LETTERA DI DON CHÁVEZ AI SALESIANI

L’INCONTRO CON LA PAROLA

 

Ascolto della Parola di Dio, adorazione silenziosa, lectio divina e vita comunitaria, celebrazione eucaristica e liturgia delle ore, discernimento e attenzione privilegiata ai giovani. Sono le tappe di un percorso stimolante non solo per i salesiani, ma anche per i religiosi interessati alla riscoperta del proprio carisma.

 

Le comunità religiose potranno continuare a essere significative ad una sola condizione: quella di tendere realmente alla santità, in un costante atteggiamento di ascolto della parola di Dio. Lo ricorda il rettor maggiore dei salesiani, don Pascual Chávez nella sua ultima lettera (13 giugno 2004) indirizzata a tutta la famiglia salesiana. Si tratta di un’ampia riflessione la cui portata travalica i pur vasti confini della famiglia religiosa di don Bosco. Sono cose, certo, risapute. È originale, invece, il tentativo di riscoprire, partendo dall’importanza della parola di Dio, il significato più autentico del proprio carisma di fondazione.

Se la santità è il compito essenziale e il dono più prezioso che è possibile offrire ai giovani, la missione prioritaria dei salesiani non può non essere allora «quella di dire e dare Dio ai giovani». Se la vita spirituale deve essere al primo posto nella vita dell’istituto, se da questa “opzione prioritaria” dipendono la fecondità apostolica, la generosità nell’amore per i poveri, la stessa attrattiva vocazionale sulle nuove generazioni, «non c’è dubbio che la prima sorgente di essa sia la parola di Dio», da cui nascono «l’intensità della contemplazione e l’ardore dell’azione apostolica».

 

LA BIBBIA

E DON BOSCO

 

Don Chávez sa di parlare soprattutto ai suoi religiosi.

I riferimenti alla Bibbia e, soprattutto, alle proprie costituzioni e ai propri documenti capitolari sono continui. Ma il modo con cui dialoga con i “suoi” confratelli, rifacendosi molto spesso al “suo” fondatore, diventa per tutti i religiosi anche non salesiani una sapiente lezione di come si possa efficacemente rileggere il proprio passato. È sua ferma convinzione che, anche se il vangelo è unico e medesimo per tutti, esiste però una sua “lettura salesiana”, da cui deriva anche una maniera salesiana di viverlo. «Conoscere più profondamente il Cristo del Vangelo, nel modo con cui don Bosco l’ha compreso, darà garanzia di salesianità alla nostra contemplazione di Cristo».

Al tempo di don Bosco la Bibbia non aveva una presenza “forte” nel contesto ecclesiale e culturale. Non era affatto considerata il “primo” tra i libri della fede. Pur non essendo del tutto assente dal vissuto cristiano, essa era raggiungibile solo indirettamente, e cioè attraverso la mediazione ecclesiale, quasi esclusivamente liturgica o catechetica. Anche l’insegnamento religioso di mamma Margherita, pur non avendo espliciti riferimenti alla Bibbia, era però intriso di sensibilità e di richiami biblici. Sulle ginocchia della mamma “Giovannino” aveva appreso per la prima volta «il sentimento vivo della presenza di Dio, la candida ammirazione delle opere sue nel creato, la gratitudine per i suoi benefici, la conformità ai suoi voleri, il timore di offenderlo». La stessa formazione biblica di don Bosco, in seminario, era piuttosto scarsa, poco significativa e alquanto marginale. Se nei suoi scritti si troveranno numerose citazioni della Scrittura, il suo utilizzo, però, è sempre giocato sul piano della edificazione, in senso morale, quando addirittura non assume un tono «arditamente accomodatizio».

I biografi di don Bosco sottolineano spesso la sua grande facilità nell’esporre la parola di Dio. Incominciava e sviluppava sempre la sua predicazione appoggiandosi sulla Scrittura e sui Padri.

Come per tutti i suoi contemporanei, anche per lui parola di Dio e insegnamento della Chiesa spesso si equivalevano. Il cristiano è colui che ha «la divina Parola per guida», una Parola che è detta luce «perché illumina l’uomo e lo dirige nel credere, nell’operare e nell’amare».

La scarsa importanza dello studio della Scrittura durante gli anni di seminario rende ancora più suggestivo il modo con cui don Bosco ha saputo valorizzare il dato biblico nella sua attività pedagogico-educativa. Anche in Domenico Savio, ad esempio, proprio da questa Parola ha avuto «cominciamento quell’esemplare tenore di vita, quel continuo progredire di virtù, quell’esattezza nell’adempimento de’ suoi doveri, oltre cui non si può andare». Non è un caso se nel regolamento della compagnia dell’Immacolata, compilato dal Savio, a un certo punto vi si legge: «Custodiremo colla massima gelosia la santa parola di Dio, e ne riandremo le verità ascoltate».

Le opere nelle quali emerge con maggior evidenza la sensibilità biblica di don Bosco sono la Storia sacra e Il giovane provveduto. Perché, si chiede lui stesso, una nuova Storia sacra? Perché quelle in circolazione sono «troppo voluminose o troppo brevi, carenti di riferimenti cronologici e di sensibilità pedagogica». Perché, ancora, è importante presentare accuratamente tutte le notizie più importanti dei libri sacri, senza risvegliare nei giovani idee meno opportune. Perché, infine, è indispensabile un testo accessibile a qualsiasi giovane, «a tal punto da potergli dire: prendi e leggi». Presentando poi Il giovane provveduto come un libro di devozione «adattato ai tempi», don Bosco scrive espressamente di aver voluto compilare «un libro adatto alla gioventù, opportuno per le loro idee religiose, appoggiato sulla Bibbia, il quale esponesse i fondamenti della religione cattolica colla massima brevità e chiarezza». Le scritte stesse sotto i portici di Valdocco erano tratte dalla Bibbia, a dimostrazione del suo vivo desiderio che «perfino le mura della sua casa parlassero della necessità di salvarsi l’anima». Come sacerdote e pedagogo ha saputo mettere la parola di Dio al centro del suo lavoro apostolico fino al punto da essere giustamente chiamato “sacerdote della Parola”.

«Servire la Parola per dovere di vocazione! Ecco una indovinata ed opportuna descrizione della meta e del motivo dell’evangelizzazione salesiana», commenta don Chávez. Non esiste evangelizzazione senza una previa “lettura salesiana” del Vangelo. I salesiani in tanto possono essere evangelizzatori dei giovani in quanto sanno evangelizzare sé stessi, immergendosi nel mondo, sapendo di avere «incessantemente bisogno di ascoltare la parola di Dio, di convertirci ad essa». Ma, si chiede, «come leggere il vangelo e perché farlo da salesiani?». Per una semplice ragione, e cioè perchè tutta la tradizione salesiana è profondamente radicata «nelle intuizioni evangeliche» del fondatore. La fedeltà dinamica e viva alla missione di don Bosco nella storia, diventa così «il primo e miglior avallo per garantire la salesianità del nostro ascolto della parola di Dio».

 

CON I GIOVANI

NEL CUORE

 

La lettura salesiana della Scrittura non può dipendere solo da un’accurata esegesi scientifica, per quanto fondata e aggiornata sia. Deve dipendere, piuttosto e innanzitutto, «dalla fedeltà rinnovata alla nostra missione: i giovani». Sull’esempio di don Bosco i salesiani da sempre riaffermano la loro preferenza per la gioventù “povera, abbandonata, pericolante”, una gioventù che ha maggior bisogno di essere “amata ed evangelizzata”. Il salesiano, che leggendo la Bibbia vuole ascoltare Dio, si mette a sentire la voce dei giovani, i loro bisogni e le loro aspirazioni, i loro silenzi e le loro speranze, le loro mancanze e i loro sogni, proprio per il fatto che i giovani sono «l’altra fonte della nostra ispirazione evangelizzatrice».

Un salesiano non potrà mai esiliare i giovani dal suo cuore o abbandonare i giovani nelle loro opere proprio perché essi sono la “patria” stessa della missione salesiana. Non è possibile vivere contemplando Dio, in un attento ascolto della sua Parola, se non restando in mezzo ai giovani. «Stiamo tra i giovani perché vi ci ha inviati Dio, e scrutiamo la loro condizione giovanile in tutta la sua problematica perché, attraverso essa, è Cristo stesso che ci interpella». Nemmeno nei momenti più contemplativi «può scomparire dall’orizzonte della comunità salesiana la visione dei giovani da salvare». Conoscere più profondamente il Cristo del Vangelo e il modo con cui don Bosco stesso l’ha compreso, «ci rende capaci di riattualizzare le intuizioni evangeliche dello spirito salesiano e di potenziarle secondo le nuove possibilità e gli immensi bisogni del mondo odierno».

È sempre «suggestivo e lungimirante», osserva don Chávez, il racconto del libro degli Atti, in cui si narrano le difficoltà sorte all’interno delle prime comunità cristiane e la immediata e paradigmatica reazione apostolica (At 6, 2-4). Da una crisi comunitaria non solo è sorto un nuovo ministero ecclesiale in favore della carità, il diaconato, ma soprattutto si è venuta realizzando una vera “conversione” negli apostoli. Questi, infatti, solo dopo questa “crisi” hanno riscoperto la loro più specifica competenza: preghiera e ministero della parola. La loro reazione non è solo “esemplare”, ma anche “normativa” per la realtà attuale. Si possono delegare ad altri tante cose, mai però la preghiera e la predicazione. «Neppure la cura della vita comune può portare un apostolo a trascurare preghiera e parola di Dio: qualsiasi altro impegno assunto, anche se urgente, deve passare ad altre mani».

Non per nulla la preghiera, intesa nel suo significato più profondo di “dialogo con il Signore”, nelle costituzioni dei figli di don Bosco è vista come sintesi conclusiva dell’intera descrizione del progetto salesiano. Anche se si parla della preghiera solo dopo i temi della missione, della comunità e dei consigli evangelici, questo non sminuisce la sua importanza. Anzi, collocandola alla fine, nei testi capitolari, si è ha voluto far percepire che la vita consacrata-apostolica del salesiano «ha un carattere talmente soprannaturale, supera talmente la nostra buona volontà da essere impossibile e impraticabile senza lo Spirito Santo, senza la grazia di Dio». Non ci può essere nessuna contraddizione tra missione e contemplazione, tra vita apostolica e vita di preghiera. «Chi tralascia di ascoltare Dio, chi non ha tempo per lui prima o dopo lascerà i giovani (azione pastorale), trascurerà la vita comune (comunione fraterna) e abbandonerà la sequela di Cristo (consigli evangelici)». Solo ritornando a Dio «avendo quotidianamente in mano la s. Scrittura», la missione salesiana «tornerà ad essere per noi gioia e ragione della nostra vita consacrata».

Per incontrarsi con la Parola, occorrono «due atteggiamenti di fede oggi non tanto apprezzati», ma che garantiscono indefettibilmente, osserva don Chávez, il perseguimento dell’obiettivo: l’adorazione silenziosa come condizione previa e la rinuncia a farsi immagini di Dio. Il primo atteggiamento di una comunità orante non è quello di parlare, ma quello di tacere per ascoltare. «Restare in silenzio davanti a Dio non è tempo perso, vuoto di lavoro e di senso, ma espressione dello stupore che egli provoca in noi e segno dell’adorazione e del rispetto che egli merita». Senza silenzio esterno e, soprattutto, «senza quel silenzio interiore, che mette a tacere i nostri desideri e la voglia di vivere da e per se stessi, non trova in noi spazio la parola di Dio, né accoglienza cordiale». Si tratta però di un silenzio “attivo”, di un silenzio “pieno”. Non è possibile vivere oggi da credenti senza “convivere” con il silenzio. Riempire la vita di parole e frastuono «è prendere la strada dell’incredulità».

Proprio attraverso l’esperienza di un “silenzio attivo” diventa allora più comprensibile la doverosa rinuncia a farsi immagini di Dio. Al credente è vietato procurarsi immagini di Dio, sia quelle fabbricate con le proprie mani sia quelle concepite con l’immaginazione. Farsi un’immagine di Dio è convertirlo in un idolo senza vita. Forgiare una rappresentazione di Dio a misura delle proprie necessità non libera né dà sollievo, anzi aumenta la fatica. Il non accogliere il Dio Parola ha come tragica conseguenza, come si legge nei salmi, quella di crearsi immagini di Dio  e diventare come l’opera della propria mente e delle proprie mani: muto, cieco, senza alito né vita. L’incontro con Dio nella Bibbia è un avvenimento sensibile, ma non visuale. «Non sono coloro che vedono, ma sono coloro che ascoltano la Parola e la conservano, a riuscire a trovare Dio e rendersi suoi intimi». Anche s. Agostino afferma che soltanto gli occhi del cuore riescono a vedere il cuore della Parola. «Dio, infatti, non permette che ci facciamo sue figure proprio perché vuole guidarci con la sua Parola e alimentarci con le sue promesse».

 

VITA FRATERNA

E LECTIO DIVINA

 

La parola di Dio, inoltre, è il grande mezzo con il quale viene adunato il popolo santo del Dio vivente. Quando Dio parla, infatti, raduna coloro che lo ascoltano. Il popolo di Dio «nasce convocato dalla Parola e nel suo ascolto rimane congregato». Anche la vita in comune «è per il popolo di Dio il modo di vivere la salvezza di Dio». Vivere congregati significa essere salvi dai mali e liberi da se stessi. Ora, osserva don Chávez, «se dall’ascolto della Parola nasce il popolo di Dio, nessuno può illudersi di sentire Dio senza sentirsi membro della comunità dei suoi ascoltatori». Se è la parola di Dio ascoltata che fa sorgere la comunità, allora la forma migliore di rispondere a Dio è quella di rendersi responsabili della vita comune. Sfuggire, come spesso succede, il dialogo tra fratelli, scappare dal vivere insieme, evitare la convivenza quotidiana e la preghiera comune, «fa sì che non soltanto i confratelli ci sembrino lontani, ma che anche Dio ci diventi estraneo, uno che in fin dei conti non significhi molto». La vita fraterna dipende indubbiamente dalla buona volontà e dalla collaborazione di tutti i membri della comunità, ma dipende soprattutto dal comune ascolto di Dio. La fraternità non è mai solo frutto dello sforzo umano; è soprattutto dono di Dio, dono che viene proprio dall’obbedienza alla parola di Dio.

Se la comunità, quindi, è luogo dell’ascolto di Dio e spazio di fraternità, è facile comprendere allora la responsabilità dei superiori, ai quali Dio stesso affida in custodia dei fratelli da amare. Questa responsabilità è il banco di prova dell’obbedienza dei superiori a Dio. «Solo dando ai nostri fratelli l’attenzione che meritano, specialmente a coloro che sono o si sentono lontani, oltre al fatto di verificarci come buoni pastori, troveremo il posto e le parole per conversare con Dio». Non è possibile fare della vita comune luogo dell’ascolto di Dio «se non si sa accogliere il fratello con cuore aperto, se non lo si sa accettare così com’è, se non gli si provvede ciò che gli occorre, se non lo si sostiene nei momenti di difficoltà».

Una spiritualità cristiana che non sia basata sulla Scrittura «difficilmente potrebbe sopravvivere in un mondo complesso come quello moderno, in un mondo difficile, frantumato, disorientato. Commentando queste parole del cardinal Martini, don Chávez scrive che «anche noi salesiani, a stento riusciremo a mantenerci oggi credenti, se non facciamo dell’ascolto della parola di Dio la prima occupazione della nostra vita, la sorgente della nostra missione». Nella regola di vita dei salesiani sono abbondantemente illustrati tutti i benefici di un ascolto della Parola nella fede, una Parola sempre intesa come sorgente di ogni spiritualità cristiana.

Un caratteristico metodo di lettura della Scrittura, utilizzato fin dagli inizi della vita religiosa e che in essa ha sempre goduto la più alta considerazione, è quello della lectio divina. Molto opportunamente, l’ultimo capitolo generale dei salesiani esorta i propri religiosi a favorire la centralità della parola di Dio nella vita comunitaria e personale mediante la lectio divina. «Spero che nessuno di voi, osserva il rettor maggiore, pensi che con questo orientamento il capitolo generale abbia introdotto un elemento estraneo alla nostra spiritualità». L’obiettivo fondamentale della lectio è ascoltare Dio pregando la sua Parola, «per vedere noi stessi come lui ci vede e volere noi stessi come lui ci vuole». In questo modo la parola di Dio diventa chiave della comprensione di sé, cercando «di lasciare che Dio ci dica chi siamo noi per lui e cosa vuole lui da noi».

Per diventare familiare, la lectio, come qualsiasi metodo di preghiera, richiede esercizio, volontà di ascolto e disponibilità di obbedienza. «Non mi stancherò mai di ripetere che la lectio è uno dei mezzi principali con cui Dio vuole salvare il nostro mondo occidentale dalla rovina morale che incombe su di esso per l’indifferenza e la paura di credere». Questo metodo di preghiera è in qualche modo un antidoto proposto da Dio in questi ultimi tempi per favorire la crescita di quella interiorità senza la quale il cristianesimo «rischia di non superare la sfida del terzo millennio».

 

PER UN’AUTENTICA

VITA SPIRITUALE

 

Preghiera e contemplazione «sono il luogo di accoglienza della parola di Dio e, nello stesso tempo, esse scaturiscono dall’ascolto della Parola» (Ripartire da Cristo). Non è un caso se un certo indebolimento della fede, presente nelle comunità religiose, si manifesta in primo luogo «nell’affievolimento della vita di preghiera». Un’autentica vita spirituale, infatti, «richiede che tutti, pur nelle diverse vocazioni, dedichino regolarmente, ogni giorno, momenti appropriati per andare in profondità nel colloquio silenzioso con colui dal quale sanno di essere amati, per condividere con lui il proprio vissuto e ricevere luce per continuare il cammino quotidiano. È un esercizio al quale si domanda di essere fedeli, perché siamo insidiati costantemente dall’alienazione e dalla dissipazione provenienti dalla società odierna, specialmente dai mezzi di comunicazione. A volte la fedeltà alla preghiera personale e liturgica richiederà un autentico sforzo per non lasciarsi fagocitare dall’attivismo vorticoso» (Ripartire da Cristo).

Le difficoltà e le sfide che condizionano spesso la vita comune dei religiosi è possibile che provengano anche dalla incapacità di vivere liturgicamente la fede. «È sintomatico il fatto, scrive don Chávez, che di solito non riusciamo a discernere i “segni dei tempi”, a identificare quello che Dio vuole da noi, quando non viviamo come comunità convocata da lui. La mancanza del senso d’appartenenza a una comunità orante, la pretesa di andare da soli verso Dio, non consentono di incontrare Dio, né di sentire la sua Parola».

La trascuratezza della preghiera comunitaria rende più faticosa la vita comune stessa. Una sincera ricerca della volontà di Dio porta anche e soprattutto i consacrati a fare della liturgia comunitaria il tempo abituale e il luogo privilegiato dell’ascolto di Dio. Nella  Bibbia, infatti, «la preghiera non è soltanto l’occasione che il credente ha per far conoscere a Dio le sue inquietudini e i bisogni personali, ma è soprattutto l’opportunità che concede a Dio perché gli parli e gli faccia conoscere la sua volontà».

Occasioni eccellenti per esercitarsi comunitariamente nell’ascolto della parola di Dio sono soprattutto la celebrazione eucaristica e la liturgia delle ore.

Anche nella tradizione salesiana la celebrazione eucaristica è l’atto centrale quotidiano della comunità religiosa. Infatti è proprio nella celebrazione eucaristica quotidiana che viene allestita la duplice mensa della Parola e del pane eucaristico. È sempre nella celebrazione eucaristica dove, sull’esempio dei discepoli di Emmaus, è possibile riconoscere il Cristo risorto proprio mentre spezza il pane. Perché questo accada è, però, necessario camminare insieme con lui e ascoltarlo mentre spiega le Scritture. In altre parole, prima lo si ascolta e poi lo si vede. «Sono convinto, scrive don Chávez, che se ci familiarizzeremo con la sua Parola e le sue esigenze, sarà più facile riconoscere il suo volto e scoprirlo in mezzo a noi». Per una comprensione più profonda poi della parola di Dio è necessario anche un impegno di studio. Lo aveva già detto con chiarezza don Vecchi: «l’eucaristia è totalmente impregnata di parola di Dio (…) non è pensabile che questa ricchezza sia colta nella celebrazione eucaristica, se essa non è preparata da una vera iniziazione alla Bibbia».

Non meno importante della celebrazione eucaristica è anche la liturgia delle ore. Senza dubbio la riscoperta della preghiera liturgica da parte delle famiglie religiose è stata «una delle acquisizioni più preziose» del postconcilio, grazie alla quale è stato possibile rivitalizzare la preghiera di non poche comunità religiose. Nei salmi infatti si trova non solo la parola che Dio rivolge all’uomo, ma anche la parola che l’uomo può rivolgere a Dio. «Le stesse parole servono a Dio e a noi per esprimerci a vicenda». Inoltre le lodi e i vespri, strategicamente scanditi lungo la giornata di lavoro, «ci aiutano a ritrovare Dio dopo averlo cercato e servito, e magari anche dimenticato, nelle mille occupazioni quotidiane».

 

PER DISCERNERE

I “SEGNI DEI TEMPI”

 

Uno dei frutti più significativi derivanti proprio dall’ascolto docile e paziente della parola di Dio è il discernimento, di cui oggi, osserva don Chávez, giustamente «si parla molto». Per interpretare i segni dei tempi in una realtà come la nostra, in cui abbondano le zone d’ombra e di mistero, occorre che il Signore stesso si faccia compagno di viaggio e doni il suo Spirito. «Vi confesso che non immagino possibile un vero discernimento, sia personale che comunitario, senza la pratica quotidiana dell’esame di coscienza». A nulla, però, servirebbe riconoscere Dio e riconoscersi obbligati con lui, se poi non lo si ricerca nella propria vita. «Dobbiamo mantenerci attenti all’ascolto della voce di Dio per capire cosa ci chiede oggi, per intuire quale potrebbe essere la sua “annunciazione” negli avvenimenti che ci capitano.

Ma come, in che modo è possibile discernere i segni dei tempi? Mediante l’esame di coscienza, risponde subito don Chávez. Più che elemento formale della preghiera della sera, l’esame di coscienza è un «vero cammino di crescita spirituale». Chi lo percorre, infatti, «impara a guardare la realtà, propria e altrui, con lo sguardo di Dio e nel suo cuore. L’esame è una preghiera, il cui oggetto è la propria esistenza e il cui obiettivo sta nel riconoscere con lucidità il progetto di Dio su di essa e nell’assumerlo con responsabilità». Rintracciare le impronte di Dio nel quotidiano, rendersi conto della sua presenza e della sua azione in quanto accade nella giornata, è la meta dell’esame e il suo miglior frutto. «Un esame di coscienza così, ha scritto Marco Rupnik,1 ci porta a scoprire i significati e il senso del vissuto. Per questo motivo parte dall’ascolto di Dio che ci parla attraverso le persone, gli incontri, gli eventi, la storia».

Ora, dai salesiani, in quanto “apostoli consacrati”, ci si aspetta la capacità di fare progetti di vita che aiutino a crescere veramente nel cammino spirituale. «Da noi, come educatori per vocazione, si attende il coraggio di proporre l’esame di coscienza come modalità di preghiera da condividere anche con i giovani e con i laici che collaborano con noi». Bastano anche soltanto dieci minuti – tutti i giorni però! – per fare questo esercizio. Quando lo si svolge fedelmente, «ci porta a trovare Dio nell’ordinarietà della vita quotidiana, riconoscendo quello che ha operato in noi e per noi».

Volendo proporre un facile percorso per rileggere la propria vita sotto lo sguardo di Dio, don Chávez sviluppa brevemente, in successione, le varie tappe del discernimento: sapersi mettere, anzitutto, alla presenza di Dio per passare poi al rendimento di grazie, alla memoria “eucaristica”, al riconoscimento dei propri peccati, alla sorpresa di scoprirsi amati, all’impegno di conversione. Lo scopo dell’esame di coscienza, sempre secondo Rupnik, non è tanto di analizzare la propria intimità, quanto di scoprire «Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio». Grazie all’esame di coscienza è possibile pervenire alla piena consapevolezza di come il Signore si manifesta in noi e di come noi viviamo con lui. È grazie a questa consapevolezza dello sguardo di Dio su di lui che il religioso perviene ad una vera maturità della fede.

I tempi in cui viviamo pongono anche la vita consacrata di fronte a una continua trasformazione di mentalità, degli stili di vita, dei criteri e delle metodologie educativo-pastorali, nonché delle strutture, in costante fedeltà al carisma originario. Questa esigenza di cambiamenti non si impone solo per il ritmo frenetico del mondo d’oggi. Prima ancora, è una esigenza di fedeltà al mondo, di disponibilità a rispondere alle sue sfide, di fedeltà, in particolare per i salesiani, alla missione nella Chiesa a favore dei giovani.

 

ASCOLTARE

PER TRASMETTERE

 

Non basta ascoltare la Parola. Va anche trasmessa. Non è un dono da custodire gelosamente. L’obbedienza a Dio diventa necessariamente “missione” nel mondo. Educatori ed evangelizzatori dei giovani del terzo millennio, i salesiani hanno come responsabilità apostolica quella di «ascoltare Dio per i giovani, ma anche con i giovani, cercando, anzitutto, di creare ambienti di forte impatto spirituale e poi di offrire una pastorale di processi di maturazione spirituale».

Il pressante appello del rettor maggiore a ritornare ai giovani, non è motivato soltanto dal fatto dI essere personalmente convinto che «Dio ci sta attendendo nei giovani per offrirci la grazia dell’incontro con lui», ma anche dal fatto che «i giovani oggi hanno un enorme bisogno di Dio, anche se non sempre lo sanno esprimere». È fondamentale saper aiutare i giovani a vedere la storia come Cristo, a giudicare la vita come lui, a scegliere e ad amare come lui, a sperare come insegna lui, a vivere in lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo, avviandoli all’incontro personale con il Cristo nella sua Parola e nei sacramenti.

Insistentemente il papa ha parlato del «bisogno di un cristianesimo che si distingue innanzitutto nell’arte della preghiera». Proprio per questo l’educazione alla preghiera dovrebbe diventare, in qualche modo, «un punto qualificante di ogni programmazione pastorale» (Novo millennio ineunte).

Conseguentemente anche le comunità di vita consacrata, come ogni comunità cristiana, dovrebbero diventare autentiche scuole di preghiera, «dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore». Per intensa che possa essere la preghiera, questa però non distoglie dall’impegno nella storia; aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, rendendoli capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio.

«Noi ci convertiremo in appassionati maestri e guide, santi e formatori di santi, come lo fu san Giovanni Bosco, a condizione che le nostre comunità cerchino di essere luoghi per l’ascolto e la condivisione della parola, la celebrazione liturgica, la pedagogia della preghiera, l’accompagnamento e la direzione spirituale». In un clima di cordiale accoglienza le comunità dei salesiani dovrebbero saper offrire ai giovani valide iniziative spirituali, quali scuole di orazione, esercizi e ritiri spirituali, giornate di solitudine, ascolto e direzione spirituale.

Solo in questo modo sarà possibile avviarli a un miglior discernimento della volontà di Dio su di sé e a decidersi a scelte coraggiose, talvolta eroiche, richieste dalla fede. «Vi assicuro che non potrei augurarvi cosa migliore né potrei immaginarmi un miglior servizio apostolico».

Nell’attuale cultura complessa e frammentata, come può la comunità salesiana realizzare processi di discernimento e di conversione pastorale e passare da una pastorale di attività e di urgenze ad una pastorale di processi? Rileggendo e applicando il racconto dei discepoli di Emmaus. Quella pagina evangelica, infatti, anche oggi non è solo lungimirante, ma anche normativa. È una pagina di sicuro riferimento per quanti, partendo dalla parola di Dio, intendono elaborare progetti di pastorale giovanile. In quel racconto evangelico, insieme ai traguardi da raggiungere sono evidenziate anche la metodologia da utilizzare e le esperienze da vivere. Che cos’è, infatti, la pastorale giovanile se non rifare insieme ai giovani il cammino di fede e condurli alla persona del Signore risorto?

È importante saper prendere l’iniziativa dell’incontro e mettersi accanto ai giovani, proprio come fece Gesù con i due discepoli di Emmaus. Bisogna saperli incontrare lì dove si trovano, valorizzando quanto di buono vi si può scoprire, avvicinandoli e mettendosi a camminare insieme, aprendo loro, con disinteresse, anche gli ambienti della comunità religiosa. «Non badiamo al loro stato di sconcerto e disorientamento; li accettiamo come sono, senza pregiudizi né accuse e li accompagniamo per la strada della loro vita. La nostra presenza vicina e amichevole farà loro scoprire che Gesù vive e si preoccupa della loro esistenza».

È importante percorrere insieme la strada, ascoltarli, condividere le loro ansie e le loro aspirazioni. «Non basta il farsi prossimi nell’accompagnamento personale, anche se cordiale; ci vuole il dialogo, la conversazione su quello che occupa e preoccupa i giovani, sapere da loro, e non per sentito dire, i loro bisogni e i sogni, capire le loro vedute e conoscere i loro valori. Per essere accolti, dobbiamo accogliere il loro mondo, conoscere i loro motivi per condividerli e, se possibile, per appropriarcene». Nascosti nelle loro attese, quante volte i giovani portano in sé i semi del Regno. Andare e incontrare i giovani e mettersi in attento ascolto delle loro domande e aspirazioni, sono scelte fondamentali che precedono qualsiasi altro passo di educazione alla fede.

È importante spiegare con pazienza il messaggio esigente del Vangelo. «Sentito il loro discorso e quanto ad essi interessa, conosciuta la loro tristezza e il senso di smarrimento, ci tocca convincerli che Gesù è vivo e che quello che capita fa parte di un grande progetto di Dio». Dalla vita comunicata è più facile poi passare alla vita spiegata alla luce delle Scritture. Le esperienze sofferte o non risolte sono riempite di senso e di speranza. Le false illusioni o i piani non realistici vengono ridimensionati. Sempre e in ogni caso bisogna saperli aiutare ad aprirsi alla verità e a costruirsi una libertà responsabile. Bisogna trovare ad ogni costo il tempo per fermarsi con loro, per ripetere il gesto di spezzare il pane e suscitare in essi l’ardore della fede.

«Non ci basterà parlare loro di Cristo, conclude don Chávez; ci intratterremo con loro e non li lasceremo finché non si trovino, faccia a faccia, con lui. Insieme con loro celebriamo l’incontro con Cristo nell’ascolto della Parola, nella preghiera e nei sacramenti. Viviamo, insieme con i giovani, il rapporto personale con Cristo che riconcilia e perdona, che si dona e crea comunione, che chiama e invia, e spinge a diventare artefici di una nuova società». Solo così i giovani «diventeranno essi stessi evangelizzatori dei giovani, apostoli dei coetanei, testimoni del Risorto».

 

A. A.

 

1 RUPNIK M. I., L’esame di coscienza. Per vivere da credenti, Roma 2002, p. 74.