UN LAICO D’OGGI
LA SARS E UN UOMO
Più di un anno è trascorso dal giorno in cui il marchigiano dottor Carlo
Urbani, dopo aver allertato il mondo affinché si difendesse dallo sconosciuto e
pericoloso virus della Sars ne rimase ucciso. Ma nessuno, in Italia e fuori,
dimenticherà più il medico delle “malattie dimenticate”.
«Un uomo / capace di perdere / senza sentirsi distrutto / di mettersi in
dubbio / senza perdere la fede / di portare la pace dove c’è inquietudine /
inquietudine dove c’è pace».
C’era pace, la pace tipica dei luoghi di sofferenza e di lavoro
abitudinario, negli ospedali del Vietnam; e il medico italiano Carlo Urbani,
avendo visitato e poi seguito con crescente turbamento nell’ospedale francese
di Hanoi un paziente che nessuno riusciva a curare, vi portò la sana inquietudine
che afferra la mente di chi soffre del dolore altrui; che ne soffre e non si dà
pace, anche per essere un clinico esperto, finché non ne abbia trovato la causa
per potervi applicare una terapia vincente.
Neppure lui – un uomo come quello sognato con i versi di cui sopra da
don Mazzolari – avrebbe voluto che quella pace venisse disturbata. Ma il
misterioso virus contro il quale ebbe presto a lottare era inspiegabilmente
troppo accanito e fin dal primo giorno di un rovello senza precedenti per Urbani,
rinomato specialista in malattie infettive, già contagiava il personale medico
e infermieristico che era stato a contatto diretto con quel paziente. Ma
occorreva inquietare tempestivamente altri, informando autorità sanitarie e
quanti altri di dovere, con la cautela e insieme la precisione dello
scienziato, circa i rapidi e sconvolgenti sviluppi di quella sospetta polmonite
atipica diagnosticata al paziente che ne soffriva, nell’ospedale francese di
Hanoi, e sulla cui pericolosità di Sindrome acuta respiratoria severa qualcosa
già trapelava nel mondo.
IMPEGNO SU FRONTI
SIMULTANEI
Afferrata subito la portata del pericolo, il dottor Urbani – leggiamo
nel libro Le malattie dimenticate, che raccoglie e commenta quasi un suo
diario1 – «comincia a riflettere, ad analizzare meticolosamente i casi, a
raccogliere e studiare i dati clinici e di laboratorio delle persone che via
via si ammaleranno. Consiglia tempestivamente lo staff ospedaliero e si adopera
perché vengano adottate quelle che ritiene siano le misure preventive
necessarie a evitare il diffondersi del contagio. Seguendo le sue intuizioni di
clinico esperto controlla l’emergenza nell’Ospedale francese in cui aumentano i
casi della nuova malattia e crescono la paura e lo sconforto di chi vi lavora».
È questo il fronte più immediato di una lotta insolita, che nello stesso
tempo ne proietta all’esterno la competenza e la responsabilità: «Quale esperto
di salute pubblica internazionale, mobilita nel contempo risorse al di fuori
dell’ospedale, scuote il ministero della Sanità vietnamita facendo pressioni
perché l’epidemia venga affrontata con il necessario impegno. Coordina gli
aiuti e coinvolge i massimi esponenti della comunità scientifica
internazionale».
Altro fronte contemporaneo sul quale muoversi con ancor maggiore cautela
è quello della sua famiglia, che dopo un primo trasferimento a Phnom Penh nel
1997 si era trasferita definitivamente in Vietnam nel 2000, in totale sintonia
col progetto umano-professionale di lui: la moglie Giuliana Chiorrini, i due
figli Tommaso e Luca e la terzogenita Maddalena nata in quell’anno; ma pure i
genitori dei due coniugi e i fratelli che non avrebbero più rivisto Carlo nella
natìa Castelplanio in provincia di Ancona nonché la cerchia affettuosa e solidale
di innumerevoli amici ed estimatori.
Non era facile neppure per lui, la cui avventura umana concreta e
poeticamente vissuta lo fa somigliante all’uomo del sogno di don Mazzolari:
«senza molti mezzi/ ma con molto da fare/ un uomo che nelle crisi/ non cerchi
un altro lavoro/ ma come meglio lavorare». Lavorare meglio, ossia, per lui, con
il lucido rigore usato sempre e la coscienza che non abbandona il campo del
rischio; e far entrare in crisi l’attendismo di chi ancora non ha ben capito la
gravità del momento.
L’ULTIMA
FRONTIERA
«È l’ultima settimana – leggiamo ancora nel libro citato – della sua
vita professionale e Carlo la vive intensamente. Dai suoi scritti emergono la
capacità clinica non comune di cui è dotato, l’estrema dedizione verso i
malati, le sue competenze di infettivologo ed epidemiologo volto alla
protezione dei contatti sani a rischio. La sua curiosità scientifica tesa a
svelare con intelligenza tutti i misteri della nuova e terribile malattia
traspare dalla precisione dei suoi incalzanti aggiornamenti. Scrive, lavorando
con passione, una delle più belle, drammatiche e commoventi pagine della
medicina contemporanea. Al termine di questa terribile settimana, il 10 marzo,
Carlo produce una lucida relazione sull’andamento dell’epidemia. Si tratta
della prima descrizione di cui si dà comunicazione internazionale».
Né si lascia spaventare dal dover mettere a dura prova il rapporto di
fiducia pazientemente costruito con le autorità sanitarie del Vietnam; riesce a
far prendere le misure precauzionali del grave caso e a far chiedere la
collaborazione di esperti internazionali perché l’epidemia venga fronteggiata
ovunque con successo.
Ma proprio «l’11 marzo, al suo arrivo a Bangkok dove avrebbe partecipato
a una conferenza, scopre di essere ammalato. Viene ricoverato in ospedale e vi
muore tre settimane dopo».
Tre settimane di impegno sull’ultimo fronte, dove lottare con la propria
vita, possibilmente per la propria vita e per amore dei suoi cari. Ma non
giovarono a lui le sintesi “eccellenti” di aggiornamento che inviava
quotidianamente a istituzioni e personalità, così come non poté nulla per lui
il coraggio col quale si accostava ai malati scrutandone i segni ora del
progredire di quella subdola malattia, ora dello sperato miglioramento.
Adesso era Giuliana – fatti partire per l’Italia i figli, responsabile
Tommaso, prima che conoscano la situazione reale – a cercare nel respiro
affannoso di lui i segni che non vi poteva trovare.
È stata lei ad aver assorbito le manifestazioni strazianti di una malattia
con la quale Carlo non aveva previsto di chiudere la propria vita terrena,
amata con entusiasmo in tutti i suoi aspetti; una malattia della quale
candidamente egli diceva di aver paura e che non gli lasciò il tempo né la voce
per un’ultima parola ai figli né alla madre lontana.
A Giuliana negli ultimi istanti riuscì a prendere una mano e a
portarsela al cuore. E lei interpretò: «Vuoi dirmi che mi vuoi bene?». Un
movimento degli occhi poté essere soltanto il sì di lui.
UN UOMO
CHE AMAVA LA VITA
Dalla cronologia essenziale che della vita del dottor Urbani dà anche il
bel libro di Lucia Bellaspiga, Carlo Urbani il primo medico contro la Sars,2
emerge la figura di un uomo pieno di vitalità, ricco di interessi che
contornano la vocazione principale per la medicina e vi si armonizzano con
libertà e acuta intelligenza, pago della famiglia costruita nell’amore con
Giuliana e portata lungo le strade della sua professione come un dono
preziosissimo. Strade lungo le quali non ha mai camminato in solitudine: persino
sull’aliante con il quale amava volare si portava talora qualche amico
“coraggioso”.
Fin dal tempo degli studi liceali aperto al volontariato in Vallesina vi
coinvolge la gioventù del luogo e dopo la laurea in medicina e la
specializzazione in malattie infettive e tropicali «inizia a organizzare
viaggi, soprattutto in Africa, portando con sé i colleghi marchigiani: un
“turismo solidale” alla ricerca dei popoli che non hanno accesso ai farmaci e
non vedono tutelato il diritto alla salute». Una carriera, perciò, che non si
arresta ai comodi successi della professione che pure gli arridono in Italia,
ma che comprende il misurarsi su realtà più grandi e meno gratificanti a
cominciare dall’attività tra i Medici senza frontiere (per i quali fu lui in
qualità di presidente a ricevere a Oslo il premio Nobel per la pace),
diventando consulente dell’Organizzazione mondiale della Sanità e poi esperto
della stessa OMS per la regione del Pacifico occidentale.
È lo stesso timbro degli anni successivi, del suo modo coerente di
impostare la vita, della passione nella quale si porta il mondo affettivo – che
aveva solide radici anche nella famiglia d’origine – rendendolo partecipe
secondo l’età e il ruolo di ciascuno della propria vocazione umana intesa in
senso profondamente cristiano.
Scriveva in una lettera del 23 giugno 2000 al fratello Paolo: «Sono
cresciuto inseguendo il miraggio di incarnare i sogni. E ora credo di esserci
riuscito. Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro. Anni di
sacrifici (non mi sono mai accorto di guadagnare soldi, anche perché li ho
sempre spesi tutti in questo investimento) mi permettono oggi di vivere vicino
ai problemi che mi hanno sempre interessato e turbato. Quei problemi oggi sono
anche miei, in quanto la loro soluzione costituisce la sfida quotidiana che
devo accettare. Ma il sogno di distribuire accesso alla salute ai segmenti più
sfavoriti delle popolazioni è diventato oggi il mio lavoro. E in quei problemi
crescerò i miei figli, sperando vederli consapevoli dei grandi orizzonti che li
circondano, e magari vederli crescere inseguendo sogni apparentemente
irraggiungibili, come ho fatto io».
SPIRITUALITÀ
E POESIA
Così realmente assieme a Giuliana era riuscito a crescere i figli,
pienamente inseriti nella realizzazione dei suoi sogni, da Tommaso,
intenzionato a proseguire il progetto professionale paterno, a Luca e alla
piccola Maddalena.
«A differenza dei colleghi dell’OMS o delle altre grandi organizzazioni
internazionali, venuti come lui dall’Europa, che mandavano i figli nelle scuole
occidentali a 500 euro al mese, Urbani aveva preteso che Maddalena frequentasse
l’asilo con i bambini del posto, tant’è che la piccola parlava meglio il
vietnamita che l’italiano. Per Luca poi andare a giocare nella casa della
“colf” vietnamita era un premio: era solo una stanza per tutta la famiglia, non
c’era un giocattolo, ma aveva imparato che ci si diverte con poco... Dagli
Urbani, poi, lavoravano anche due ragazze vietnamite, non perché in casa ce ne
fosse bisogno ma perché Carlo voleva aiutare quella gente dando loro la dignità
di un lavoro. “A noi centomila lire in meno al mese che cosa tolgono? Loro ci
vivono mezzo anno”, diceva ogni volta che ne assumeva una».
Riflette Giuliana parlando con la giornalista Bellaspiga: «Ora mi chiedo
come faranno quelle povere ragazze, anche per loro è finito un sogno». E
aggiunge che per lei e per i figli «è stata dura tornare nell’agiatezza del
nostro occidente triste e frettoloso: per i figli, insieme alla perdita del
padre, è stato il trauma più grande».
Ma sulla vita intimamente spirituale il pudore della moglie cede la
parola ai pensieri che Carlo Urbani comunicava all’amica sr. A. Maria Vissani,
adC: «Qualche volta, magari incollati a un ventilatore per il caldo torrido che
c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, e ogni 15 giorni
partecipiamo alla messa per la comunità francofona della missione francese. La
messa è molto piacevole, semplice, sentita, ed è bello scoprire che quella
famiglia dei figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà
immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne e ossa,
ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come
questo. Ma poi soprattutto nella fede cerco in questo tempo la luce per
rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio... Ma i piccoli
lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma di dolore
lasciano sperare, e il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario
di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che
una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte».
A quella luce Urbani credeva, come documentano anche i servizi che
mandava alla rivista Missioni Consolata, dove alternava a pensieri sulla realtà
delle mine e dell’ Aids il conforto di una contemplazione del creato che gli
faceva vedere la Cambogia come «un immenso sacrario, in cui le sofferenze inaudite
di un popolo hanno innaffiato di sangue gran parte dell’attuale vegetazione».
Zelia Pani
1 ALBONICO M. (a cura di), Carlo Urbani. Le malattie dimenticate,
Feltrinelli, Milano 2004.
2 BELLASPIGA L., Carlo Urbani. Il primo medico contro la Sars, Ancora,
Milano 2004.