CLELIA BARBIERI LA
SANTA DELLE BUDRIE
IL SUO CUORE
BRUCIAVA D’AMORE
Ha vissuto appena 23 anni. Di suo abbiamo solo uno
scritto: una lettera al suo “caro Sposo Gesù” che ha portato sempre piegata sul
cuore a sigillo del suo amore sponsale, in cui chiede a Gesù: «Fate che io bruci
di amore». Dalla sua esperienza ha avuto origine l’istituto delle Minime
dell’Addolorata.
Bisogna
venire a Le Budrie il 13 luglio di ogni anno per toccare con mano quanto santa
Clelia Barbieri sia amata e venerata. In questo giorno che ricorda la sua nascita
al cielo la gente fin da primo mattino vi giunge prima alla spicciolata, poi
sempre più numerosa fino a diventare migliaia per la celebrazione eucaristica
della sera, dopo il tramonto del sole, a cui partecipano in media anche circa
un centinaio di sacerdoti.
Alle Budrie, un
piccolo centro agricolo, nel comune di San Giovanni in Persiceto, a poco più di
una decina di chilometri da Bologna, dove lei è nata, è vissuta ed è morta a
soli 23 anni, tutto parla di lei. Qui c’è la chiesa parrocchiale dove è stata
battezzata, dove ha ricevuto la prima comunione, dove ha imparato ad amare
intensamente Gesù nell’eucaristia; c’è l’oratorio S. Giuseppe dove era solita
fare catechismo e dove ora è custodita l’artistica urna contenente i suoi resti
mortali, luogo preferito dei pellegrini che qui amano sostare in silenziosa
preghiera; qui c’è ancora l’edificio, la cosiddetta “casa del maestro”, dove
diede inizio alla sua esperienza di vita comune, assieme ad alcune compagne, e
la cameretta dove è morta, ora trasformata in cappella, e tanti altri suoi
ricordi.
«Una creatura umile,
fragile, priva di ricchezze materiali e di cultura, ma ricca della sapienza che
i semplici attingono nella preghiera alle sorgenti della Parola rivelata»: così
l’ha definita Giovanni Paolo II iscrivendola nell’albo dei santi il 9 aprile
1989. È la più giovane fondatrice nella storia della Chiesa, da cui hanno avuto
origine le suore Minime dell’Addolorata.
“MAMMA
POSSO FARMI SANTA?”
Per alcuni decenni,
dopo la morte, la figura di Clelia era rimasta come avvolta nell’ombra. A
scoprirla fu il cardinale Giorgio Gusmini, arcivescovo di Bologna dal 1914 al
1921, che divenne anche il suo primo biografo, aiutato in questo da una breve
memoria che sr. Imelde Beccattini aveva steso verso il 1908. Egli rimase
talmente affascinato dalla figura di Clelia da esclamare davanti alle suore:
«Non sapete che la vostra fondatrice è una santa?».
Ma a metterla in
piena luce fu soprattutto Paolo VI, che il 27 ottobre 1968, la innalzò alla
gloria degli altari proclamandola beata. Oggi il suo nome è conosciuto in tante
parti del mondo come testimoniano le continue lettere che giungono dappertutto
per chiedere una reliquia, un opuscolo, una immaginetta o anche una semplice
preghiera. Numerose sono le grazie attribuite alla sua intercessione come si
può costatare anche dalle brevi testimonianze nell’album dei pellegrini.
Clelia era nata il 13
febbraio 1847 in una famiglia molto povera, di braccianti, categoria che a quel
tempo si collocava nel gradino più basso della scala sociale. Ma era una
povertà dignitosa, dove non mancava il necessario, anche se il pane che il papà
Giuseppe guadagnava e la mamma Giacinta Nanetti poneva amorosamente sulla mensa
era impastato di sudori, di duri sacrifici e spesso anche di sofferenza. Alla
povertà materiale faceva tuttavia da contrappeso una fede semplice e sincera,
quella caratteristica della gente di campagna, che dava all’esistenza
quotidiana quel senso di serenità che il progresso attuale ha purtroppo
cancellato.
È in questo clima che
cominciò a plasmarsi l’animo delicato di Clelia,. Un giorno, nella sua
innocente semplicità chiese alla mamma Giacinta: «Mamma, come posso farmi
santa?».
Quanto fosse sincera
quella domanda lo possiamo costatare dall’esperienza mistica fatta da Clelia il
giorno della prima comunione, all’età di 11 anni. Quell’evento fu vissuto da
lei con un fervore e una fede quali raramente si trovano in una bambina della
sua età. Suor Imelde Beccattini nel suo libretto di memorie scrive. «La sera
prima del giorno solenne come aveva suggerito il parroco, con grande umiltà con
le lagrime agli occhi, s’inginocchiò davanti alla propria madre chiedendole
perdono e, promettendole di voler sempre obbedire, implorò la sua benedizione».
Il giorno seguente, «nel ricevere il divin Sacramento si sentì nascere il
desiderio di farsi santa e concepì una viva brama di far del bene alle
fanciulle, perché esse per tempo cominciassero a menare una vita cara a Gesù».
Tornando a casa, «si sentì improvvisamente penetrata di un dolore così grande
delle piccole colpe commesse, di cui si era già ben confessata, che fu
costretta ad abbandonare subito le compagne e a correre in casa davanti a
un’immagine di Maria e pregarla ad intercederle il perdono con la grazia di
poter amare per l’avvenire il buon Gesù con tutto il cuore».
Dopo
quell’esperienza, la sua vita interiore comincia ad assumere i tratti di una
spiritualità adulta, senza tuttavia mai uscire da quel solco di semplicità di
cui è intessuta tutta la sua esistenza. La famiglia e la parrocchia sono i due
poli principali di riferimento e l’eucaristia la sorgente da cui attinge la
forza e le ispirazioni che la condurranno poco alla volta verso mete spirituali
inesplorate e impensabili. Nel “curatino delle Budrie”, don Gaetano Guidi,
trova una guida spirituale sicura che intuisce in lei le vie straordinarie di
Dio e l’aiuta a percorrerle con ammirata discrezione.
A mano a mano che
cresce, sente il bisogno di fare qualcosa per accendere anche negli altri quel
fuoco d’amore che sente bruciare nel cuore. All’età di 14 anni entra a far
parte dei cosiddetti “operai della dottrina cristiana” come erano chiamati
allora i catechisti, tra cui ben presto emerge per le sue doti e la sua
capacità di parlare di Dio, tanto che, come scrive uno dei suoi principali
biografi, don Luciano Gherardi, «gli stessi anziani si facevano scolari di
questa giovane maestra e commossi e incantati».
È emblematica una
delle poche immagini che ci è stata tramandata dove Clelia è ritratta con
l’indice della mano destra rivolto verso il cielo, quasi a dire che il cielo
deve essere l’oggetto principale di ogni aspirazione e la meta verso cui
tendere nel cammino dell’esistenza terrena.
Oltre che della vita
liturgica e sacramentale in parrocchia, la sua vita spirituale si nutre anche di
semplici libri, allora molto in voga, come La
pratica di amare Gesù Cristo di Sant’Anfonso, lo Filotea di Giuseppe Riva; ma a esercitare un influsso decisivo su
di lei fu soprattutto la Dottrina
cristiana elementare, un breve denso opuscolo tascabile, scritto dal
cardinale Viale Prelà nel 1860, da cui Clelia, assieme ad altre compagne,
attinse il desiderio di un amore sempre più ardente verso Dio e la volontà di
impegnarsi a fare del bene.
UN PROGETTO
DI VITA COMUNE
È in questo clima,
scrive don Luciano Gherardi, che si delinea nella mente di Clelia un progetto
di vita comune, assieme ad alcune compagne, semplice ed essenziale, che lei
stessa così descrive: «Noi siamo molto povere, non potremo mai essere accettate
in nessun istituto per la nostra povertà. Riuniamoci insieme per vivere una
vita raccolta e fare del bene».
I tempi sono però
difficili. Il contrasto tra Stato e Chiesa che già si era profilato dopo il
1859, si acutizza ancor di più in seguito alla terza guerra d’Indipendenza del
1866 e la proclamazione del Regno d’Italia. È l’anno della famigerata legge
Crispi, detta anche “dei sospetti”, che autorizzava i prefetti a mettere agli
arresti senza processo persone ritenute sospette o comunque contrarie al nuovo
corso. Le cronache scrivono che la polizia
entrava nelle case, perquisiva, arrestava al mattino presto o di notte i
personaggi ritenuti sospetti. Tra gli arrestati vi furono anche una cinquantina
di sacerdoti della diocesi bolognese e, tra questi il curatino delle Budrie don
Gaetano Guidi. Nello stesso anno vengono estese a tutto il regno le altrettanto
famigerate leggi Saccardi che decretavano la soppressione degli ordini e
congregazioni religiose. Anche il piccolo progetto di Clelia è guardato con
sospetto e tenuto sotto sorveglianza.
Nonostante le
comprensibili difficoltà, dovute a questa assurda situazione, il suo sogno di
fare vita comune si realizza il 1 maggio 1868, giorno in cui assieme a Orsola
Donati, Teodora Baraldi e Violante Garagnani entra nella cosiddetta “casa del
maestro” un edificio messo loro disposizione e fino a quel tempo abitazione del
maestro Geremia Neri il quale vi teneva anche la scuola elementare.
L’ingresso in questa
sede avviene nella letizia, ma anche all’insegna della povertà più assoluta.
Gli arredi sono costituiti da un cassettone, una tavola, due armadi, i
cavalletti con i pagliericci, alcune sedie impagliate. Sui muri sono
raffigurati l’immagine a colori dell’Addolorata e quella di San Francesco da
Paola, davanti al quale arde una piccola lampada ad olio; è il santo che si era
definito il “minimo”, nome dal quale deriverà poi quello della Congregazione
delle Minime dell’Addolorata, dato loro dal cardinale Lucido Maria Parocchi il
7 agosto 1878.
La cena di quella
sera fu davvero frugale: un uovo diviso in quattro con un po’ di polenta e
acqua della fonte. Non c’era altro. Ma ecco che all’improvviso una bambina di 6
anni, Maria Baroni, bussò alla porta recando quattro pani. L’aveva inviata la
nonna dicendole: «Portali a Clelia, tu che le vuoi tanto bene, che abbiano
qualcosa da mangiare». È il primo segno di una provvidenza che anche in seguito
non verrà mai a mancare.
LA VITA
IN COMUNE
La vita nella
comunità si svolge nella più grande semplicità: niente di straordinario o di
artefatto. Le ragazze, scrive don Luciano Gherardi, vestono un abito scuro di
foggia comune, con un fazzoletto annodato alla nuca… lavorano di cucito, filano
e tessono… Nei primi mesi andavano anche a far legna e a spigolare nei campi.
Ma nel frattempo, dopo un ritiro di dieci giorni trascorso a Bologna, comincia
a profilarsi anche una specie di regola di vita basata su quattro cardini: il
senso comunitario, lo spirito contemplativo, il servizio di carità, la
semplicità e la gioia.
«Nel ritiro delle
Budrie, prosegue don Luciano Gherardi, si nota un atteggiamento di fondo di
preghiera, una vera e sete di Dio: un reale primato dell’orazione, con ampi
spazi al mattino e alla notte, un modo di esercitare la missione tutto portato
dall’iniziativa del Signore… Il servizio di carità è a tempo pieno… inteso come
disponibilità flessibile e mobilissima a tutti i bisogni della comunità
parrocchiale, un vero istinto nel cogliere i casi acuti: disadattati,
sradicati, anime in crisi, malati senza assistenza. Pochi come Clelia hanno
saputo leggere e scoprire il Vangelo della povertà e della sofferenza…».
Nella casa del
maestro si vivono momenti spirituali di straordinaria intensità. Un episodio
fra tutti è quello del Giovedì santo, il 25 marzo 1869, quando Clelia nella
cucina grande della casa del maestro, imitando il gesto di Gesù, lava i piedi a
12 ragazze. Il racconto è contenuto nelle testimonianze del processo ordinario
di canonizzazione. «Il Giovedì santo – riferisce Carmela Donati, sorella di
Orsola Donati – mi ordinò di cercare dodici ragazze di 16-17 anni, le fece
sedere e, postasi alla cintura un grembiule, lavò loro i piedi. Quindi si
sedette con loro ad una specie di cena, fatta di radicchi e di una bevanda
amara con erbe bollite, che somministrò dentro dei bicchieri a forma di calice.
Poi, inginocchiatasi sopra una sedia fra due armadi, parlò quasi mezz’ora della
Passione del Signore. Nessun predicatore aveva mai parlato così…».
LETTERA
AL “CARO SPOSO GESÙ”
Di Clelia Barbieri ci
è rimasto un solo breve scritto, vergato di suo pugno, che le sue figlie
spirituali, le Minime dell’Addolorata chiamano il “memoriale” di Madre Clelia:
è una lettera allo “Sposo Gesù” scritta dopo aver sentito nel cuore quella che
lei chiama un’ispirazione granda. È il 31 gennaio 1869, domenica di sessagesima,
un giorno freddissimo con una temperatura fino a 14 gradi sotto zero. Durante
la santa messa, dopo aver ascoltato la spiegazione delle letture da parte di
don Guidi – il brano della seconda lettera ai Corinti di Paolo (11,19-33) e la
parabola del seminatore (Lc 8,4-15) – sentì come struggersi il cuore dal
desiderio di donarsi ancora più intimamente a Gesù. Tornata a casa, preso un
foglio scrive di getto in un italiano approssimativo, ma dove la grammatica e
l’ortografia sono del tutto irrilevanti, una letterina a Gesù così concepita:
«Caro il mio Sposo Gesù, una memoria io volio scrivere per averla sempre in
memoria… nel mentre che io mi trovava in Chiesa a udire la santa essa mi sentì
una ispirazione granda di mortificare la mia volontà in tutte le cose per
piacere sempre più al Signore».
Poi quasi,
consapevole della propria piccolezza e debolezza, prosegue: «io mi sento la
volontà di farlo ma le mie forze non ne o bastanza granda». Allora si rivolge
al Signore: «Ho grande Iddio voi vedete la mia volontà che è quella di amarvi e
di cercare sempre di stare lontano dalla vostra offesa ma la mia miseria è
tanto grande che sempre vi offendo. Signore aprite il vostro cuore e butate
fuora una quantità di fiamma da more e con queste fiamme accendete il mio, fate
che io bruci da more». Sente allora interiormente la voce del Signore che le
risponde: «Ha cara la mia buona figlia tu non puoi credere quanto sia grande la
more che ti porto, il bene straordinario che ti voglio, la speranza che ho di
vederti santa e straordinaria , dunque coraggio nei combattimenti, sì fatti
coraggio che tutto anderà bene e cuando tu ai dele cose che ti disturbano fatti
coraggio a confidarmelo…». La lettera termina con un’invocazione a Dio a non
dimenticarsi di lei “povera peccatora”. Segue la firma: «Sono la tua serva
Clelia Barbieri».
Clelia portò questa
letterina accuratamente piegata e riposta in una busta, probabilmente di tela,
sul cuore fino alla sua morte, a sigillo nuziale del suo indelebile amore per
il suo caro Sposo Gesù.
UNA VISIONE
PROFETICA
Dopo aver scritto il
suo “memoriale” Clelia visse ancora solo un anno e mezzo. Di salute era sempre
stata gracile fin dall’infanzia. Già nel 1867, allora ventenne, sembrava
dovesse morire, ma poi era guarita quasi improvvisamente. Nel gennaio 1870 si
ammala nuovamente e dopo alcuni mesi di sofferenza si spegne dolcemente nella
sua cameretta nella casa del maestro, ora trasformata in cappella e divenuta
meta di continui pellegrinaggi.
Nell’imminenza della
fine, quando ormai le forze le venivano meno, si rivolge a Orsola Donati, sua compagna della prima ora
e le dice: «Orsolina, tu farai le mie veci; non avere paura, non scappare…. Io
me ne vado, ma non vi abbandonerò mai». Poi volgendo lo sguardo verso il prato
antistante aggiunge in una visione quasi profetica: «Vedi, quando là, in quel
campo d’erba medica accanto alla chiesa, sorgerà la nuova casa, io non ci sarò
più… Crescerete di numero e vi espanderete per il piano e per il monte a
lavorare la vigna del Signore. Verrà un giorno che qui alle Budrie accorrerà
tanta gente, con carrozze e cavalli… Me ne vado in paradiso; e tutte le
sorelle, che moriranno nella nostra famiglia, avranno la vita eterna … Qui
muoio contenta… Questa camera sarà convertita in cappella; vi sarà celebrata la
santa Messa e voi sarete molto consolate».
Il 13 luglio, a un
anno esatto di distanza dalla sua scomparsa, mentre le suore sono riunite in
preghiera sentono la voce inconfondibile di Clelia che prega con loro. Da quel
giorno, come attestano centinaia di testimonianze, continua a essere sentita a
intermittenza, negli ambienti e contesti più disparati a volte dolente e
supplicante, a volte con un tono più incoraggiante e sereno quasi a rendere
viva la sua promessa: «Non vi abbandonerò, ma sarò sempre con voi».
Ecco santa Clelia,
piccolo profumato fiore delle Budrie. «Essa, ha detto Giovanni Paolo II nella
cerimonia di canonizzazione, parla ai giovani per dir loro che si può essere
santi nonostante l’età nella quali le passioni sono più vivaci. Basta volerlo
tenacemente e pregare senza stancarsi: Santa Clelia, esemplare figura di donna
consacrata, parla alle religiose per invitarle a essere coscienti delle
ricchezze spirituali della loro femminilità… La nuova santa parla a tutti i
cristiani per richiamarli alla stima della famiglia e della parrocchia, le due
istituzioni sulle quali si regge – nell’ambito naturale e in quello soprannaturale – la vita del popolo di
Dio».
Sono trascorsi ormai
più di 130 anni dalla sua scomparsa. Oggi alle Budrie è un continuo accorrere
di “carrozze e cavalli” proprio così come lei aveva predetto.
A. Dall’Osto