COME
RISOLVERE BENE LE CRISI (9)
CRISI AFFETTIVA GRAZIA O DEBOLEZZA?
Non si può ridurre la crisi a un fatto solo
morale-comportamentale. È prima ancora un modo d’intendere la vita e la propria
consacrazione, più o meno realista. La risolve bene non solo chi tiene duro e
resiste alla tentazione, ma chi attraverso di essa cresce nella comprensione
della sua identità e sceglie d’esserle fedele.
La
vita è fatta di crisi, anche quella di chi si consacra al Signore nella
verginità. Crisi come coscienza d’una non corrispondenza tra io ideale e io
attuale, (o tra la propria identità e le provocazioni della realtà), e come
scarto che chiede una scelta o conversione, per un nuovo equilibrio di rapporti
tra l’ideale e la condotta di vita.
Così intesa la crisi
è componente normale e positiva d’un processo di formazione
permanente (o addirittura dell’idea di identità), come due elementi
strettamente connessi tra loro. Da un lato è proprio la consapevolezza dello
scarto tra ideale e realtà che rende la vita cammino costante formativo;
mentre, dall’altro, è solo chi prende sul serio tale cammino che potrà
avvertire lo scarto stesso.
TIPOLOGIA
DELLE CRISI
Vi sono persone che non
vanno mai in crisi, quasi imperturbabili e sempre soddisfatte di sé; come
quei (finti) celibi che vivono con olimpica tranquillità situazioni
personali-relazionali scabrose; o che non avvertono mai alcun senso di colpa,
né si sentono provocati a cambiar nulla nel loro vissuto, poiché per loro va
sempre tutto bene, sono gli altri che pensano male. Costoro farebbero bene a
farselo venire qualche senso di colpa e a lasciarsi entrare un po’ in crisi
ogni tanto.
Oppure c’è il
consacrato/a che non conosce alcuna crisi affettiva perché ha rimosso
affettività e sessualità (“le avevo messe in frigo”, disse uno di questi,
una volta aperti gli occhi), poiché in realtà teme entrambe o non sa come
gestirle; e finisce per vivere una vita piatta e relazioni senz’alcun
coinvolgimento interiore, divenendo freddo e senza cuore. Anche per questi la
crisi sarebbe benefica, magari una bella cotta.
O, al contrario, c’è
il tipo in crisi stabile, che non ne viene mai fuori, o perché troppo
ripiegato su di sé, un po’ perfezionista e un po’ scrupoloso; o perché vede sì
il contrasto dentro di sé, ma non si decide mai a cambiare e continua a vivere
nel compromesso. Un personaggio così va provocato a viver la crisi in modo
coerente, per saltarne fuori e non subirla.
Ma vi sono anche
consacrati poco attenti, come le vergini stolte che s’accorgono d’esser in
crisi solo quando questa esplode e loro non han più la forza di gestirla. A
costoro si dovrebbe insegnare a prevenire le crisi o a riconoscerle
quando sono allo stadio iniziale.
O, infine, c’è il
consacrato che s’innamora e pensa per questo di avere sbagliato tutto e dover
cambiare tutto. Oppure è così piacevole e inedita l’esperienza che sta vivendo
(“ho scoperto l’amore”, mi disse radioso un giovanissimo prete innamoratissimo
d’una donna) che non ne vuol più sapere di voti e dintorni, e non c’è verso di
farlo ragionare. è la storia di
molte crisi precoci di (ex)giovani consacrati (precoci pure nella “soluzione”
della crisi).
Insomma, c’è crisi e
crisi.
VIVERE
LA CRISI
Non si può ridurre la
crisi a un fatto solo morale-comportamentale. È prima ancora un modo
d’intendere la vita e la propria consacrazione, più o meno realista. La risolve
bene non solo chi tien duro e resiste alla tentazione, ma chi attraverso essa
cresce nella comprensione della sua identità e sceglie d’esserle fedele.
L’alternativa,
allora, è tra modalità autentica e non autentica di viver la crisi.
La crisi diventa
momento di grazia quando è gestita con questi atteggiamenti.
Sincerità
Il vergine è sincero
quando s’accorge di quel che il proprio cuore sta vivendo, e ha il coraggio di
dirsi, ad es., che prova un certo sentimento per una certa persona, la quale è
un po’ troppo spesso nei suoi pensieri e desideri, e dalla quale si sente messo
al centro delle attenzioni, mentre lui è così lucido da ammettere che la cosa
gli piace e l’attira, lo fa sentir vivo e importante per qualcuno… Non è un
peccato provare questo, ma è da persona intelligente dirselo senza tanti
raggiri. Anche perché è più semplice esser sinceri che non cercare in mille
modi di nascondersi a se stessi.
Come fece Thomas
Merton quando, al vertice della sua fama come scrittore di vita spirituale e
non più giovane, s’innamorò profondamente dell’infermiera che lo curava. Con
sofferta sincerità scrisse nel suo diario che lui, il “monaco”, il
contemplativo solitario dell’Assoluto, si sentiva «tormentato dalla graduale
consapevolezza che ci amavamo e non sapevo come avrei potuto vivere senza di
lei»[1].
Esser sinceri dinanzi
a sé e a Dio è il primo passo per leggere la crisi nel mistero e lasciare che
il suo sguardo si posi su di essa.
Sensibilità morale
È realista colui che
tiene ben puntati i suoi radar e
conserva una sensibilità attenta e gelosa dei suoi valori, fino al punto di
provare il dolore d’averli eventualmente disattesi, poiché in essi è nascosta
la realtà del suo io. C’è un senso di colpa che è assolutamente sano e
costruttivo, sapiente e realista; così come c’è una sensibilità morale che può
essere inibita e sviata da abitudini lentamente apprese non coerenti coi propri
valori e dunque fuori della realtà. Ognuno ha la sensibilità che si merita e
che si è lentamente formata.
Atteggiamento costruttivo
La persona matura non
è chi non ha crisi ma chi le attraversa fino in fondo e sfrutta per crescere e
non deprimersi, per costruire e non per distruggere quanto ha realizzato fino a
quel momento, per purificare la motivazione iniziale e non per reinterpretare
tutto in dietrologie senza senso (come il tipo che lascia perché ha scoperto
che all’inizio della sua vocazione c’è stato l’influsso materno).
Ha l’olio della
sapienza nella lampada il vergine che si serve della crisi per conoscersi
meglio nella propria realtà, negli angoli più reconditi e nei suoi aspetti meno
positivi, magari inediti. Quando il cuore soffre, lì viene fuori ciò che in
condizioni normali resta nascosto, si manifesta cosa c’è al centro della vita e
s’abbandonano sogni e illusioni. Una cotta è come un terremoto che cambia la
geografia intrapsichica dell’innamorato; di fatto per molti è l’esperienza più
rivelatrice della propria vita.
Dalla sincerità alla verità
Ma non basta la
sincerità. Nelle crisi occorre andare oltre la sensazione soggettiva, al di là
di quel che si prova, e chiedersi da dove viene tutto ciò, cosa sta a dire del
proprio cammino di maturazione, come mai s’è arrivati a quel punto o cosa in
realtà si sta desiderando, al di là dell’amore sognato, spesso idealizzato, e
oltre il prurito, sovente adolescenziale, della gratificazione dei sensi.
Il massimo realismo
della vita è passare dalla sincerità alla verità, come un pellegrinaggio
alle fonti dell’io, che potrebbe svelare aspetti sorprendenti e dare una svolta
alla crisi. Merton, ad es., mostrò tale coraggio quando con grande trasparenza
introspettiva giunse a scoprire che ciò che cercava forse non era la sua amata,
ma una soluzione al vuoto del suo cuore. Lei era «la persona il cui nome
tentavo di usare come qualcosa di magico per spezzare la presa della tremenda
solitudine del mio cuore»[1].
Spesso è proprio così
nell’innamoramento del vergine, che cerca l’altra soprattutto per non star solo
con se stesso. Chi ha il coraggio d’ammetterlo comprende che anzitutto non ha
il diritto di “usare” nessuno per i propri problemi, e forse comincerebbe a
vivere la solitudine in modo diverso, non più come uno spauracchio da tener il
più lontano possibile ma – al contrario – come luogo vitale, quello ove
affondano le proprie radici e ove emerge la più profonda verità su noi stessi: noi
non siamo mai soli, poiché nel punto più profondo del nostro essere c’è
Dio, l’innamorato dell’uomo.
Dallo psichico allo spirituale
Infine, la crisi è
vissuta bene quando non è solo un incidente psicologico pur con conseguenze
nella vita spirituale, ma quando è interpretata dinanzi a Dio, alla luce di
queste domande: cosa mi sta dicendo Dio attraverso questa prova,
che mi sta dando e chiedendo, dov’è
il Signore in tutto ciò?
Nella risposta a
queste domande sta la realtà e il vero senso della crisi. Poiché il
protagonista resta lui, l’Eterno, che può servirsi anche d’un momento di
debolezza e smarrimento per rivelarsi in modo inedito o per scuotere e attirare
nuovamente a sé. In fondo il Creatore ha sempre cercato la creatura attraverso
la prova, e così continuerà a fare con chi saprà cogliere nella prova del cuore
una mediazione tra le più efficaci del divino.
Come successe ancora
a Merton, per il quale l’esperienza d’innamoramento significò alla fine “una
liberazione interiore che gli diede un nuovo senso di certezza, fiducia,
sicurezza nella sua vocazione e nel profondo di sé”[1].
L’altra possibilità è
quella d’una crisi affettiva infruttuosa. Non pretendo descriverne le varie e
molte forme, ma solo indicarne quelli che di solito sono i passaggi salienti.
Piccole e veniali gratificazioni
All’inizio la persona
avverte dentro di sé una vaga situazione di disagio, che la porta a soffrire in
modo particolare la solitudine o l’assenza d’un contatto, psicologico o
fors’anche fisico. Tale disagio rende già l’individuo particolarmente sensibile
a chi sembra offrirgli attenzione e interesse, e altrettanto bisognoso di
gratificazioni e concessioni di natura affettiva che cercherà di procurarsi, ma
del tutto veniali e moralmente irrilevanti in questa fase. Ciò lo rassicura e
gli consente di continuare a evitare la solitudine con sé e con Dio, senza
sentirsi in colpa, ma anche senza lasciarsi arricchire da essa. L’attenzione è
comunque abbastanza vigile.
Vulnerabilità e ambiguità
L’aspetto morale sarà
anche salvo, ma sul versante psicologico ne soffre la consistenza dell’individuo:
la concessione affettiva, per quanto leggera, se non è del tutto in linea con
le scelte di fondo del soggetto ed è ripetuta, ne incrina la stabilità, ne
indebolisce lentamente le convinzioni, inizia a sviarne la sensibilità e
deformarne persino il giudizio morale, sempre più benevolo verso quelle
concessioni. Ovvero un misto di vulnerabilità della persona e della sua scelta,
e d’ambiguità della condotta e del giudizio morale. In certo senso il criterio
psicologico è qui più severo di quello morale.
Abitudine e attrazione deviata
Nella misura in cui
queste leggere concessioni diventano abituali, la gratificazione affettiva si
converte in stile di vita, ha sempre meno bisogno d’uno stimolo cosciente e
tende sempre più a imporsi. Che significa: minore libertà di farne a meno,
rinuncia che si fa critica, poca consapevolezza di quel che accade nel cuore, e
sempre maggior familiarità con la gratificazione stessa o con lo stile
gratificatorio di vita, sempre più ambiguo e giustificato dal soggetto.
Mentre, in parallelo,
diminuisce la familiarità coi valori dello spirito, subentra una certa
freddezza nel rapporto con Dio e la sensibilità vive altre attrazioni e
interessi. Il vergine, in concreto, sarà sempre più sensibile a chi gli sembra
assicurargli una certa gratificazione. Non sarà poi così difficile, a questo
punto, che s’innamori o che diventi terreno facile di conquista sentimentale.
Automatismo
Piano piano, e sempre
se non vi sono interventi intelligenti e provocazioni a cambiare, le
gratificazioni e concessioni affettive diventano automatiche, scattano
da sole, non solo non hanno bisogno dello stimolo cosciente della persona, ma
ne anticipano e prevengono consapevolezza e decisioni. Automatismo significa
attrazione che s’impone e trascina (“è più forte di me”); il soggetto non sarà
più libero, ma perderà anche sempre più la capacità (o libertà) di godere
della stessa gratificazione cui s’è assuefatto (più uno fa quel che gli piace,
infatti, meno gli piace quel che fa).
Di conseguenza la
gratificazione di prima (leggera e moralmente irrilevante) non basterà più,
dovrà aumentare la dose, al punto da provocare una ricerca di gratificazioni
che potranno anche esser moralmente rilevanti. Ma l’individuo non se
n’accorgerà, o la sua coscienza giustificherà tutto. Lo stesso meccanismo che
rende il bisogno sempre più esigente e la persona sempre meno libera di godere
della gratificazione, “oscurerà” sempre più anche la coscienza, rendendo
anch’essa sempre meno libera. Evidentemente con uso abbondante di meccanismi
difensivi autogiustificativi.
Dipendenza affettiva cronica (e critica)
Il processo descritto
sfugge ormai sempre più all’individuo e rende incontrollabile il bisogno che
preme sempre più. Al punto che diventa motivazione costante ad agire, cioè si piazza
al centro della vita e da lì comanda le operazioni, non è più solo radice di
alcuni comportamenti che cercano affetto, ma diviene il motivo nascosto d’ogni
azione e relazione, è come fosse presente in ogni istante della vita. È a
questo punto che la persona diviene dipendente affettiva, come vivesse in
funzione del bisogno d’affetto, con scarsa capacità di rinuncia di fronte a
provocazioni di natura sessuale-genitale.
E ancor meno libertà
di lasciarsi guidare per vivere in maniera fruttuosa questa situazione critica.
Amedeo