale che nella salute in lenta ripresa manifesta un distintivo importante, ma per loro non decisivo. Essi si stanno sempre più convincendo, infatti, che una persona non possa essere mai valutata nella sua dignità essenziale a partire dal suo stato di salute e che, in ogni caso, è possibile riprendere in mano la propria vita anche dopo scelte e comportamenti sbagliati. Il risultato di questa consapevolezza è l’idea, sbocciata in uno di questi incontri, di dare vita a un’associazione di pazienti HIV, che possano assumere rilevanza sociale e dire forte i diritti umani della persona, qualunque sia la sua condizione sociale, il suo sesso, il suo passato, la sua salute.

 

IL PROTAGONISMO

DI TUTTI

 

L’aspetto più significativo di questa esperienza sta nel coinvolgimento di tutti (volontari italiani, mozambicani e missionari dehoniani) secondo una prospettiva, anche ecclesiale, che vede tutti protagonisti. È nella tradizione della pastorale dei missionari dehoniani nella Chiesa mozambicana postconciliare avere messo l’accento sui ministeri e sulla centralità del laicato. Nella stessa linea si è posto il progetto Vita SiDá, nato dal desiderio di laici italiani di fare qualcosa per i fratelli meno fortunati e più bisognosi, e sviluppatosi coinvolgendo laici mozambicani. Sono loro, infatti, a essere l’elemento di punta nell’azione di sensibilizzazione al problema e di intervento sul territorio tra i malati e le loro famiglie, e insieme sono loro a costituire la speranza per il futuro del progetto.

Nel gruppo dei più attivi collaboratori locali del day hospital ci sono anche, e non casualmente, alcuni malati di AIDS. Costituiscono l’evidenza di ciò che muove l’associazione Progetto Mozambico Onlus: non tanto fare qualcosa per il Mozambico – per quanto necessario e prezioso possa essere –, ma essere presenza che partecipa attivamente al percorso di sviluppo umano, spirituale e sociale del popolo mozambicano, affiancandosi e non sostituendosi a esso in maniera paternalistica.

In questo senso l’attività dell’associazione relativa al progetto Vita SiDá non si limita all’intervento sanitario di fornire medicinali antiretrovirali e un pacco alimentare che sostenga i pazienti dal punto di vista nutrizionale durante la terapia. Accanto a questo tipo di aiuto si sono organizzati momenti didattici di formazione dei volontari da un punto di vista sanitario e psicologico, per favorire un’azione più mirata nel servizio che essi svolgono quotidianamente, e per offrire contenuti che possano contribuire alla crescita culturale delle persone. Questa azione formativa a tutt’oggi viene offerta in modalità differenziate al numero limitato di volontari che prestano il loro servizio nel day hospital, e ai più numerosi volontari che si premurano di visitare le famiglie dei malati e segnalare nuovi pazienti.

Quando ci si pone in una prospettiva di questo tipo – ci si sente cioè al servizio e non al comando – non solo le relazioni si impostano in un modo più caldo e coinvolgente, ma le idee su come procedere si moltiplicano, con soddisfazione di tutti, bianchi e neri. E ci si rende conto che, quando si parte mossi dalla convinzione che la vita è un dono da offrire, ci si accorge che, ancor di più, è un dono che si riceve.

 

Enzo Brena