INCONTRO TRA ORIENTE E OCCIDENTE

LA VIA
DELLA BELLEZZA

 

La storia dell’arte è una delle vie privilegiate per la comprensione del dramma umano.. Una grande lezione di vita spirituale ci viene dalla tradizione della Chiesa  orientale, come ha egregiamente illustrato p. Rupnik nel recente convegno di Capiago, organizzato con la collaborazione del Centro Aletti di Roma.

 

C’è una via privilegiata dell’evangelizzazione che la tradizione orientale potrebbe salutarmene indicare  alla Chiesa occidentale, in un contesto culturale e religioso sempre più “lontano” da Dio come il nostro. È quella della via illuminata dalla bellezza, formale e contenutistica, artistica ed esperienziale insieme, della fede cristiana. È la “bellezza” di chi vive, nella realtà dei fatti più che nelle parole e nelle argomentazioni, la nostalgia di Dio, il senso più profondo della salvezza operata da Cristo e costantemente vivificata dall’azione dello Spirito Santo.

È forse questo quanto, molto in sintesi, si è voluto dire nell’impegnativo convegno sul tema: Evangelizzazione e culture. La dimensione spirituale, svoltosi a Capiago nella prima settimana di agosto. In stretta collaborazione con la “Casa incontri cristiani” dei dehoniani, il Centro Aletti di Roma, rispetto alle iniziative congiunte degli anni precedenti, questa volta ha in qualche modo alzato il tiro. Partendo da ciò che può dire la storia dell’arte, riletta però in un’ottica completamente diversa da quelli di tanti specialisti in materia, ha provato a guardare dalla prospettiva tipica della spiritualità della Chiesa orientale un tema da sempre molto attuale in casa nostra, e cioè il rapporto tra evangelizzazione e culture.

 

L’ESPERIENZA

DEL CENTRO ALETTI

 

Bene o male, anche da noi sanno un po’ tutti quanto sia importante la tradizione liturgica nella Chiesa orientale. Raramente invece abbiamo sospettato di quanto fosse importante anche il problema della evangelizzazione. Lo abbiamo sempre e troppo affrettatamente considerato un problema “nostro”, tutto occidentale, dal momento che i “nostri” missionari, i “nostri” antropologi culturali sarebbero stati i primi a riconoscere non solo l’esistenza ma anche l’importanza del rispetto delle culture, delle religioni, delle tradizioni “altre”. Le inevitabili difficoltà di un processo così complesso  come questo abbiamo sempre cercato di risolverle con i nostri strumenti, con la nostra tradizione teologica, spirituale, culturale, pastorale. Abbiamo sempre illusoriamente pensato che la tradizione ecclesiale orientale avesse poco o nulla da insegnarci al riguardo. E dire che ormai, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, le pubblicazioni sulla spiritualità della Chiesa orientale si addensano sugli scaffali delle nostre librerie, anche se forse un po’ meno su quelli delle nostre biblioteche e dei nostri tavoli di lavoro.

Il tema del convegno è stato affrontato a più voci, mettendo a frutto le specifiche competenze dei vari relatori: l’arte (p. Marco Rupnik), la spiritualità (p. Tommaso Spidlik, creato cardinale nell’ultimo concistoro di Giovanni Paolo II), la tradizione (Michelina Tenace), la liturgia (Maria Campatelli). Il metodo di lavoro era quello consueto e già collaudato dall’équipe di p. Rupnik. Alle due relazioni del mattino, dopo un’ampia pausa pomeridiana, durante la quale individualmente i convegnisti dovevano approfondire il tema del mattino, aiutati da nuovi  testi suggeriti, di volta in volta, dai relatori, seguiva nel tardo pomeriggio l’assemblea generale. I relatori rispondevano alle domande loro pervenute per iscritto nel frattempo e in riferimento alle quali avevano avuto almeno uno spazio minimo per pensare le risposte. Non era intenzionalmente previsto nessun dibattito in aula. E questo è forse un aspetto che varrebbe la pena riconsiderare da parte degli organizzatori. Se le domande scritte, e anche le relative risposte, avevano il pregio di essere sicuramente meno improvvisate, più calibrate e pensate, nello stesso tempo, però, rimanevano anche anonime.  Ora, in una assemblea di 140 persone circa, composta per l’80% circa da religiose e il 20% per lo più da giovani sacerdoti diocesani (quasi interamente assenti i religiosi!), rischiavano di rimanere impersonali non solo le domande ma anche le risposte.

Dei quattro relatori, il “mattatore” di tutto il convegno non poteva non essere p. Rupnik, universalmente noto ormai dopo il suo opus magnum della cappella Redemptoris Mater in Vaticano. Dall’inizio alla fine ha sempre cercato di aiutare i convegnisti a non perdere di vista il “filo rosso” del discorso e la logica degli interventi dei relatori. E’ stata questa una attenzione provvidenziale, considerata, purtroppo!, l’assenza – prima e anche dopo gli interventi – del testo scritto delle relazioni.

In questa sintesi del convegno cercheremo di evidenziare solo alcuni temi di fondo enunciati, ripresi, riproposti in continuazione da Rupnik. Nell’economia del convegno agli altri relatori era stata affidata una messa a fuoco di alcuni temi, come appunto quelli della spiritualità, della tradizione e della liturgia nella Chiesa orientale, dati in qualche modo per scontati da Rupnik stesso.

Non servirebbe molto, in questa sede, sintetizzare, ad esempio, gli interventi del cardinal Spidlik. È un maestro della spiritualità orientale da ascoltare possibilmente in presa diretta. Solo in questo modo uno s’accorge di tutta la libertà interiore con cui, anche con molta arguzia, una persona che sta veleggiando verso gli 85 anni, sa valutare (anche “oltre”, non “contro”, la legge canonica) il cammino della Chiesa e il comportamento morale dei cristiani – praticanti e credenti o meno – del nostro tempo.

 

DALL’ANTICO EGITTO

AI CRISTIANI

 

Il tema centrale che si era riservato Rupnik era quello di una analisi spirituale della cultura contemporanea.  Lo ha fatto partendo da una prospettiva che conosce molto bene, quella dell’arte. Lo ha fatto in modo insolito rispetto alla impostazione di tanti nostri manuali e senza nessun timore reverenziale nei confronti anche dei più quotati critici di storia dell’arte di casa nostra. È partito dall’Egitto per dire subito che l’arte egiziana è l’unico esempio di cultura assolutamente religiosa, un’arte nella quale «tutto è religioso». Se l’unico contenuto, il contenuto assoluto di tutta la religione egiziana è la luce, allora anche ogni cosa che esiste ha valore solo nella misura in cui è unita a questo contenuto. Analizzando il colore della pittura, la personalizzazione dei sarcofaghi, il materiale delle maschere, la volumetria delle piramidi, lo sviluppo dei racconti mitologici e così via, Rupnik arriva alla conclusione che nella cultura egiziana è in atto un processo straordinario di essenzializzazione. «Il nesso, il legame tra noi e il contenuto, la vita stessa: tutto questo è chiamato in questione. L’arte egiziana unisce fortemente il creato, l’uomo e la cultura al contenuto fino al punto che non si distingue da esso». In altre parole il contenuto dell’arte in Egitto è inscindibile non solo dalla religione e dalla cultura, ma anche dalla trasmissione sia della religione che della cultura.

La rottura di questa assolutizzazione del contenuto incomincia con l’arte greca, dove si pensa molto di più all’idea che non al contenuto. L’arte serve per dare la forma ad un’idea. Non trovando nella realtà nessuna incarnazione dell’idea che noi abbiamo dell’uomo in quanto uomo, allora cosa faccio? Lo creo, lo realizzo, lo idealizzo nell’opera artistica. La conseguenza è quanto mai evidente: si pensa all’idea e non più al contenuto. Tutto viene fatto in funzione di un’idea che diventa sempre più importante del contenuto stesso.

Rupnik, oltre ad essere l’artista che tutti conosciamo, è anche docente di teologia della evangelizzazione alla Gregoriana. Lo si è percepito con molta chiarezza anche nel corso del convegno. Ogni occasione era buona per l’attualizzazione pastorale dei suoi discorsi storico-artistici, come nel caso del suo discorso sulla idealizzazione propria dell’arte greca. Non succede spesso, si è chiesto, qualcosa del genere anche nella pastorale odierna? Quante volte viene elaborato a tavolino un progetto pastorale e poi si cerca di aggiustare la realtà sul progetto stesso. Quante volte si presta più attenzione alla epistemologia, cioè al processo della conoscenza e sempre meno al contenuto. Ora, questo processo è pericoloso. Quando infatti non si è attenti al contenuto, a ciò che di fatto è vivo e respira «si rischia di sostituire colui che vive con i concetti con cui descrivo i contenuti». Quando mi sposto dal contenuto al processo di conoscenza, una volta che io mi fermo sui concetti, pensando che i concetti sono il contenuto, allora «il concetto è morto». È questo il grande rischio corso non solo dalla «più splendida arte greca» ma anche dalla «fioritura artistica del Rinascimento».

 

UN’ARTE COMUNICATA

E CELEBRATA

 

I cristiani si affacciano sul palcoscenico della storia con delle “radicali novità”, «con una memoria vivente, che rende presente una persona, con un’arte che tende alla celebrazione, non collocata a caso, ma sempre e solo nello spazio della celebrazione». Sanno di trovarsi di fronte ad una realtà «comunicata e celebrata insieme». La conoscenza della verità è insieme celebrazione, «perchè si celebra un volto preciso». Il processo della evangelizzazione nei primi secoli della Chiesa, della inculturazione della fede cristiana è di straordinaria importanza. Nelle catacombe un povero cristiano si è provato a disegnare Giona. I cristiani ebrei volendo spiegare ai pagani romani chi fosse Gesù Cristo che fanno? Rileggono l’Antico Testamento, dove, fra i tanti, trovano anche l’episodio biblico di Giona. L’applicazione era immediata. Come Giona «anche noi cristiani prima eravamo morti con il peccato e ora siamo risorti in Cristo».

I cristiani cercano di spiegare la loro fede come possono, di svelare il mistero di fronte a cui si sono trovati. Erano pronti a morire sull’esempio di chi era morto per loro, ma non era facile spiegare queste verità. La loro teologia era allora molto balbettante. Non trovano di meglio che scavare nell’Antico Testamento per trovare quelle immagini che potessero più facilmente aiutare a comprendere la novità del cristianesimo. Era questa la prima grande catechesi, proprio sull’esempio di quella fatta da Pietro il giorno di Pentecoste a Gerusalemme, «con l’unico discorso – ha commentato Rupnik – che ha avuto una indubbia efficacia fra tutti i discorsi fatti dai cristiani fino ad oggi», se è vero, come dicono gli Atti, che ne è seguita la conversione di centinaia e centinaia di persone.

Ma oggi che succede? Si rischia di scambiare l’iniziazione al Cristo vivente con un corso di catechismo, con un corso di aggiornamento o con la frequenza di un istituto superiore di scienze religiose. «È  chiaro che anche presso i primi cristiani c’è stata tutta la memoria, tutta la catechesi, ma la iniziazione avveniva attraverso l’innesto della propria vita in quella del Cristo, così come il tralcio si innesta nella vite». Solo sulla base di questa profonda unione si ricomprende il senso di tutta l’arte cristiana.

Questa era la loro prima e più efficace catechesi, ben diversamente da quanto avviene spesso oggi. Il punto di partenza era sempre e solo la novità della propria vita in Cristo. Oggi invece il punto di partenza è spesso la nostra cultura, il nostro ambiente. «Io prendo la mia cultura e vado a vedere che cosa di questa cultura è già evangelico o può essere di Cristo o può andar bene per il vangelo, vado a vedere cosa c’è di cristiano». Questo, purtroppo, «è il processo di inculturazione degli ultimi 40-50 anni».

Che cosa manca alla cultura d’oggi, che cosa manca a tanti cristiani di oggi? Manca «l’esperienza della salvezza cristiana personalmente vissuta». Solo vivendola, solo lasciandosene coinvolgere profondamente è poi anche possibile trovare, inventare, creare anche artisticamente quei simboli, quei soggetti più adatti non solo a esprimerla ma anche a comunicarla ad altri. «Il principio della evangelizzazione non è un apparato culturale ma una esperienza della redenzione della mia vita».

 

ESPRESSIONE E CONTENUTO

DELLE ICONE BIZANTINE

 

I cristiani, capìta l’importanza dell’arte, si sono “entusiasmati”. Attingendo sia all’arte dell’antico Egitto che della Grecia, ecco venire alla luce l’arte bizantina, in cui viene nuovamente e fortemente riaffermata, sull’esempio dell’Egitto, l’unitarietà della forma con il contenuto. Basta saper guardare e vedere in questo senso le icone, dove la forma è data dal contenuto che si vuol comunicare.

Qui la teologia diventa arte, diventa estetica. Il criterio di questa arte non è la natura, non è una filosofia, non è una regola estetica, ma è la teologia che affonda nella liturgia. Per questo l’icona viene sempre fatta nell’ambito della liturgia, per la liturgia, per la celebrazione. L’icona diventa la massima espressione dell’unità tra contenuto, percezione, trasmissione e manifestazione insieme. Il nesso tra il legno dell’icona e il Dio ivi rappresentato, dice san Giovanni Damasceno, è l’amore stesso di Dio. Sono tre i momenti in cui Dio inabita il legno: all’ora della creazione dell’albero da cui è tratto il legno dell’icona, nel momento in cui il legno viene lavorato, con amore, dall’artista, e, infine, quando la Chiesa si ritrova a pregare davanti all’icona stessa.

Non è facile per noi comprendere la forte unità tra contenuto ed espressione nell’icona. Si tratta di un nesso reale, non solo pensato. L’icona diventa così la esemplificazione più immediata e percepibile della inabitazione di Dio nel cristiano stesso, grazie all’azione dello Spirito Santo. È  questa la prima grande struttura culturale realizzata dai cristiani. Tra il contenuto della vita e la nostra espressione di questo contenuto, c’è sempre lo Spirito Santo, c’è sempre l’amore di Dio che dona in Cristo lo Spirito Santo.

Ora tutto questo la dice lunga sul “grande assente” dai nostri manuali di teologia. Non dice nulla il fatto che «fino ad oggi non è previsto nell’iter teologico un trattato fondamentale sullo Spirito Santo?». È  purtroppo vero che «lo si mette un po’ ovunque, ma nulla di più». E questo la dice lunga anche sul nesso tra il contenuto, la sua comprensione, la sua trasmissione.  Senza lo Spirito Santo, dice Basilio il Grande, è negato ogni accesso sia all’uomo che a Dio.

Se confrontiamo la nostra cultura contemporanea con quella espressa dall’arte cristiana dagli inizi fino al rinascimento, molti si sono chiesti quanto l’uomo, ormai svincolato da Dio, abbia perso o abbia guadagnato. Rupnik, commentando alcuni dei capolavori del Rinascimento ha dimostrato quanto il “progetto uomo” sia andato progressivamente impoverendosi, fino al suo annientamento drammaticamente espresso in tante opere di artisti moderni e contemporanei.

Con il Rinascimento «è nata una grande crisi», la rottura dell’unità del mondo, la ricerca del particolare e dell’autonomia del particolare dal tutto, del dettaglio di fronte all’insieme. L’arte è andata progressivamente emigrando, come abbiamo già detto, «dal santuario nel palazzo», rinunciando a quello che era sempre stata per crearsi un nuovo universo, quello del gusto e delle leggi dell’estetica. Su questi presupposti nasce una nuova società, una nuova epoca, una nuova cultura, arrivata praticamente fino a noi, una cultura entro la quale è sempre più difficile riservare uno spazio a Dio.

Basta guardare la facciata del Maderno nella basilica di San Pietro a Roma. Con il suo intervento definitivo, questo artista è riuscito a secolarizzare la chiesa, a nasconderla con il falso pretesto di dar vita ad una chiesa a croce latina. È riuscito a “distruggere” il progetto di Michelangelo, un progetto che aveva ancora un senso religioso,  trasformandolo in un lussuoso palazzo rinascimentale in tutto e per tutto simile a tanti altri esistenti a Roma. Eccoci così «all’inizio della modernità, dove bisogna nascondere la chiesa, secolarizzarla, cambiarla».

 

IL DRAMMA DELL’UOMO

NELL’ARTE MODERNA

 

“Dipingo come mi sento”, al di fuori di quindi di ogni riferimento contenutistico, è in qualche modo l’ultima tappa del percorso artistico dell’epoca moderna. Gli artisti, se riletti con attenzione, diventano dei canali privilegiati per capire il dramma dell’uomo contemporaneo, un uomo non solo svincolato da Dio ma anche da ogni rapporto con l’altro. Sottovalutare quanto ci hanno voluto dire un Van Gogh e tutti gli impressionisti prima e gli espressionisti poi sulla realtà dell’uomo oggi è uno sbaglio. Ripercorrere la storia dell’arte dell’epoca moderna, come ha tentato di fare molto rapidamente Rupnik durante i lavori del convegno, è una grande scuola di vita per noi oggi. Lo scopo fondamentale del suo discorso non era tanto quello di una valutazione estetica dei vari autori analizzati, quanto piuttosto quello di spingere a ridire la fede oggi, in un contesto spesso umanamente frantumato che forse nessun altro come tanti artisti dell’epoca moderna hanno saputo evidenziare.

Oggi, in altre parole, proprio edotti anche dalla storia dell’arte, dall’antichità fino ai giorni nostri, non è più assolutamente possibile parlare di fede essenzialmente come affermazione dell’Altro, come un atteggiamento, come un semplice pensare o una semplice dottrina su Dio.

Vogliamo una conferma del fatto che spesso ci stiamo inavvertitamente allontanando dai contenuti della fede? La troviamo nei nostri progetti pastorali datati. Quante volte, infatti, ci sentiamo proporre, ad esempio, che questo è “l’anno della carità”, quello “l’anno della comunione”, quell’altro ancora “l’anno della giustizia”. Questo ci dice che «non abbiamo più neanche l’idea di cosa significa essere agganciati al contenuto, essere con Dio, vivere e respirare con Cristo». Se pensiamo di programmare in questo modo i nostri contenuti significa che «non capiamo più cosa sia la fede». La stessa cosa la si potrebbe dire anche nei confronti della formazione nei nostri seminari o nei nostri noviziati e nelle nostre case religiose, dove spesso «manca la visione dell’insieme della nostra fede». Sempre meno ci interessiamo dell’uomo concreto, della sua fede, della sua adesione o meno alla Chiesa, preoccupati come siamo di tutte le vie metodologiche che conducono alla fede, fino al punto da trasformare la nostra teologia in pura filologia.

«Siamo arrivati al capolinea, all’esaurimento, ad una fede semplicemente ridotta a morale, etica, dovere, psicologia, sociologia, che non nutre più, proprio perchè staccata dal contenuto». Quante volte si cerca di comprendere l’eucaristia solo studiandola sui testi invece di nutrirci del corpo eucaristico di Cristo. Così pure il battesimo non lo si può comprendere solo studiando il catechismo. Ci si dimentica che prima ancora si dovrebbe vivere l’esperienza non di una verità solo pensata, ma di una Chiesa che nel momento  in cui ti bagna con l’acqua ti apre alla fede in una persona vivente, il Cristo.

Come possiamo immaginare una Chiesa staccata dalle sue radici? Tutte le nostre scuole di preghiera se non ti immergono in profondità nell’esperienza di un Dio che ti ha salvato, a cosa servono? Convinciamoci, ha ripetuto Rupnik, che una fede priva del rapporto con una persona vivente, Cristo, diventa inevitabilmente  una fede solo pensata e immaginata, una illusione bella e buona, senza nessuna trasformazione, senza nessuno coinvolgimento e sconvolgimento insieme della propria esistenza.

Quanto vediamo certi quadri di espressionisti tedeschi in cui il colore del campo diventa anche il colore stesso dell’uomo, cosa possiamo e dobbiamo pensare? Una cosa soltanto, e cioè che vediamo l’uomo solo in quella prima materia con la quale è stato creato, lo vediamo solo nella sua dimensione psicosomatica, dimenticando tutto ciò che lo rende simile a Dio e per cui Dio lo ha voluto creare, dimenticando la ragione di fondo per quale il Figlio di Dio si è incarnato, e cioè per redimerlo dal peccato, per testimoniargli fino alla morte il suo amore.

 

IL PRINCIPIO ESTETICO

DELLA PASTORALE

 

Per Pavel Florenskij «la verità rivelata è l’amore realizzato nella bellezza».  La bellezza diventa così il punto più alto dove il bene e il vero prendono corpo. Cosa sarebbe il bene senza il vero? Una pericolosa illusione . La bellezza diventa allora «un mondo incarnato penetrato dall’amore che è verità». Solo a questi livelli  il vero e il bello coincidono e  la verità diventa amore. Per cui la bellezza non è altro che «un mondo penetrato dall’amore». Non basta diventare buoni, bisogna diventare belli: questo il senso della vita cristiana. È sulla base di questi presupposti che Rupnik ho cercato di chiarire il principio estetico della pastorale.

La costituzione dell’uomo coincide con la sua vocazione e la sua vocazione coincide la redenzione. Cristo è venuto a liberarci dalla morte. L’ambito in cui l’uomo vive la sua più vera identità è allora quello della liturgia, lo spazio e il luogo per eccellenza in cui l’uomo diventa bello e si compenetra dell’amore di Dio.

Se, come dice Bulgakov, l’unica fonte dell’amore è il Padre, che si rivela nel Cristo e nello Spirito Santo, allora l’amore non può non essere cristologico, cioè pasquale, ma insieme anche pneumatologico, in quanto è consolazione, festa, luce, trionfo sulla morte, godimento, felicità. Per quanto sia difficile comprendere esistenzialmente che la pasqua di Cristo è anche quella del cristiano, non esiste però nessuna estetica nel cristianesimo se non quella pasquale, quella del sacrificio e del trionfo sulla morte. Senza una adesione libera non ci può essere l’esperienza profonda della bellezza della propria appartenenza a Cristo.

Ecco perché bisogna partire da qui per comprendere anche il principio estetico dell’evangelizzazione. Quando il cristiano vive realmente da salvato, esercita inevitabilmente fascino e attrazione su chi gli è accanto. In questo senso si può dire che «il principio della bellezza salva il mondo».  Se la nostra vita

non  sprigiona gioia e bellezza, ma amarezza e insoddisfazione, non è il caso di fare tanti progetti per il futuro. Quando, una volta, san Giovanni Crisostomo si è trovato di fronte ad un numero inferiore di convertiti rispetto all’anno precedente, non si è appellato al male nel mondo o alla durezza di cuore dell’uomo, ma si è posto una semplicissima domanda: «come abbiamo vissuto?».

È facile accorgersi allora che per evangelizzare basta essere quello che si dovrebbe essere. E’ la vita stessa del cristiano che diventa un segno, che parla, che attira, che provoca domande. «La cosa più straordinaria di questo approccio, osserva Rupnik, sta nel fatto che non è mai costrittivo». Invece, quando si trasmette la propria fede in forma argomentativa e concettuale, allora si “costringe” l’altro a credere a quanto viene detto. La bellezza affascina, attira, non costringe mai.

Si può e si deve vivere questa dimensione della bellezza anche nella “normalità” della propria vita, creando un ambiente e uno stile da dove può trasparire la cultura della Pasqua. La bellezza è trasformante, anche nelle nostre case. E’ una delle più immediate forme di evangelizzazione che si può fare. Senza eccedere, ma anche il mangiare dovrebbe diventare una specie di liturgia. «In dodici anni al Centro Aletti abbiamo esperimentato che anche un tavolo bello è già una forma di evangelizzazione, perchè questo esprime quello che vogliamo dire ad una persona».

 

IL CORAGGIO

DI DIRE “BASTA”

 

La gente deve poter vedere.  La Parola, infatti, si è fatta immagine. L’annuncio anche di  una verità di fede non passa prima di tutto negli orecchi, ma attraverso gli occhi. La gente guarda. E cosa vede? Una chiesa bella, una casa bella, semplice, non lussuosa. La Scrittura ci insegna che dopo Gesù Cristo la chiesa, come edificio materiale, non ha nessun senso, essendo i cristiani diventi le pietre vive dell’unico santuario che è Cristo. Le chiese hanno allora un valore molto relativo e lo hanno solo se riescono a manifestare, ad annunciare la presenza salvifica di Cristo.

«La chiesa costruita con le nostre mani, ha commentato Rupnik, è esattamente la fotocopia della percezione di noi stessi come Chiesa». Ma qui però ci si dovrebbe interrogare a fondo. Quando preghiamo, di che cosa abbiamo bisogno? Ci serve solo un tetto sulla testa per quando piove? Bene, a questo scopo provvedono più che efficientemente tutte le nostre chiese fatte di cemento. Ma se abbiamo bisogno di una chiesa che sia prolungamento della liturgia, un ampliamento e un luogo di  visibilità del nostro sentirci Chiesa, allora non ci siamo più. Come è possibile percepirsi Chiesa, comunità di credenti nel Dio vivente, guardando e frequentando le chiese costruite, in Italia e non solo, in questi ultimi 40-50 anni? Troppi edifici cosiddetti “sacri” dicono una cosa sola: questo è il modo in cui l’Italia si sente Chiesa, questa è plasticamente la dimensione esatta della intensità della fede del popolo cristiano in Italia, in Europa, in America ecc.

Ma per cambiare clima, bisognerebbe incominciare a fare qualcosa, come ad esempio «infischiarsene totalmente di ciò che dicono tanti critici d’arte». Come posso pensare ad un prolungamento della liturgia sulle pareti dell’edificio quando davanti a noi vediamo solo pitture astratte, non figurative? Se il volto di Cristo, se la figura sacra – secondo quanto insegna tutta la tradizione della Chiesa - è forma e contenuto insieme della nostra fede, «come si può pregare davanti a un muro?». La vitalità di una chiesa è una cosa ben diversa dalla funzionalità di un garage. Che tipo di catechesi si pensa di poter trasmettere in questo modo a quanti vorrebbero avvicinarsi al cristianesimo? Solo con una serie di considerazioni puramente concettuali? Forse è giunto il tempo di avere il coraggio di pronunciare, almeno in molti casi, una sola parola: “basta”. Basta a chi ignora il postulalo fondamentale dell’arte cristiana, e cioè l’identificazione della forma artistica con la intensità della fede cristiana. Basta a chi ignora i presupposti teologici, spirituali, liturgici, ad esempio, di tutta l’arte cristiana bizantina o quelli di una cattedrale gotica. Basta a chi “presume” di salire in cattedra senza aver mai neanche lontanamente vissuto e capito la “bellezza” dell’uomo redento da Cristo.

Far trasparire la nostra vita, vivere e far vedere quello che siamo. È questa l’evangelizzazione. Solo nel momento in cui  qualcuno, vedendo come viviamo, si avvicina a noi, si instaura allora un rapporto, e nascono le premesse di una vera e propria evangelizzazione. Ma come mai, a volte, anche le persone apparentemente più interessate si accostano, si avvicinano e poi se ne vanno? Non potrebbe dipendere anche da una certa nostra malcelata “ansia di conversione”, a tutti i costi, di quanti si accostano a noi anche solo per vedere come viviamo e in che cosa crediamo realmente? Quante volte, di fronte a certe pur “sante” ma inopportune proposte, una persona normale non può fare altro che scappare. La porta d’ingresso della evangelizzazione è una sola, quella di un rapporto pienamente libero.

Un passaggio difficilissimo ma obbligato è quello di saper guardare le persone così come le vede Dio.

Sapersi rapportare all’altro senza mire possessive, senza speranze illusorie di riempire i vuoti delle nostre case religiose e dei nostri seminari, senza la nostalgia delle grandi assemblee che gremivano un tempo le nostre chiese, questo è il primo passo della evangelizzazione. Una verifica della bontà di questo primo approccio? La troviamo quando nascono domande e non definizioni. E di domande l’uomo d’oggi ne ha tante da porre al credente.

 

STIAMO BALLANDO

SUL PRECIPIZIO?

 

Può forse stupire l’insistenza con cui Rupnik mette in guardia dall’uso troppo disinvolto di tutte le nostre metodologie in campo pastorale. Ripetutamente non si è stancato di dire che tutti gli aiuti di carattere metodologico, psicologico, sociologico ecc. nel campo della pastorale sono utilissimi, fino a quando, però, sanno stare al loro posto. Nel momento in cui, viceversa, si ergono a deus ex machina nella formazione alla fede, ritenendola possibile senza un impatto diretto e personale con il contenuto fondamentale della fede stessa, e cioè la salvezza operata dal Cristo vivente, allora non ci siamo più.

Quella che potrebbe sembrare una sua personalissima convinzione, è invece il postulato fondamentale di tutta la tradizione teologica, liturgica, spirituale della Chiesa cattolica orientale. Le applicazioni anche molto critiche fatte al nostro contesto pastorale, dice Rupnik, sono invece del tutto personali, o meglio, sono il frutto di un riflessione andata maturandosi da più di dieci anni nel Centro Aletti di cui Rupnik stesso è il direttore.

È questa una premessa di fondamentale importanza per capire quanto è stato detto al convegno di Capiago. È una chiave di lettura che con la massima libertà consente a Rupnik di “dire la sua” su tanti altri problemi sui quali non è possibile in questa sede soffermarci più di tanto: dalla sua personalissima rilettura della storia dell’arte come un confessionale dell’uomo contemporaneo, alla risaputa difficoltà nel decollo del progetto culturale della Chiesa italiana, alla irrisolta questione delle radici cristiane nella costituzione europea, all’autocritica che dovremmo fare di fronte al calo inarrestabile delle vocazioni, ad una troppo superficiale promozione dei laici a semplici tappabuchi dei vuoti lasciati dal clero, alla fuga inevitabile dei giovani da tante nostre proposte di formazione cristiana, alla incompetenza professionale e culturale di tanta parte del mondo cattolico, alla carenza e alla crisi preoccupante di veri maestri e di guide nel campo della formazione spirituale, ad un rispettoso e corretto rapporto con chi ti confessa di non credere in Dio, alla formazione cristiana degli adulti che liberamente ti chiedono di essere aiutati ad incontrare il Cristo vivente, al rischio di una possibile banalizzazione del mistero in tante nostre “messe per bambini”, all’auspicio di vedere nelle nostre celebrazioni eucaristiche solo i bambini accompagnati da genitori convinti della propria fede, al suggerimento di provare ad aprire le scuole “cattoliche” a famiglie che siano realmente tali, non solo di nome ma anche, e liberamente, di fatto.

Sempre partendo da questa chiave di lettura, Rupnik ha accennato, in fase conclusiva del convegno, ad un altro problema molto serio, ad un nostro rapporto frequentemente molto naif  con il mondo dell’islam. Debitori come siamo di una lunga e spesso errata tradizione, tutta occidentale, di tolleranza, di pluralismo, di liberalismo, sia di destra che di sinistra, non ci siamo accorti di essere oggi incamminati lungo la strada del suicidio. Di fronte ad un islam sempre più forte nelle sue motivazioni e nelle sue rivendicazioni, il futuro dell’Europa in particolare non potrà non essere se non quello di un drammatico conflitto. Pensare di ammorbidire l’impatto conflittuale con l’islamismo mediante il nostro liberalismo e la nostra tolleranza, in cui non c’è, spesso, assolutamente nulla di cristiano ma solo un calcolo politico, è una pia illusione.

Ognuno si deve assumere le proprie responsabilità, sia quanti, a livello politico, non intendono riconoscere le radici cristiane dell’Europa, sia quanti, a livello di credenti, non hanno una piena consapevolezza della propria fede cristiana. Anche per troppi cristiani il Cristo vivente oggi non è nulla di più che la semplice memoria di una cosa lontana. Quanti cristiani non si sono mai chiesti cosa significhi e cosa comporti il fatto che Cristo è l’unico mediatore della salvezza di tutti gli uomini. Cristianesimo e islamismo sono due religioni forti. Ora, fino a quando il conflitto si mantiene su  un piano religioso, per quanto sofferto e doloroso, forse si può sempre sperare in un cambiamento, almeno fin dove è possibile, da ambedue le parti. Ma quando il problema si trasferisce su un piano politico, al di fuori di ogni prospettiva religiosa, allora non rimane altro che la guerra. «Stiamo ballando sul precipizio, ha concluso. Recuperiamo in fretta le nostre radici cristiane, se non vogliamo fare la fine del Medio Oriente».

 

Angelo Arrighini