IL VOLTO MISSIONARIO DELLE PARROCCHIE
UN SOGNO NEL CASSETTO?
Non basta dire
“missione”, “missionario”: occorre una vera conversione. La catechesi non
basta; bisogna passare all’evangelizzazione, preparare nuovi evangelizzatori.
Riflessioni a caldo di un missionario davanti alla “Nota pastorale” della CEI:
Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia.
Il 30 maggio scorso, festa di Pentecoste, i vescovi
italiani hanno pubblicato una Nota pastorale dal titolo: Il volto missionario
delle parrocchie in un mondo che cambia,1 in cui affermano a più riprese che
«l’organizzazione parrocchiale esige un profondo ripensamento» (11) che non può
che essere missionario.
È sotto gli occhi di tutti che il nostro paese, dal punto
di vista della religione, sta cambiando profondamente il suo modo di essere e
di vivere. Fino a non molti anni fa era normale che ogni bambino fosse
battezzato alla nascita e i matrimoni civili e i funerali senza il prete erano
delle eccezioni. Il nostro era un cristianesimo scontato, assunto cioè quasi
per inerzia, un cristianesimo sociologico, tanto che italiano era quasi un
sinonimo di cattolico. Oggi non è più così. E la vita parrocchiale ne subisce
il contraccolpo. La popolazione del territorio è sempre più multietnica e
multireligiosa, contrassegnata da una notevole mobilità. I cristiani si
spostano molto facilmente abbandonando la comunità cristiana cui appartengono
per l’iniziazione cristiana e vanno alla messa là dove si trovano quella
domenica, non si fanno scrupolo di cambiare parrocchia se quella in cui abitano
non risponde alle loro attese. Questa instabilità non è solo indizio di
mobilità parrocchiale, ma spesso di estraneità o di ignoranza della parrocchia.
RIPRENDERE
L’EVANGELIZZAZIONE
Nel contesto attuale, la fede cristiana, che pure ha
conosciuto altre difficoltà in passato, non è più, oggi, una realtà scontata.
Meglio, dirà qualcuno, così può essere purificata da tante incrostazioni. Certo,
la fede deve diventare una scelta personale, e non solo un’eredità ricevuta
senza richiederla. Ma questo domanda alla comunità cristiana di impegnarsi a
diffonderla di nuovo, con una nuova evangelizzazione che raggiunga veramente
tutti, praticanti e non praticanti, cristiani e non cristiani.
Non ci vuole molto a comprendere che questa situazione,
se da una parte è una sfida positiva che esige e provoca una nuova vivacità,
dall’altra postula il sorgere di forze nuove e un’inventiva pastorale che,
francamente, non si vede neppure nella Nota pastorale.
La parrocchia oggi fa fatica a svolgere la sua missione.
Qualcuno dice che ha fatto il suo tempo. In realtà, più che come una comunità
che genera alla vita cristiana, essa è sentita come una «stazione di servizio»
dove ci si ferma per avere i sacramenti o per fare delle pratiche burocratiche,
oppure come una comunità autoreferenziale, un luogo cioè in cui ci si trova
bene e dove è possibile coltivare delle relazioni ravvicinate e rassicuranti,
un luogo di socializzazione e di incontro riservato quasi esclusivamente ai
cristiani praticanti (Nota 4).
La Nota pastorale intende riportare la parrocchia alla
sua autentica identità e missione: «È necessaria una pastorale missionaria che
annunci nuovamente il Vangelo» (1). Per sé basterebbe ritrovare l’identità
della chiesa che è missionaria per sua natura (Ad gentes 2), che esiste cioè
per annunciare il Vangelo del Regno. L’avevano già detto i vescovi italiani nel
Documento programmatico pastorale per il primo decennio del 2000: bisogna «dare
a tutta la vita quotidiana della chiesa, anche attraverso mutamenti nella
pastorale, una chiara connotazione missionaria; fondare tale scelta su un forte
impegno in ordine alla qualità formativa» (CEI Comunicare il Vangelo in un mondo
che cambia 44). E poco dopo i vescovi parlano di «una conversione pastorale»
(ibid. 46). Questo vuol dire che la Chiesa deve «disegnare con più cura il suo
[della parrocchia] volto missionario, rivedendone l’agire pastorale, per
concentrarsi sulla scelta fondamentale dell’evangelizzazione» (Volto
missionario 5). Ma questo continuo ripetere la parola “missione” e
“missionario”, non accompagnato da una reale conversione, sembra essere
inquinato dalla speranza, un po’ magica, che basti evocare questi termini
perché la pastorale cambi da sola, in modo automatico. Leggendo la Nota
pastorale, infatti, è difficile sfuggire all’impressione di trovarsi davanti
piuttosto che a quella conversione pastorale, che i vescovi auspicano, a un
rilancio della pastorale consueta, corredata da nuove motivazioni e nuovi
obiettivi, per altro molto opportuni, ma che rischiano di lasciare il tempo che
trovano.
ALCUNE
SCELTE OBBLIGATE
Se si vuole arrivare a una vera conversione missionaria
della pastorale si deve partire dalla constatazione, amara ma salutare, che tra
di noi «non si può più dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che
si conosca il Vangelo, che si abbia qualche esperienza di Chiesa» (6). Questa
affermazione è molto impegnativa. Se le cose stanno così, la parrocchia non
dovrà più puntare prioritariamente sulla catechesi dei fanciulli, ma
sull’evangelizzazione di tutti, sul «primo annuncio» dell’evento-Cristo,
sull’educazione alla fede, a una fede ricevuta come dono, ma che si apre al
mondo. Si dovranno dedicare allora più persone e più mezzi per andare a cercare
le persone più che per accoglierle quando vengono. Sarà urgente che la comunità
cristiana formi degli evangelizzatori piuttosto che dei dirigenti di
associazioni cattoliche, che metta in piedi dei centri missionari piuttosto che
degli oratori e, in ogni modo, che tutte queste strutture siano aperte verso,
pensate – anzitutto – non in funzione della comunità, ma degli “altri”, di
coloro che non approdano normalmente alla chiesa; in altre parole che ci siano
delle strutture non solo per la conservazione della fede all’interno della
comunità cristiana, ma per l’annuncio della salvezza ai non cristiani.
Nessuno vuol negare i meriti della catechesi e dei
catechisti e neppure l’importanza dei programmi pastorali della CEI di questi
ultimi decenni. Tutt’altro! Ma quando ci si rende conto che sul territorio
della parrocchia ci sono «persone non battezzate che domandano di diventare
cristiane», oppure dei cristiani, soprattutto giovani, «nati in famiglie in cui
si è consumato un distacco netto dalla fede ora per loro da scoprire», o dei
battezzati il cui battesimo «è restato senza risposta» e che «vivono di fatto
lontani dalla Chiesa» o quei cristiani (e sono tanti) «la cui fede è rimasta
allo stadio della prima formazione cristiana» (2), allora bisogna aver il
coraggio di ricominciare da capo. E infine ultimo, ma non per importanza, non
si può dimenticare quel mondo, vasto e inesplorato, degli immigranti non
cristiani provenienti dall’Africa e dall’Asia, ai quali una comunità cristiana
fervente non può non offrire la prima evangelizzazione, fatta di testimonianza
gioiosa e, appena possibile, di annuncio; e sempre comunque di servizio della
carità.
NUOVI MINISTERI LAICI
E FORMAZIONE MISSIONARIA
I vescovi con molto coraggio si domandano se le
parrocchie «sono attrezzate per ascoltare attese e bisogni della gente» (2) e
auspicano che la parrocchia sia oggetto di un profondo aggiornamento che la
renda sciolta per questi nuovi compiti: un’autentica «conversione». Quella che
i vescovi auspicano, se conversione vuol essere, richiederà uomini e donne al
servizio della nuova evangelizzazione. In questo modo la parrocchia ritroverà
quell’ «orizzonte più spiccatamente missionario», e non esisterà cioè più solo
in funzione dei cristiani praticanti, ma sarà come un’antenna rivolta ai
lontani che ancora attendono la luce e la forza del Cristo risorto. Ne parla il
n. 12 della Nota pastorale che richiama il n. 62 di Comunicare il Vangelo in un
mondo che cambia, che affermava l’urgenza di preparare «catechisti, animatori,
responsabili di gruppi di ascolto nelle case, visitatori delle famiglie,
accompagnatori delle giovani coppie di sposi, uomini e donne pienamente
disponibili a riallacciare quei rapporti di comunione tra le persone che soli
possono dar loro un segno di speranza», dei nuovi ministeri con fisionomia
spiccatamente missionaria.
Ma l’impegno più urgente per dare un volto missionario
alla parrocchia è la formazione dei cristiani alla globalità, alla cattolicità
della chiesa. Non basta proprio più la giornata missionaria mondiale una volta
all’anno, né qualche raccolta di offerte per un progetto e neppure qualche
viaggio in missione. Bisogna formare all’incontro con l’«altro», a vincere la
paura dell’«altro», che sta fuori e lontano, al coraggio dell’incontro e del
dialogo. È la caratteristica di base della missione che dovrà informare tutto
l’impianto della pastorale la quale deve essere posta sull’orizzonte grande del
mondo. È vero che bisogna «far crescere la coscienza dei fedeli in ordine ai
problemi della povertà del mondo, dello sviluppo nella giustizia e nel rispetto
della creazione, della pace tra i popoli» (10), ma non come un settore
staccato, un dovere che si aggiunge come appendice moralistica ai doveri del cristiano,
ma come conseguenza logica e diretta parte del Vangelo del regno di Dio e del
battesimo.
“ANDIAMOCENE
ALTROVE…”
Nella seconda parte della Nota pastorale i vescovi
ripercorrono gli itinerari pastorali della chiesa italiana per aprire «orizzonti
di cambiamento pastorale per una parrocchia missionaria». Rivisitano i
sacramenti dell’iniziazione cristiana, in particolare del battesimo e
dell’eucaristia, tracciano itinerari formativi per gli adulti e per la
famiglia, dandoci delle pagine molto ricche di indicazioni pastorali per un
nuovo approccio che supera una catechesi e una pastorale dei sacramenti finora
concentrata quasi esclusivamente sui bambini e i ragazzi (9). Si sente inoltre
nei vescovi la giusta preoccupazione per una evangelizzazione della cultura da
parte della comunità cristiana invitata a fare «discernimento dei fenomeni
culturali» dentro quel progetto culturale che, a partire dal convegno di
Palermo, è diventato caratteristico dell’attuale stagione ecclesiale italiana
(10). Interessante e coraggiosa è anche la proposta di promuovere una pastorale
integrata o una «pastorale d’insieme» che metta «in rete» le parrocchie, perché
ormai «è finito il tempo della parrocchia autosufficiente» (11).
Ma se non ci sarà uno stile missionario anche la
pastorale integrata o d’insieme finirà per moltiplicare il lavoro per i pochi
preti validi, solleverà molte attese e altrettante frustrazioni. E se questo
stile missionario non sarà istillato alla comunità cristiana attraverso una
formazione autenticamente missionaria della comunità cristiana al senso dell’
«altro», a quell’ansia cattolica di raggiungere gli altri prima di pensare a se
stessi, a servire prima di esigere di essere serviti, a non voler il prete per
sé, ma a considerarlo servitore di tutti, come invece succede quasi ogni volta
che si mette in piedi un’unità pastorale, la missionarietà della parrocchia
sarà un sogno che resta nel cassetto.
E tuttavia il Vangelo è, in questo senso, chiaro e netto.
Esso ci mostra Gesù che non si lascia catturare dalla comunità di Cafarnao dove
tutti lo cercano. Ai discepoli sorpresi che non accetti di rispondere alla sete
di quella comunità, Gesù risponde: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini
perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto» (Mc 1,38). Luca,
riportando questa parola da Marco sulla coscienza missionaria di Gesù, la
modifica leggermente per dirci la coscienza che Gesù ha di fare in questo la
volontà del Padre: «Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre
città: per questo sono stato mandato» (Lc 4,43). È Dio stesso, nascosto
dall’impersonale bisogna e dal passivo essere mandato, che gli ha dato quel
comando e lo ha mandato tra noi perché raggiunga tutti.
Parlare di parrocchia missionaria non solo è corretto, ma
è necessario se vogliamo rinnovare la pastorale affinché essa sia efficace
nell’attuale situazione italiana ed europea. Ma dobbiamo vigilare per non
rimanere vittime delle parole: oggi tutto è facilmente etichettato di
missionario oppure si crede che missionario è solo quello che si fa nel
contesto specifico della missione ad gentes. La missione è una dimensione
dell’agire cristiano che abbraccia l’intera esistenza cristiana (parrocchia,
famiglia, presbiterio, vita consacrata, gruppi ecclesiali e movimenti, catechesi,
promozione umana ecc.). Essa deve essere oggetto di formazione e di educazione,
perché essere missionari è uno stile che deve informare quello che si fa; non è
ciò che si fa, ma il come lo si fa, è una relazione che si stabilisce con
l’altro.
«La parrocchia di oggi e di domani dovrà concepirsi come
un tessuto di relazioni stabili» (11 alla fine). Perché questo possa accadere,
ai cristiani che vengono alle nostre eucaristie deve essere data una formazione
deliberatamente missionaria, che poi altro non è che mettere al centro di tutto
l’evento-Gesù Cristo, il quale, dice Marco concludendo l’episodio appena
ricordato «andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e
scacciando i demoni» (Mc 1,39). Il suo messaggio era sempre lo stesso: «Il tempo
è compiuto, il regno di Dio si è fatto prossimo: convertitevi e credete a
questa buona notizia» (Mc 1,15). È pronta la nostra chiesa a mettersi al
servizio del regno di Dio per annunziarne al mondo la lieta notizia?
Gabriele Ferrari
s.x.
1 Testimoni se ne è già occupato nel numero 13 del 15
luglio 2004, trattandone dal punto di vista dei religiosi.