VOCE DELLO SPIRITO
C’E UN ORGOGLIO VIRTUOSO
Brilla su tutti l’esempio di Gesù, che nella sua
passione e morte non si piega, subisce tutto e giganteggia sui suoi
persecutori.
Nel corrente linguaggio laico, il termine “orgoglio”
designa un aspetto positivo dell’uomo, del suo essere e del suo agire.
In tale linguaggio, essere orgoglioso equivale a
essere dignitoso e rispettoso di sé.
E’ chiaro che questo significato del termine può
entrare a pieno titolo anche in un lessico cristiano, e in particolare nel
comandamento dell’amore reciproco, che comprende, ovviamente, anche l’amore per
se stessi.
L’orgoglio, nel senso precisato, è una vera e propria
virtù.
I suoi sinonimi sono: giusta e misurata consapevolezza
di sé, della propria identità, dignitosa tutela del proprio buon nome, del
proprio onore.
Come è circolare l’amore, nel comandamento di Cristo,
così deve avere una sua circolarità anche il rispetto: lo dobbiamo agli altri,
gli altri lo devono a noi, noi lo dobbiamo a noi stessi.
In determinate circostanze, l’orgoglio virtuoso ci
aiuta a osservare meglio il primo comandamento. A non avere altri dèi oltre
l’unico vero Dio.
I martiri fecero – e continuano a fare – della ferma e
forte obbedienza alla propria coscienza il motivo di obiezione alle
prevaricazioni del potere.
Paradossalmente, l’orgoglio-virtù si oppone in questo
caso, al vizio capitale della superbia, alle sue pretese arroganti e
distruttive dell’uomo.
Ha oltretutto, questa virtù, il merito di sostenere il
valore dell’umiltà, quando questa, smarrendo il senso della misura, rischia di
cadere nella pusillanimità, nella meschinità o addirittura nell’abiezione.
Si pensi – l’esempio è alquanto ardito –
all’ammirazione di Dante nei confronti di Farinata degli Uberti, il dannato
che, pur tra le fiamme, si erge e si guarda intorno «come avesse lo inferno in
gran dispetto» (Inf. X, 36).
Si pensi alla fierezza dei testimoni della fede e a
quella del Cristo specialmente di fronte ai suoi giudici: Anna, Caifa, Pilato,
Erode.
Davanti alle autorità – insegnava un indimenticato
vescovo bresciano - «stare in piedi» e cioè né rozzamente seduti, né
ipocritamente proni. La piaggeria del cortigiano non è un ideale per nessuno.
Ed ecco allora l’orgoglioso vero: con la sua modesta
fierezza e dignità, non molle, non plagiabile, non facilmente intruppatile…
Però anche duttile, capace di ascoltare, di fare autocritica, di ricredersi, di
riconoscere la verità autentica alle sue tesi iniziali.
Di tutto questo, l’esempio più alto lo troviamo, come
sempre, in Gesù.
Vediamolo nella sua passione e morte. Deriso,
sputacchiato e crudelmente colpito, non si piega, non supplica, non invoca
pietà… Subisce tutto con indomita dignità, giganteggiando su tutti i suoi
persecutori.
Dopo di lui e sul suo esempio, anche l’apostolo Paolo
dà grandi esempi di fortezza d’animo. A Filippi, la folla gli è contro,
infuriata. I magistrati, cercando di placarla, lo fanno vergheggiare e lo
cacciano in prigione. Essendosi però Paolo dichiarato cittadino romano, essi, i
frettolosi magistrati, si spaventano e danno disposizioni per una sua
liberazione alla chetichella. Ma Paolo non ci sta. No davvero! Vengano essi,
prima, a chiedermi scusa! (cf At 16,11-40).
Il cristianesimo, si sa, nasce da una forte presa di
posizione nei confronti dell’Impero: Cesare non è Dio!
Da qui i martiri che nel corso dei secoli si
moltiplicano, testimoniando con una morte gloriosa l’imperativo della loro
coscienza davanti a Dio.
Fra i tanti, appare singolare il martirio di san
Tommaso Moro, il cancelliere di Enrico VIII. Rifiutando il giuramento all’atto
di supremazia impostogli dal papa inglese («Sono un buon servitore del re, ma
prima di Dio!»), sale con estrema dignità il patibolo, rivolgendo al boia
un’ultima sapida battuta di spirito: «La barba, almeno, non è colpevole: cerca
di risparmiarla!».
Orgoglio giusto è quello che sa dire «io» in modo
giusto.
Studiosi come il filosofo A. Carlini mettono in luce
il ruolo decisivo del cristianesimo nel far esistere la persona umana,
nell’insegnare all’uomo la parola «io».
Parola e realtà personale che continuano a esistere
nel «noi», in una comunione quasi trinitaria, nella quale l’unità valorizza la
distinzione dei membri ed è a sua volta valorizzata.
Giulio Cittadini
da Sull’umiltà,
Morcelliana 2003.