VINCI IL MALE
CON IL BENE

 

Il ministro provinciale dei cappuccini (Basilicata–Salerno) il 25 marzo scorso ha scritto questa lettera ai confratelli. Ci aiuta a riflettere su certi stati d’animo aggressivi da superare per diventare uomini di pace.

 

«Quando il mondo ha bisogno di pace, il mondo ha bisogno di Assisi». Così ha dichiarato Giovanni Paolo II in uno dei suoi appuntamenti di preghiera per la pace in Assisi (9-10 gennaio 1993). Ancora oggi il mondo ha bisogno di persone che come Francesco d’Assisi annuncino ad ogni uomo: Il Signore ti dia pace, e di fratelli che abbiano sulle labbra ‑ perché è nel loro cuore ‑ il nostro antico saluto e augurio di Pace e bene. C’è tanta aggressività e tanta violenza intorno a noi, in questo nostro tempo e tutti cercano uomini e donne con un cuore pacificato.

Noi vogliamo credere al vangelo e porgere anche l’altra guancia, s’è necessario, piuttosto che sguainare la spada per far valere i nostri diritti. Vogliamo essere di quelli che amano i loro nemici e pregano per loro, e non vogliamo fare violenza. Vogliamo credere che la vita non è un ring, dove dobbiamo preoccuparci solo di eliminare chi sta di fronte a noi mettendolo ko, ma piuttosto un palcoscenico, dove ognuno deve poter recitare la sua parte al meglio, eventualmente, sostenuto e incoraggiato dagli altri. Non vogliamo aggredire nessuno, perché desideriamo che la parola di Gesú: «Beati gli operatori di pace» sia una parola detta per noi.

Interroghiamoci, allora, su che cosa possiamo fare di concreto affinché altri intor­no a noi diventino operatori di pace. Quale contributo possiamo dare perché il popolo dei non violenti attivi cresca sempre più, convinti della verità di quanto dice Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21)? Che cosa devo fare per essere più credibile nelle parole, nei gesti e nelle iniziative, quando parlo, prego o promuovo progetti inerenti alla pace? Chiediamoci, ogni volta che facciamo violenza a qualcuno, perché siamo aggressivi, di chi e di che cosa abbiamo paura?

Quando sperimentiamo che anche gli altri mancano e hanno bisogno di com/passione ‑ proprio come ne abbiamo avuto bisogno noi nel passato, e poi ogni giorno e certamente anche nel futuro ‑ non ci meravigliamo. Teniamoci in serbo i discorsi di circostanza. Non reputiamoci superiori agli altri, perché, forse, gli stessi motivi che noi abbiamo per dolerci di loro, essi li hanno per non essere soddisfatti di noi. Mentre accade spesso che quando meno ne avremmo diritto tanto più ci facciamo maestri e ci affanniamo a dettar leggi per gli altri su come vivere la fraternità, sul perdono e la pace; sul dialogo, la giustizia e il rispetto; sulla corresponsabilità, la comprensione, la gentilezza.

Un anziano frate raccontava una vecchia storia di un confratello che un giorno a tavola interrogava tutti per sapere se si erano ricordati del compleanno di un altro fratello, perché lui si era ricordato e aveva anche telefonato. L’anziano concludeva dicendo: Questo frate aveva fatto final­mente un gesto che non faceva quasi mai e gli era sembrato così bello e così eccezionale da sentire il bisogno di raccontarlo a tutti.

Il magistrato Giancarlo Caselli chiama «Drammatica tentazione dei nostri tempi quella di essere severi e spietati con gli altri per continuare a invocare clemenza su di sé, e ad amare se stessi, più che il prossimo». Conclude, dicendo: «Invece Cristo è proprio venuto a insegnarci ad amare il prossimo come noi stessi: non dice di amarlo di più, ma esattamente allo stesso modo di come noi amiamo la nostra persona, perché non esiste differenza tra noi e gli altri».

Nell’anno del grande Giubileo, il cardinale Biffi, durante un’omelia a Bologna, ebbe a dire: «Io non credo alla fedeltà di un uomo che continuamente parla male e disprezza e offende la moglie e madre dei suoi figli, così ho difficoltà a credere alla fedeltà e all’amore di un prete per la Chiesa quando continuamente la ingiuria, la umilia, coglie ogni occasione per denigrarla». Forse l’afferma­zione del cardinale vale anche per noi.

Un giorno ero davanti al convento di Salerno, mentre un ragazzo stizzito, seduto sul muretto, accusava la sua ragazza di poca fiducia, poco amore e di altre disattenzioni. Lei, invece, con grande self control, ripeteva come un leit motiv: «Prima di pretendere qualcosa, prova a pensare a quello che dai tu. Non è facile, però è tutto qui». Forse effettivamente canta­va un ritornello che non conoscevo. Comunque sia, quest’ammonimento, mi sono detto, vale anche per me, per quando pretendo dagli altri senza chiedermi che cosa io do. Vale anche per tutti quelli che sanno solo preten­dere e lamentarsi. Com’è difficile incontrare queste persone, nella loro solitudine e nella loro tristezza! Un novizio a Morano Calabro, durante un capitolo locale, affermava categorico: «In fraternità ci trovi tutto quello che ci porti; manca, invece, tutto quello che tu non dai».

 

Con sempre maggiore insistenza si afferma oggi che l’accoglienza fraterna nella gioia è un sacramento. Un sacramento che parla in modo eloquente della misericordia, della tenerezza, della bontà, della fiducia di Dio nei confronti di ciascuno.

Una fraternità cordiale rallegra il cuore, alleggerisce il peso della fatica d’ogni giorno, allevia il dolore e, a volte, guarisce ferite aperte da tempo. Siamo generosi e facciamo in modo che i fratelli della nostra fraternità siano i primi a beneficiare ogni giorno di questo sacramento. Sono loro, infatti, quelli di cui a volte vorremmo disfarci, il dono del Signore per noi, come insegna Francesco quando scrive: «Postquam Dominus dedit mihi de fratribus…» (Test 14).

In un incontro con i fratelli guardiani al convento San Felice di Cava de’ Tirreni, mentre meditavamo e pregavamo sulla parabola dei talenti, si diceva che il Signore con grande fiducia ci ha affidato i fratelli che sono nella nostra fraternità, perché noi abbiamo bisogno del loro aiuto ed essi del nostro. Essi sono i talenti che il Signore ha voluto affidare alle nostre cure (Mt 24,14-30).

In una fraternità cordiale possiamo praticare con serenità la correzione fraterna. La eserci­teremo nella pace, con rispetto, senza violenza, senza aggredire nessuno, ricordando che «chi vive nell’amore abita in Dio e Dio abita in lui» (1Gv 4,16).

In una fraternità cordiale i fratelli più fragili, saranno avvicinati con i sentimenti del buon samaritano (Lc 10,30-37). Con l’intento di curare e guarire le loro ferite, pur sapendo a priori che in questo possiamo riuscire solo qualche volta, mentre possiamo sempre esercitare il ministero della consolazione, facendoci strumenti docili ed efficaci dello Spirito Santo consolatore (Gv 14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-11).

Questa opera di misericordia spirituale possiamo esercitarla in ogni circostanza, secon­do l’insegnamento di Paolo: Il «Dio d’ogni consolazione, […] ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere d’afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,3-5).

L’apostolo delle genti in soli tre versetti usa ben sei volte il termine consolare per confermare quanto sia necessario questo ministero e quanto bisogno abbiamo dell’azione dello Spirito Santo. Egli c’insegni l’arte del consolare e ci faccia tanto umili da lasciare che altri la esercitino anche nei nostri confronti.

 

fr. Giuseppe Celli ofm cap

ministro provinciale