IL MEETING DI S. EGIDIO A MILANO
RELIGIONI E CONVIVENZA
Il nuovo umanesimo
ha il volto di una civiltà del convivere: a questo compito sono chiamate le
religioni in un momento in cui sono spesso strumentalizzate per incendiare
conflitti etnici e politici.
Dal 5 al 7 di settembre 2004 si è svolto a Milano il
diciottesimo incontro ecumenico e interreligioso organizzato dalla
Le giornate milanesi sono state una scommessa sulla
convergenza di soggetti diversi per affrontare le grandi domande dell’oggi: le
domande poste da una globalizzazione che non risponde all’esigenza di
giustizia, sicurezza, pace e benessere per tutti e soprattutto alla domanda di
fondo sul senso della nostra storia.
DIALOGO
VIA ALLA FRATERNITÀ
Si è avuto conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno,
che occorre molta perseveranza perché lungo e complesso è il lavoro di dialogo
e di negoziato per giungere al “nuovo umanesimo” cui fa riferimento il titolo
del meeting, Religioni e culture: il coraggio di un nuovo umanesimo.
Giovanni Paolo II, nel saluto letto durante la
celebrazione finale dal cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio
Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, lo ha lucidamente
evidenziato affermando che la pace è possibile – e «le religioni hanno un
particolare compito nel richiamare tutti gli uomini a questa consapevolezza che
è, allo stesso tempo, dono di Dio e frutto dell’esperienza storica di tanti
secoli» – e che la vera via della pace non passa mai per la violenza ma sempre
per il dialogo: proprio lo stile dell’incontro di Milano «genera un umanesimo,
ossia un nuovo modo di guardarsi gli uni gli altri, di comprendersi, di pensare
al mondo e di operare per la pace. All’incontro partecipano persone capaci di
stare le une accanto alle altre, trovando quell’amicizia che fa sentire l’alta
dignità di ogni uomo e la ricchezza che è spesso insita nella diversità. Il
dialogo rivela il coraggio di un nuovo umanesimo, perché richiede fiducia
nell’uomo. Non pone mai gli uni contro gli altri». Ha fatto eco a tali parole
il messaggio del patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Aleksij, che si è
soffermato sul rapporto tra cultura e dialogo: «La cosiddetta cultura di massa
si presenta come alternativa alle culture peculiari dei diversi popoli, fondate
sui valori spirituali tradizionali. Noi, uomini credenti, possiamo contrapporci
con successo all’imposizione di una pseudocultura basata esclusivamente
sull’ideologia del consumo, solo se comunichiamo. In questo senso acquista una
rilevanza particolare il dialogo interreligioso nutrito di una discussione
onesta e aperta sui problemi esistenti e dalla ricerca delle vie per una loro
reale risoluzione».
Su questa linea, nell’assemblea di inaugurazione, anche
gli interventi del presidente musulmano del Senegal, Abdoulaye Wade, e del
rabbino capo di Israele, Yona Metzger. Il primo ha chiesto di condurre una
lotta intellettuale contro chi promette l’inferno sulla terra: «La teoria dello
scontro di civiltà non è altro che un antiumanesimo rivestito di un mantello
intellettuale poco fondato. Non c’è scontro di civiltà. Non ci sarà scontro di
civiltà se gli intellettuali musulmani impediscono che dei falsi devoti,
politici mascherati da predicatori, ci impongano una visione distorta della
nostra religione, facendo presa sulla frangia più povera della nostra società».
Il secondo ha proposto, a partire dalle tradizioni religiose che hanno Abramo
come padre comune, di giocare fino in fondo le carte della “diplomazia
religiosa”: «Dovremmo formare un’assemblea permanente di leader religiosi,
proprio come quella dell’ONU, e dovrebbe avere il suo centro permanente a
Gerusalemme, nella Città santa. Questo darebbe un grande contributo in termini
di fraternità concreta e di cooperazione tra le religioni».
Quest’impegno dialogico ha permeato i 36 forum, che con
le loro tematiche hanno individuato almeno quattro filoni di riflessione: le
emergenze planetarie (migrazioni, povertà, Aids in Africa, nuove guerre,
degrado socio-ambientale, terrorismo), l’agenda culturale e politica (bioetica,
democrazia, globalizzazione e disuguaglianze, sviluppo sostenibile), i luoghi
del conflitto e della riconciliazione (Irlanda del Nord, Unione Europea,
America Latina, Iraq, Costa d’Avorio, Palestina), la spiritualità della
speranza (unità dei cristiani, memoria e perdono, martirio, preghiera, civiltà
della convivenza, via della bellezza).
POPOLI FRATELLI
CHIESE SORELLE
Appare chiaro che, dopo essere state dichiarate come
specie quasi in via di estinzione, le religioni si ritrovano alla ribalta della
scena pubblica. C’è chi cerca di strumentalizzarle per incendiare conflitti
etnici e politici, e chi ne riconosce la funzione etica e sociale per
contrastare le piaghe del mondo e per edificare la convivenza. Tanti mondi
religiosi sono al bivio: far prevalere le ragioni della pace o lasciarsi
trascinare sulla via della violenza? La recente vicenda del terrorismo è lì a
dimostrarlo. Le religioni possono essere acqua che spegne l’incendio della
guerra, ma possono pure divenire benzina che attizza il fuoco dell’odio.
Una grande responsabilità grava in particolare sulle
chiese cristiane come ha sottolineato il forum che ha tematizzato il rapporto
tra unità dei cristiani e la pace nel mondo. La domanda dell’autore de I viaggi
di Gulliver, Jonathan Swift, – «Come è possibile che, generalmente, gli uomini
abbiano abbastanza religione per odiarsi ma non abbastanza per amarsi?» –
esprime bene l’umiltà con cui si è affrontata la questione ecumenica. Dopo le
guerre civili europee del XVI-XVII secolo (in cui la divisione in gruppi
religiosi svolse un ruolo significativo e che furono il preludio a un
Illuminismo con spirito anticristiano e antireligioso) e dopo che le grandi
utopie ideologiche del XX secolo hanno saputo creare poco più di un vasto
cimitero, i cristiani hanno un’altra possibilità… perché la speranza è fuggita
dalla politica e non si sa dove si recherà!
Ogni discepolo di Cristo deve assumersi allora la
responsabilità di porre le basi di un nuovo umanesimo. Con la consapevolezza
che l’impegno delle Chiese in favore della pace è in primo luogo un lavoro su
se stesse dal momento che è in gioco la loro credibilità, incrinata oggi dalla
competizione proselitistica, dall’assenza di trasparenza nelle relazioni
reciproche e dalla propensione a farsi strumentalizzare della politica
(Jean-Arnold de Clermont, presidente della Conferenza delle Chiese d’Europa).
Nella riscoperta del profondo significato dell’incarnazione del Verbo come
motore di una vita centrata sull’amore, capace di superare il “millennio della
frammentazione” per guardare verso un “millennio della convergenza” fra i
cristiani (Khajag Barsamian, primate Chiesa armena d’America a New York). Con
l’annuncio che l’unità piena di tutti i discepoli di Cristo non è uno scopo in
sé, ma va al di là e mostra l’unità di tutti gli uomini e di tutta l’umanità
(cf. la preghiera di Gesù «Che tutti siano una cosa sola… affinché il mondo
creda»); l’unità della Chiesa è allora il segno e lo strumento della pace nel
mondo, di conseguenza non c’è pace nel mondo se non c’è pace fra le chiese e
fra le religioni (cardinale Walter Kasper).
A partire da questi contributi, i rappresentanti delle
Chiese stesse hanno ammesso di trovarsi a disagio nel misurarsi con le società
postmoderne e pluralistiche, in cui si sperimenta il crollo del consenso
riguardo ai valori fondamentali per la convivenza, valori che sempre più spesso
non possono più essere garantiti dalla politica. Si guarda certo con favore
alla riscoperta sociale della risorsa “religione”, ma ci si pone la questione
di come non cadere nella trappola del fondamentalismo senza perdersi in un
liberalismo che si adatta alla politica nazionale o in un relativismo etico.
Qui è emerso con chiarezza un punto decisivo del dialogo ecumenico attuale: non
si tratta solo di risolvere dei problemi teologici tradizionali, ma anche di
iniziare una nuova riflessione comune sul terreno del rapporto chiesa-mondo,
dove emergono le posizioni che dividono cattolici, ortodossi e protestanti sui
temi più scottanti della politica e dell’etica. L’ecumenismo, hanno ammesso i
più, si trova in una fase intermedia: impegno ecumenico e impegno per la pace
si incontrano pertanto nella capacità delle Chiese di stabilire un modello di
convivenza nonostante le loro diversità. Far crescere il senso di Chiese
sorelle nell’una e unica Chiesa di Cristo significa allora dare un esempio
efficace e offrire uno strumento importante per promuovere l’idea dei popoli
fratelli.
CONTRO IL TERRORE
PONTI DI CONVIVENZA
La scelta del dialogo non-violento, parte essenziale di
una nuova convivenza, ha sostenuto il franco dibattito anche nei forum più
delicati (es. Iraq tra presente e futuro, quale islam in Europa, speranze nel
conflitto tra palestinesi e israeliani), dove è apparso sempre più chiaramente
che ogni fondamentalismo è in lotta innanzi tutto con il proprio moderatismo:
perciò è sempre decisivo per i cristiani gettare ponti verso i religiosi
moderati, per non lasciarli alla mercè delle frange estreme.
Questa consapevolezza ha portato il noto intellettuale
libanese Ghassan Tueni a denunciare il drammatico esodo dei cristiani dall’Iraq
e soprattutto da Gerusalemme: «Ci siamo chiesti qual è la nostra parte di
responsabilità cristiana di fronte al rischio di vedere scomparire la chiesa di
Gerusalemme, corpo di Cristo nella città di Dio terrestre? Con il pretesto
dell’antisemitismo rinascente, non soddisfatti di aver presentato al mondo la
lotta per Gerusalemme come un conflitto tra ebrei e musulmani, i sionisti e i
loro alleati d’America – neoconservatori, cristiani-sionisti e altri gruppi
sub-protestanti – rimettono in questione, ogni giorno di più e in tutti i modi,
i Vangeli e perfino la nascita di Gesù a Betlemme, che è già una città
fantasma. È venuto il momento di ammettere che il più grande pericolo che ci
minaccia non è lo spettro fantomatico di un islam terrorista che Israele agita
continuamente, ma la strategia storica del sionismo che non nasconde più la sua
determinazione a distruggere il santo Sepolcro e la moschea della Cupola per
“ricostruire il Tempio” che sarà presagio della venuta del Messia». E a
chiedere ai cristiani d’oriente di non automarginalizzarsi e non scegliere
l’emigrazione, ma di guadagnare la loro credibilità di fronte a Europa e
America spiegando l’islam all’occidente: «I cristiani devono investire nella
rinascita che intraprende l’islam e ispirargli la ricerca di un progresso
socioculturale che può essere solo comune. Bisogna incoraggiare le società
multireligiose, ma rinegoziando ogni giorno un contratto sociale. L’islam
autentico deve capire che solo una pace con i cristiani gli permetterà di
modernizzarsi senza complessi, di liberarsi della paura degli altri… i
cristiani d’oriente devono diventare la passerella tra l’occidente cristiano e
il mondo islamico. Bisogna rinunciare a compiacersi nel ruolo di vittime che
piangono per tuffarsi nella gioia della creazione. La loro religione li chiama
a questo».
Su questa linea anche la testimonianza di due
rappresentanti della vita consacrata che vivono sulle frontiere del dialogo:
fr. Pierbattista Pizzaballa ofm, Custode di Terra santa, e il cappuccino mons.
Paul Hinder, vescovo ausiliare del Vicariato apostolico d’Arabia.
Padre Pizzaballa, dopo aver sottolineato che è necessario
essere uomini capaci di leggere gli eventi in un’ottica di fede più che uomini
di religione in difesa del proprio patrimonio di certezze, ha ribadito che la
Terra santa ha bisogno di ponti e non di muri: «Se come Chiesa vogliamo essere
ponte, dobbiamo essere presenti e radicati in tutt’e due le realtà in conflitto
tra di loro: Israele e Palestina. Significa essere in unione con entrambi,
amare entrambi appassionatamente, essere solidali con entrambi, anche quando
sbagliano. Significa avere la libertà e il coraggio di dire ai palestinesi e
agli israeliani che non siamo d’accordo, ma che stiamo egualmente con loro.
Allo stesso tempo dobbiamo avere anche il coraggio della verità… Devo poi
riconoscere che la Chiesa in Terra santa è ancora molto divisa. Riusciamo ad
avere una parola comune spesso solo quando si tratta di condannare qualcuno. È
difficile in questo contesto parlare e predicare il perdono e la
riconciliazione».
Mons. Hinder ha descritto senza fronzoli la vita delle
piccole parrocchie in terra d’Arabia (Yemen, Oman, Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Qatar, Barhein): «Un punto di riferimento per l’integrazione degli
immigrati cristiani, ma anche un caposaldo spirituale per popoli “pellegrini”
che arrivano da tutte le parti del mondo… i cattolici lavorano, vivono come i
musulmani, ma le difficoltà nel praticare il culto sono tante. Ma forse per
questo la forza religiosa del cattolicesimo è davvero molto vissuta, come una
sorte di “collante” nella vita di comunità tanto unite quanto diverse».
Forse, a ben guardare, il meeting di Milano ci ha proprio
voluto dire che, in un mondo di sradicati, le religioni sono chiamate a parlare
di radici: quelle che legano l’uomo a Dio, ma anche al rispetto del suo simile.
In un mondo che cambia tanto in fretta le religioni restano approdi forti e
fedeli; senza svendere la verità devono saper rispondere al bisogno e al
significato del vivere insieme tra diversi.
Mario Chiaro