IL MEETING DI S. EGIDIO A MILANO

RELIGIONI E CONVIVENZA

 

Il nuovo umanesimo ha il volto di una civiltà del convivere: a questo compito sono chiamate le religioni in un momento in cui sono spesso strumentalizzate per incendiare conflitti etnici e politici.

 

Dal 5 al 7 di settembre 2004 si è svolto a Milano il diciottesimo incontro ecumenico e interreligioso organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, quest’anno in collaborazione con la diocesi ambrosiana. Dal 1986, anno dell’incontro di preghiera delle religioni per la pace voluta dal papa ad Assisi, la comunità fondata da Andrea Riccardi perpetua lo spirito di quell’evento (“mai più gli uni contro gli altri”) e ne tramanda l’eredità, organizzando annualmente l’appuntamento internazionale Uomini e religioni.

Le giornate milanesi sono state una scommessa sulla convergenza di soggetti diversi per affrontare le grandi domande dell’oggi: le domande poste da una globalizzazione che non risponde all’esigenza di giustizia, sicurezza, pace e benessere per tutti e soprattutto alla domanda di fondo sul senso della nostra storia.

 

DIALOGO

VIA ALLA FRATERNITÀ

 

Si è avuto conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che occorre molta perseveranza perché lungo e complesso è il lavoro di dialogo e di negoziato per giungere al “nuovo umanesimo” cui fa riferimento il titolo del meeting, Religioni e culture: il coraggio di un nuovo umanesimo.

Giovanni Paolo II, nel saluto letto durante la celebrazione finale dal cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, lo ha lucidamente evidenziato affermando che la pace è possibile – e «le religioni hanno un particolare compito nel richiamare tutti gli uomini a questa consapevolezza che è, allo stesso tempo, dono di Dio e frutto dell’esperienza storica di tanti secoli» – e che la vera via della pace non passa mai per la violenza ma sempre per il dialogo: proprio lo stile dell’incontro di Milano «genera un umanesimo, ossia un nuovo modo di guardarsi gli uni gli altri, di comprendersi, di pensare al mondo e di operare per la pace. All’incontro partecipano persone capaci di stare le une accanto alle altre, trovando quell’amicizia che fa sentire l’alta dignità di ogni uomo e la ricchezza che è spesso insita nella diversità. Il dialogo rivela il coraggio di un nuovo umanesimo, perché richiede fiducia nell’uomo. Non pone mai gli uni contro gli altri». Ha fatto eco a tali parole il messaggio del patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Aleksij, che si è soffermato sul rapporto tra cultura e dialogo: «La cosiddetta cultura di massa si presenta come alternativa alle culture peculiari dei diversi popoli, fondate sui valori spirituali tradizionali. Noi, uomini credenti, possiamo contrapporci con successo all’imposizione di una pseudocultura basata esclusivamente sull’ideologia del consumo, solo se comunichiamo. In questo senso acquista una rilevanza particolare il dialogo interreligioso nutrito di una discussione onesta e aperta sui problemi esistenti e dalla ricerca delle vie per una loro reale risoluzione».

Su questa linea, nell’assemblea di inaugurazione, anche gli interventi del presidente musulmano del Senegal, Abdoulaye Wade, e del rabbino capo di Israele, Yona Metzger. Il primo ha chiesto di condurre una lotta intellettuale contro chi promette l’inferno sulla terra: «La teoria dello scontro di civiltà non è altro che un antiumanesimo rivestito di un mantello intellettuale poco fondato. Non c’è scontro di civiltà. Non ci sarà scontro di civiltà se gli intellettuali musulmani impediscono che dei falsi devoti, politici mascherati da predicatori, ci impongano una visione distorta della nostra religione, facendo presa sulla frangia più povera della nostra società». Il secondo ha proposto, a partire dalle tradizioni religiose che hanno Abramo come padre comune, di giocare fino in fondo le carte della “diplomazia religiosa”: «Dovremmo formare un’assemblea permanente di leader religiosi, proprio come quella dell’ONU, e dovrebbe avere il suo centro permanente a Gerusalemme, nella Città santa. Questo darebbe un grande contributo in termini di fraternità concreta e di cooperazione tra le religioni».

Quest’impegno dialogico ha permeato i 36 forum, che con le loro tematiche hanno individuato almeno quattro filoni di riflessione: le emergenze planetarie (migrazioni, povertà, Aids in Africa, nuove guerre, degrado socio-ambientale, terrorismo), l’agenda culturale e politica (bioetica, democrazia, globalizzazione e disuguaglianze, sviluppo sostenibile), i luoghi del conflitto e della riconciliazione (Irlanda del Nord, Unione Europea, America Latina, Iraq, Costa d’Avorio, Palestina), la spiritualità della speranza (unità dei cristiani, memoria e perdono, martirio, preghiera, civiltà della convivenza, via della bellezza).

 

POPOLI FRATELLI

CHIESE SORELLE

 

Appare chiaro che, dopo essere state dichiarate come specie quasi in via di estinzione, le religioni si ritrovano alla ribalta della scena pubblica. C’è chi cerca di strumentalizzarle per incendiare conflitti etnici e politici, e chi ne riconosce la funzione etica e sociale per contrastare le piaghe del mondo e per edificare la convivenza. Tanti mondi religiosi sono al bivio: far prevalere le ragioni della pace o lasciarsi trascinare sulla via della violenza? La recente vicenda del terrorismo è lì a dimostrarlo. Le religioni possono essere acqua che spegne l’incendio della guerra, ma possono pure divenire benzina che attizza il fuoco dell’odio.

Una grande responsabilità grava in particolare sulle chiese cristiane come ha sottolineato il forum che ha tematizzato il rapporto tra unità dei cristiani e la pace nel mondo. La domanda dell’autore de I viaggi di Gulliver, Jonathan Swift, – «Come è possibile che, generalmente, gli uomini abbiano abbastanza religione per odiarsi ma non abbastanza per amarsi?» – esprime bene l’umiltà con cui si è affrontata la questione ecumenica. Dopo le guerre civili europee del XVI-XVII secolo (in cui la divisione in gruppi religiosi svolse un ruolo significativo e che furono il preludio a un Illuminismo con spirito anticristiano e antireligioso) e dopo che le grandi utopie ideologiche del XX secolo hanno saputo creare poco più di un vasto cimitero, i cristiani hanno un’altra possibilità… perché la speranza è fuggita dalla politica e non si sa dove si recherà!

Ogni discepolo di Cristo deve assumersi allora la responsabilità di porre le basi di un nuovo umanesimo. Con la consapevolezza che l’impegno delle Chiese in favore della pace è in primo luogo un lavoro su se stesse dal momento che è in gioco la loro credibilità, incrinata oggi dalla competizione proselitistica, dall’assenza di trasparenza nelle relazioni reciproche e dalla propensione a farsi strumentalizzare della politica (Jean-Arnold de Clermont, presidente della Conferenza delle Chiese d’Europa). Nella riscoperta del profondo significato dell’incarnazione del Verbo come motore di una vita centrata sull’amore, capace di superare il “millennio della frammentazione” per guardare verso un “millennio della convergenza” fra i cristiani (Khajag Barsamian, primate Chiesa armena d’America a New York). Con l’annuncio che l’unità piena di tutti i discepoli di Cristo non è uno scopo in sé, ma va al di là e mostra l’unità di tutti gli uomini e di tutta l’umanità (cf. la preghiera di Gesù «Che tutti siano una cosa sola… affinché il mondo creda»); l’unità della Chiesa è allora il segno e lo strumento della pace nel mondo, di conseguenza non c’è pace nel mondo se non c’è pace fra le chiese e fra le religioni (cardinale Walter Kasper).

A partire da questi contributi, i rappresentanti delle Chiese stesse hanno ammesso di trovarsi a disagio nel misurarsi con le società postmoderne e pluralistiche, in cui si sperimenta il crollo del consenso riguardo ai valori fondamentali per la convivenza, valori che sempre più spesso non possono più essere garantiti dalla politica. Si guarda certo con favore alla riscoperta sociale della risorsa “religione”, ma ci si pone la questione di come non cadere nella trappola del fondamentalismo senza perdersi in un liberalismo che si adatta alla politica nazionale o in un relativismo etico. Qui è emerso con chiarezza un punto decisivo del dialogo ecumenico attuale: non si tratta solo di risolvere dei problemi teologici tradizionali, ma anche di iniziare una nuova riflessione comune sul terreno del rapporto chiesa-mondo, dove emergono le posizioni che dividono cattolici, ortodossi e protestanti sui temi più scottanti della politica e dell’etica. L’ecumenismo, hanno ammesso i più, si trova in una fase intermedia: impegno ecumenico e impegno per la pace si incontrano pertanto nella capacità delle Chiese di stabilire un modello di convivenza nonostante le loro diversità. Far crescere il senso di Chiese sorelle nell’una e unica Chiesa di Cristo significa allora dare un esempio efficace e offrire uno strumento importante per promuovere l’idea dei popoli fratelli.

 

CONTRO IL TERRORE

PONTI DI CONVIVENZA

 

La scelta del dialogo non-violento, parte essenziale di una nuova convivenza, ha sostenuto il franco dibattito anche nei forum più delicati (es. Iraq tra presente e futuro, quale islam in Europa, speranze nel conflitto tra palestinesi e israeliani), dove è apparso sempre più chiaramente che ogni fondamentalismo è in lotta innanzi tutto con il proprio moderatismo: perciò è sempre decisivo per i cristiani gettare ponti verso i religiosi moderati, per non lasciarli alla mercè delle frange estreme.

Questa consapevolezza ha portato il noto intellettuale libanese Ghassan Tueni a denunciare il drammatico esodo dei cristiani dall’Iraq e soprattutto da Gerusalemme: «Ci siamo chiesti qual è la nostra parte di responsabilità cristiana di fronte al rischio di vedere scomparire la chiesa di Gerusalemme, corpo di Cristo nella città di Dio terrestre? Con il pretesto dell’antisemitismo rinascente, non soddisfatti di aver presentato al mondo la lotta per Gerusalemme come un conflitto tra ebrei e musulmani, i sionisti e i loro alleati d’America – neoconservatori, cristiani-sionisti e altri gruppi sub-protestanti – rimettono in questione, ogni giorno di più e in tutti i modi, i Vangeli e perfino la nascita di Gesù a Betlemme, che è già una città fantasma. È venuto il momento di ammettere che il più grande pericolo che ci minaccia non è lo spettro fantomatico di un islam terrorista che Israele agita continuamente, ma la strategia storica del sionismo che non nasconde più la sua determinazione a distruggere il santo Sepolcro e la moschea della Cupola per “ricostruire il Tempio” che sarà presagio della venuta del Messia». E a chiedere ai cristiani d’oriente di non automarginalizzarsi e non scegliere l’emigrazione, ma di guadagnare la loro credibilità di fronte a Europa e America spiegando l’islam all’occidente: «I cristiani devono investire nella rinascita che intraprende l’islam e ispirargli la ricerca di un progresso socioculturale che può essere solo comune. Bisogna incoraggiare le società multireligiose, ma rinegoziando ogni giorno un contratto sociale. L’islam autentico deve capire che solo una pace con i cristiani gli permetterà di modernizzarsi senza complessi, di liberarsi della paura degli altri… i cristiani d’oriente devono diventare la passerella tra l’occidente cristiano e il mondo islamico. Bisogna rinunciare a compiacersi nel ruolo di vittime che piangono per tuffarsi nella gioia della creazione. La loro religione li chiama a questo».

Su questa linea anche la testimonianza di due rappresentanti della vita consacrata che vivono sulle frontiere del dialogo: fr. Pierbattista Pizzaballa ofm, Custode di Terra santa, e il cappuccino mons. Paul Hinder, vescovo ausiliare del Vicariato apostolico d’Arabia.

Padre Pizzaballa, dopo aver sottolineato che è necessario essere uomini capaci di leggere gli eventi in un’ottica di fede più che uomini di religione in difesa del proprio patrimonio di certezze, ha ribadito che la Terra santa ha bisogno di ponti e non di muri: «Se come Chiesa vogliamo essere ponte, dobbiamo essere presenti e radicati in tutt’e due le realtà in conflitto tra di loro: Israele e Palestina. Significa essere in unione con entrambi, amare entrambi appassionatamente, essere solidali con entrambi, anche quando sbagliano. Significa avere la libertà e il coraggio di dire ai palestinesi e agli israeliani che non siamo d’accordo, ma che stiamo egualmente con loro. Allo stesso tempo dobbiamo avere anche il coraggio della verità… Devo poi riconoscere che la Chiesa in Terra santa è ancora molto divisa. Riusciamo ad avere una parola comune spesso solo quando si tratta di condannare qualcuno. È difficile in questo contesto parlare e predicare il perdono e la riconciliazione».

Mons. Hinder ha descritto senza fronzoli la vita delle piccole parrocchie in terra d’Arabia (Yemen, Oman, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Barhein): «Un punto di riferimento per l’integrazione degli immigrati cristiani, ma anche un caposaldo spirituale per popoli “pellegrini” che arrivano da tutte le parti del mondo… i cattolici lavorano, vivono come i musulmani, ma le difficoltà nel praticare il culto sono tante. Ma forse per questo la forza religiosa del cattolicesimo è davvero molto vissuta, come una sorte di “collante” nella vita di comunità tanto unite quanto diverse».

Forse, a ben guardare, il meeting di Milano ci ha proprio voluto dire che, in un mondo di sradicati, le religioni sono chiamate a parlare di radici: quelle che legano l’uomo a Dio, ma anche al rispetto del suo simile. In un mondo che cambia tanto in fretta le religioni restano approdi forti e fedeli; senza svendere la verità devono saper rispondere al bisogno e al significato del vivere insieme tra diversi.

 

Mario Chiaro