DOPO I RECENTI
MASSACRI IN BURUNDI
QUANDO SARÀ LA PACE?
Gli ultimi avvenimenti in Burundi mostrano che la pace
è ancora lontana. Ma la situazione continua a essere ingarbugliata in tutta la
regione dei Grandi Laghi. Troppi i responsabili e troppi gli interessi in
gioco. Solo una pacificazione di tutta questa grande area la renderà possibile.
Ci
è voluto, ancora una volta, uno di quei massacri che non si possono ignorare,
perché ci si scuotesse e ci si interrogasse sull'attuale momento dell'Africa.
Dopo il Darfur e il suo disastro umanitario, ecco un'ennesima catastrofe in
Burundi venuta a scuotere il mondo italiano e occidentale intontito dal sole e
dagli ozi ferragostani di quest'anno.
È
successo nella notte tra il 13 e il 14 agosto: 159 persone – 162 secondo altre
fonti – in massima parte anziani, donne e bambini, sono state massacrate in un
campo profughi di Gatumba, alle porte di Bujumbura, la capitale del Burundi. I
feriti rimasti sul campo sono più di 120. L'attacco è stato subito rivendicato
dal gruppo ribelle hutu FNL (Front national de libération), l'ultimo
gruppo di ribelli al governo di Bujumbura che non ha ancora deposto le armi e
accettato di sedere ai tavoli del negoziato.
I RESPONSABILI
SONO TROPPI
Il campo di Gatumba
era gestito dall'alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati
(ACNUR). La struttura ospitava dalle 2500 alle 3000 persone, in mezzo alle
quali c'era un gruppo di rifugiati tutsi di nazionalità congolese, i banyamulenge.
Il presidente del Burundi, Domitien Ndayizeye, secondo il Corriere della
Sera del 15 agosto 2004, ha subito denunciato il massacro attribuendolo
alle forze della Repubblica Democratica del Congo (RDC): «Il nostro paese è stato attaccato, il nostro
confine è stato violato da elementi della Repubblica Democratica del Congo
venuti per massacrare civili congolesi che
avevano chiesto asilo». E ha proseguito: «Dobbiamo adottare le misure necessarie a garantire che sia fatta
giustizia e che chi ha commesso questo crimine venga punito».
Secondo l'agenzia
MISNA, l'ACNUR aveva organizzato il trasferimento di un gruppo di profughi
Banyamulenge dalla zona di Ruyigi, nella parte centro-orientale del Burundi, al
campo di Cibitoke, nella parte nord-occidentale del paese, ma per motivi
organizzativi i civili sarebbero stati temporaneamente alloggiati nel campo di
Gatumba. I profughi uccisi erano tutti dei banyamulenge, tutsi congolesi, fuggiti a causa delle violenze
nella zona orientale del Congo, dopo gli ultimi scontri del mese di giugno.
Secondo testimoni, l'attacco, compiuto con machete e armi da fuoco, era
stato preceduto da un volantinaggio del campo che minacciava di morte i banyamulenge. Secondo questa seconda
attribuzione i responsabili sarebbero le forze del FNL di Agathon Rwasa che
avrebbe fatto questo per bloccare le forze di sicurezza burundesi e infliggere
loro una chiara e pubblica sconfitta. Ad esse forse si sono uniti elementi
delle milizie mai-mai del Congo.
È quanto ha affermato
il portavoce dell'esercito burundese, Adolphe Manirakiza, che ha esplicitamente
parlato di genocidio: «Siamo di fronte a un piano per il
genocidio dei tutsi della regione dei Grandi Laghi. L'FNL si è alleato con la
milizia mai-mai per colpire questo
campo». L'FNL è l'unico gruppo armato
che si è rifiutato di far parte del governo che ha posto fine alla decennale
guerra civile tra la minoranza tutsi e la maggioranza hutu in Burundi e sarebbe
aiutato da forze ribelli rwandesi (ex-Interahamwe
e ex-FAR, ossia il vecchio esercito rwandese di Habyarimana). Ma questi hanno
subito «condannato senza esitazione questi atti di barbarie di cui sono stati
vittime i rifugiati banyamulenge» e si sono associati al lutto di tutti. Queste
forze del Rwanda di Habyarimana rimproverano al vicepresidente congolese,
Azarias Ruberwa (di tendenza filorwandese), di aver chiesto all'ONU di
disarmare i ribelli rwandesi che ancora sono in giro per la regione. Così anche
il Rwanda è stato chiamato in causa. Per questa ragione Rwanda e Burundi hanno
minacciato di intervenire insieme in Congo «per far rispettare le nostre
frontiere», come è stato riportato dall'agenzia France Presse del 17
agosto 2004. Volontà di garantire la propria sicurezza o qualcosa d'altro?
CHE COSA
SI DEVE CONCLUDERE?
Come si vede i
giudizi sono abbastanza disparati e probabilmente non si riuscirà mai a
stabilire chi siano i veri responsabili del massacro. Quello che dobbiamo
constatare è che la pace non è ancora alle porte, come certi sembrano
ottimisticamente affermare. Malgrado il Burundi sia ormai arrivato alla vigilia
delle elezioni, decise dagli accordi di Arusha del 2000, è difficile pensare
che esse portino la pace. È vero che nei recenti incontri di agosto a Pretoria
si è faticosamente raggiunta un'intesa sul progetto di una costituzione
nazionale che taglia finalmente il nodo della rappresentanza futura delle due
etnie principali tutsi e hutu sulla base del
40 e del 60 %. In sostanza questo accordo, pur non ancora sottoscritto
dai partiti di origine tutsi, è ormai una base da cui può partire un negoziato
finale che prepari le elezioni e ristabilisca una forma democratica nella quale
si possano sentire sicuri anche i tutsi i quali finiscono per avere una quota
di potere che è superiore alla loro effettiva consistenza numerica.
Ma è chiaro che non
basta questo a risolvere i problemi. Le elezioni sono, infatti, da tutti temute
come il momento di verità e come un'occasione per far scoppiare di nuovo le
tensioni e le paure del passato. La memoria delle elezioni del 1993, che hanno
scatenato la furia omicida in entrambi i campi, non è affatto spenta. E allora
per varie ragioni ci sono delle persone che fanno di tutto per scongiurare le
elezioni, chi per salvare il potere, chi per toglierlo a chi ce l'ha e tutti
per mantenere, in questo delicatissimo momento, lo status quo.
Ma più il tempo
passa e più ci si rende conto che la pace in Burundi non ha e non potrà avere
una soluzione militare, ma solo politica. E' ora di deporre le armi, da
qualsiasi parte esse si trovino, e di cercare invece la pace attraverso il
negoziato e il dialogo.
Gli ultimi fatti,
comunque, ci rivelano una verità che per sé è lapalissiana, ma sulla quale
sempre si glissa più o meno consapevolmente. In questo conflitto del Burundi e
nella conseguente transizione, come del resto in quella della Repubblica
Democratica del Congo, sono implicati, a vario titolo e a vari livelli,
parecchi soggetti politici, non solo burundesi. Per questo motivo possiamo
tranquillamente affermare che la pace in Burundi non sarà raggiunta e non sarà
reale e duratura, se non si inquadra in un processo di generale pacificazione
della regione dei Grandi Laghi. Infatti il contesto di guerra, che fa da
contorno al conflitto del Burundi, non permette di essere ottimisti circa la
conclusione della guerra.
Il Rwanda non è
ancora in pace, malgrado Kigali si sforzi di offrire una facciata pacifica a
chi visita quel paese. A partire dalla paura del genocidio e allegando i
pericoli che la pace corre a causa dei suoi cittadini fuoriusciti (gli Interahamwe
e gli ex FAR), il Rwanda di Kagame continua a mettere le mani e ad attizzare il fuoco nel vicino Congo.
Tutti comprendono che si tratta di pretesti per continuare ad esercitare il
predominio politico nella regione del Kivu e trarre, nel contempo, profitto dalle immense ricchezze minerarie
della stessa regione, saccheggiate come bottino di guerra. Non si spiega
altrimenti come in questi anni il Rwanda, che mai ne è stato produttore, sia
diventato entro del commercio dei diamanti e di minerali preziosi.
Neppure il Congo, il
grande vicino del Burundi, malgrado i trattati di Pretoria del 17 aprile 2002,
ha ancora trovato la pace. Esso è ancora in una situazione precaria che ogni
tanto scoppia in conflitti, e c'è più di una ragione per credere questa situazione
sia mantenuta tale da chi ha interesse a pescare nel torbido. Di tali
turbolenze non è unico responsabile il Rwanda: altri poteri finanziari e
politici, più o meno occulti, traggono vantaggi dalla situazione incerta e
precaria della politica nella RDC. Le contrapposizioni di gruppi di potere e di
pressione che ancora si contendono il potere, malgrado gli accordi sottoscritti
a Pretoria, non permettono una conclusione della transizione e rendono
complessa ogni soluzione dei problemi. Dopo la lunga dittatura di Mobutu e le
due guerre degli anni '90, il Congo è ancora scosso dalla violenza. La
transizione verso la democrazia ha prodotto stagioni di contrapposizioni
personali e scontri etnici e sociali, stagioni da cui il Congo non è ancora
uscito del tutto e che puntualmente si ripropongono. Lo abbiamo visto nella
recente crisi del sud Kivu alla fine dei maggio e in giugno in cui i
protagonisti si richiamavano ai banyamulenge e ai loro problemi e si
appoggiavano al Rwanda, che per altro negava ogni responsabilità.
Questo insieme di
fattori porta la classe politica del Burundi a seguire attentamente e da vicino
l'evoluzione della situazione in Congo, anche perché l'esercito burundese è
stato coinvolto, anche se non in modo ufficiale e riconosciuto, nella guerra
della RDC insieme con il Rwanda.
Tutto ciò porta gli
osservatori a suggerire di cercare la soluzione alla guerra del Burundi nel
contesto globale della regione dei Grandi Laghi. Non basta che l'ONU mandi
delle truppe o che l'Unione Europea invii degli aiuti umanitari, che rischiano
di non essere efficaci e di essere usati, le une e gli altri, per fini che non
sono quelli umanitari. I problemi del Burundi e del Congo devono essere
affrontati sul piano politico e diplomatico a livello dell'intera regione. Fare
altrimenti è mettere il carro davanti ai buoi.
L'ONU ha preso
l'iniziativa di convocare una conferenza internazionale sui problemi della
regione dei Grandi Laghi per la fine dell'anno. Meglio tardi che mai. Intanto
possiamo fare il calcolo delle tragiche conseguenze di questa situazione
lasciata incancrenire per troppi anni: più di due milioni di morti in Congo,
più di trecento mila morti uccisi in Burundi, folle di profughi all'interno e
altrettante di rifugiati all'estero con tutte le sequele di malattie,
infezioni, tipo AIDS, ormai fuori controllo, debilitazione della popolazione,
analfabetismo crescente e povertà che compromettono per il futuro il capitale
umano non solo del Burundi, ma dell'intera regione dei Grandi Laghi. Era
proprio necessario sacrificare prima tante vite umane per poi mettersi al
tavolo delle trattative?
È UN PROBLEMA
CHE RIGUARDA TUTTI
Infine, tutto questo
insieme di problemi potrebbe sembrare un affare interno del continente africano
che ormai è considerato da tutti un continente alla deriva, un luogo di preda
in cui, chi può, va a rubare nella più totale impunità tutto quello che può,
perché la sindrome colonialista non ha ancora abbandonato le nostre terre
occidentali. Ma se riflettiamo bene, anche alla luce degli sbarchi continui di
immigranti che vengono dall'Africa, non possiamo credere che si tratti di un
affare interno africano. La nostra eventuale disattenzione si potrebbe
trasformare in un boomerag che ci ricade addosso. La crisi africana
attaccherà l'Europa e la condizionerà pesantemente. Allora saremo costretti a
renderci conto che l'Africa con il suo sviluppo, oggi ritardato, ma
inderogabile, rientra necessariamente tra le responsabilità, se non del
mondo intero, quanto meno dei paesi europei. La solidarietà, non assunta per
una scelta umana e cristiana (non è forse un dovere cristiano di giustizia e di
carità aiutare questi esseri umani che sono fratelli e sorelle nostri?), ci
cadrà addosso come un imperativo di necessità politica.
La tragedia dei
Grandi Laghi è un paradigma di quello che sta succedendo ovunque in Africa. Per
questo l'Europa deve cercare di aiutare l'Africa anzitutto a riconciliarsi al
suo interno. Deve anche affrontare il problema dello sviluppo autentico e della
crescita di questo continente. Se questo non avverrà, il flusso migratorio di
gente che dall'Africa viene in Europa a cercare libertà, lavoro e pane, sarà
sempre più forte e sempre più difficile sarà trovare delle soluzioni a breve e
a lunga scadenza. Dimenticare l'Africa oggi, significa compromettere l'Europa
di domani. E' questo che vogliamo?
Gabriele Ferrari s.x.