INCONTRO TRA IL PAPA E BARTOLOMEO I

IL DIALOGO PUÒ RIPARTIRE

 

Non è stato solo un gesto di cortesia, ma una risposta a un preciso comando di Cristo. Sia il papa sia Bartolomeo I hanno ribadito la volontà di cercare l’unità. Non si sono tuttavia nascosti le difficoltà ancora da superare. Le due chiese su questo

sono pienamente d’accordo.

 

L’incontro a Roma tra Giovanni Paolo II e il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, è stato molto più che un semplice gesto di cortesia: sia per la circostanza storica in cui avveniva, il quarantesimo anniversario dello storico abbraccio che Paolo VI e il patriarca Atenagora si scambiarono a Gerusalemme nel gennaio 1964, sia perché consentiva di verificare la reciproca volontà di proseguire sulla strada del dialogo, in un momento in cui per varie vicende questo sembra quasi fermo. Era questo infatti il punto su cui era concentrata maggiormente l’attenzione di tutti.

In effetti il tema del dialogo ecumenico ha fatto da filo conduttore a tutto l’incontro, sia dei gesti liturgici, sia dei discorsi pronunciati e sia della dichiarazione comune emanata alla fine. Per esempio, suggestivi e pieni di significato ecumenico sono stati i gesti che hanno accompagnato la celebrazione eucaristica, la sera del 29 giugno, quando il papa e Bartolomeo I sono usciti insieme sul sagrato della basilica di San Pietro, nei loro splendenti paramenti, accomodandosi poi uno a fianco all’altro presso l’altare, e hanno quindi condiviso l’omelia e recitato insieme in greco il Credo niceno-costantinopolitano comune alle due chiese. Bartolomeo ha assistito alla celebrazione assieme alla sua delegazione ma per due volte è salito sul podio: la prima per scambiare il bacio di pace con il papa e la seconda, al termine, per benedire, dopo Giovanni Paolo II, i presenti.

 

RIAFFERMATA

LA VOLONTÀ DI DIALOGO

 

Ma al di là di questi gesti, pur carichi di significato e di simbolismo, c’era molta attesa per ciò che essi avrebbero detto, per cogliere dietro alle parole, senza dubbio accuratamente studiate, i loro sentimenti e le loro reali intenzioni. Anzitutto nel discorso del papa e nell’indirizzo di omaggio di Bartolomeo durante l’udienza del 29 mattina.

In questo primo intervento, Giovanni Paolo II ha voluto anzitutto dare un forte risalto all’esempio lasciato dal patriarca Atenagora I e dal papa Paolo VI con il loro incontro a Gerusalemme, quarant’anni fa, auspicando che il ricordo di quell’incontro abbia a provocare un balzo in avanti nel dialogo e nel rinsaldamento delle mutue relazioni fraterne. È stato quello un avvenimento che ha spalancato le porte a tutta una serie di altri incontri, prima di allora inimmaginabili.

«Non possiamo dimenticare, ad esempio, ha detto il papa, lo scambio di visite fra Paolo VI e il patriarca Atenagora I nel 1967. Conservo, poi, viva memoria della mia visita al Fanar nel 1979 e dell’annuncio, con il patriarca Dimitrios I, dell’inizio del dialogo teologico. Ricordo, inoltre, la visita a Roma del patriarca Dimitrios I, nel 1987, e quella di vostra Santità, nel 1995, a cui hanno fatto seguito altre significative occasioni di incontro. Sono tanti segni del comune impegno di continuare a percorrere la strada intrapresa, perché si realizzi quanto prima la volontà di Cristo: ut unum sint!». Si è quindi rammaricato per le dolorose vicende della storia passata, in particolare per quanto accadde nel mese di aprile del 1204, quando un esercito partito per recuperare la Terra Santa alla cristianità, si diresse verso Costantinopoli per prenderla e saccheggiarla, versando il sangue di fratelli nella fede. E ha aggiunto: «Come non condividere, a distanza di otto secoli, anche noi lo sdegno e il dolore che, alla notizia di quanto era successo, manifestò subito il papa Innocenzo III?».

Più specificamente, sul tema del dialogo, ha sottolineato che strumento importante rimane la “Commissione mista” che dall’incontro di Baltimora, nel 2000, è ferma. Egli ha espresso il desiderio che i lavori possano riprendere al più presto.

Creata nel 1979, in seguito all’incontro tra lo stesso Giovanni Paolo II e l’allora patriarca ecumenico Demetrios, la commissione si è riunita varie volte e ha potuto annoverare al suo attivo risultati positivi come nelle sessioni plenarie di Monaco (1982), Creta (1984), Bari (1986-1987) e Valamo, in Finlandia (1988). A fare da freno è stato invece soprattutto lo spinoso problema dei cosiddetti “uniati”, ossia dei greco-cattolici che vivono in territori ortodossi, ma sono uniti a Roma. Il problema era stato al centro soprattutto dei due incontri di Frisinga (Germania, 1990) e di Balamond (Libano, 1993): da quest’ultimo uscì l’importante documento L’uniatismo, metodo di unione del passato, e la presente ricerca della piena comunione. L’argomento, riaffiorato nuovamente a Baltimora, bloccò i lavori della commissione che, come abbiamo detto, da allora non si è più riunita.

Il dialogo tra le due chiese tuttavia non si è interrotto del tutto: era solo sospeso. Un segno della volontà di ripartire era stata, per esempio, la celebrazione, nel maggio 2002, di un simposio organizzato dal pontificio Consiglio per la promozione dell’unità fra i cristiani sul tema, anch’esso cruciale per i rapporti ecumenici, del primato di Pietro. Il simposio si poneva in collegamento con la richiesta avanzata dallo stesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, in cui egli chiedeva che fossero discusse le forme dell’esercizio del primato.

 

L’OSTACOLO

DEL PRIMATO

 

Da parte sua, il patriarca Bartolomeo, pur auspicando che si attui il desiderio di Gesù, espresso nella sua preghiera sacerdotale, “che siano uno come noi siamo uno”, ha lasciato chiaramente intendere che le divergenze tra Roma e Costantinopoli riguardano proprio il modo di intendere e di esercitare il primato – che come è noto, per Roma non è solo di onore, con il papa primus inter pares, ma anche di giurisdizione – e quindi il suo esercizio in un’eventuale possibile futura unità.

Ha detto: «L’unità delle Chiese e dei loro membri fedeli non deve essere la loro subordinazione sotto un unico schema amministrativo, e neanche una collaborazione analoga alle collaborazioni tra gli stati, né un’alleanza ideologica o di azione per il raggiungimento di uno scopo comune. È la più profonda e totale incorporazione della nostra esistenza in Cristo, nel quale e tramite il quale viviamo la nostra unione come evento spirituale. Perciò, anche i dialoghi tra le nostre Chiese – pur occupandosi delle differenti concezioni di ogni Chiesa su concrete questioni dogmatiche ed ecclesiastiche, e pur cercando di favorire la comune accettazione della concezione retta per il raggiungimento dell’unione nella fede e nella prassi della Chiesa – infine mirano alla comunicazione dell’esperienza proveniente dalla comunione di ognuno con Cristo, così da fare l’unità nel vissuto di lui, come persona che ricapitola in sé tutto, nell’unione delle persone della Santissima Trinità».

Bartolomeo è ritornato indirettamente su questo argomento nell’omelia durante la celebrazione eucaristica, lasciando intendere che il cammino verso l’unità rimane per ora una speranza e un auspicio. Non si possono infatti eliminare in quarant’anni, ha sottolineato, le contrapposizioni che si sono accumulate durante novecento anni».

Ma ha aggiunto: «La speranza – che procede con la fede e con l’amore che sempre spera – è uno dei doni importanti di Dio. Anche noi speriamo che ciò che non è stato possibile fino ad oggi, sarà ottenuto in futuro e, ce lo auguriamo, in un futuro prossimo. Forse sarà un futuro lontano, ma la nostra attesa e il nostro amore non sono costretti entro brevi limiti temporali».

Una decisa volontà di proseguire nel cammino intrapreso è stata nuovamente confermata dal papa, nell’omelia durante la medesima celebrazione, durante la quale ha ribadito: «Il nostro incontro odierno non è solo un gesto di cortesia, ma una risposta al comando del Signore. Cristo è il capo della Chiesa e noi vogliamo insieme continuare a fare quanto è umanamente possibile per colmare ciò che ancora ci divide e ci impedisce di comunicare allo stesso Corpo e Sangue di Cristo».

Ritornando quindi sull’incontro tra Paolo VI e Atenagora a Gerusalemme, ha sottolineato che quel gesto non rappresenta solo un ricordo, ma è «una sfida per noi». Dopo aver sottolineato che l’unità dei cristiani «è anzitutto dono di Dio», ha definito «irrevocabile» l’impegno assunto dalla chiesa cattolica dal concilio Vaticano II e che, pertanto, «ad esso non si può rinunciare».

Questo impegno è stato quindi confermato da ambedue le parti nella “dichiarazione comune”.

 

IL VERO PROBLEMA

È L’ECCLESIOLOGIA

 

Come si può notare da una lettura attenta di queste affermazioni, ciò che pregiudica oggi il pieno raggiungimento dell’unità tra Roma e Costantinopoli è soprattutto il problema ecclesiologico, ossia il modo diverso di intendere la Chiesa e le sue articolazioni.

Come ha affermato anche il noto teologo ortodosso Olivier Clément, in un’intervista al quotidiano Avvenire (30 giugno 2004), dal punto di vista liturgico l’accordo è totale; vi sono solo delle differenze che sono accettate come un mutuo arricchimento. Anche il problema del “filioque” potrà essere superato: «I problemi più complicati restano invece quelli dell’ecclesiologia».

Ma bisogna anche convenire che i rapporti ecumenici, oggi, non sono frenati solo da questioni di carattere teologico, ma anche da situazioni contingenti che riguardano sia il mondo ortodosso sia la stessa chiesa di Roma.

In campo ortodosso esiste, per esempio, una forte tensione tra la sede patriarcale di Costantinopoli e la chiesa ortodossa greca. Il contenzioso è sorto quando nel marzo scorso la chiesa greca ha deciso di nominare tre vescovi nel nord del paese, in seguito a una riunione, definita da alcuni «tumultuosa» del santo sinodo. Non si è trattato di semplici nomine, ma di una specie di dichiarazione di guerra della chiesa greca contro il patriarca Bartolomeo; alcuni hanno parlato persino di uno scisma. Le tre diocesi in questione, tra cui l’importante sede di Tessalonica, seconda città per importanza del paese, sono situate in quelli che convenzionalmente sono chiamati i “nuovi territori”. Fino al 1912 essi appartenevano all’impero ottomano e le 35 diocesi che erano situate in quel territorio dipendevano direttamente dal patriarcato di Costantinopoli e non dalla giovane chiesa greca, indipendente dal patriarcato, ma sempre in comunione con esso. Dopo le guerre balcaniche e la riconquista di queste terre da parte della Grecia, Costantinopoli rinunciò alla giurisdizione su quelle diocesi, e in seguito a un accordo del 1928 le affidò alla chiesa di Grecia. Atene tuttavia si impegnava a inviare i nomi dei nuovi vescovi al patriarca di Costantinopoli per l’approvazione.

L’iniziativa unilaterale della chiesa greca ha suscitato una reazione veemente del patriarca Bartolomeo che è giunto al punto di minacciare l’arcivescovo Christodoulos di Atene di scomunica.

Ma una certa tensione, non ancora rientrata esiste, come è noto, anche tra Costantinopoli e la chiesa russa per questioni riguardanti problemi di giurisdizione sulle chiese di Ucraina ed Estonia.

In campo cattolico sono risaputi i difficili rapporti che attualmente intercorrono tra Roma e la chiesa ortodossa russa per le note vicende riguardanti il presunto proselitismo, i cosiddetti uniati (i greco-cattolici) e altre incomprensioni. Olivier Clément, nella citata intervista, ha detto francamente a questo riguardo: «I russi dovrebbero comprendere che ciò che accadde quando Stalin liquidò la chiesa greco-cattolica in Ucraina, fu un crimine che vide la chiesa ortodossa russa dell’epoca più o meno complice. Questi eventi dovrebbero diventare oggi l’occasione di una iniziativa nel segno della domanda di perdono. Questa volta, però, da parte del mondo ortodosso».

A turbare inoltre i rapporti con la chiesa russa è la richiesta avanzata a Roma da parte dei cattolici ucraini di rito orientale (greco cattolici) di istituire un patriarcato per la loro chiesa con sede Kiev, (in un territorio cioè che la chiesa russa considera canonicamente suo) suscitando le ire del patriarca di Mosca Alessio e quelle dell’intero universo ortodosso. Anche il patriarca Bartolomeo ha reagito molto duramente a questa richiesta, mentre Alessio ha minacciato di chiudere definitivamente il dialogo ecumenico con Roma se questo dovesse avvenire.

Per ora il problema rimane congelato. Ma i greco cattolici ucraini non intendono demordere. Il sinodo di questa chiesa, guidata dal card. Lubomyr Husar, ha invitato a non cedere ai “ricatti” di Mosca. Ma è improbabile che Roma intenda compiere un gesto così rischioso che risulterebbe fatale per il dialogo ecumenico non solo con Mosca ma con tutta l’ortodossia.

Una scelta del genere, per quanto legittima, finirebbe infatti col sedimentare chissà per quanto tempo altri ostacoli su una tormentata storia di rapporti che di difficoltà ne ha conosciute già troppe nel corso dei secoli.

L’incontro tra il papa e il patriarca ortodosso Bartolomeo è comunque un segno che esiste da ambedue le parti la volontà di proseguire nel cammino intrapreso. È un gesto di speranza da cui poter ora ripartire, come ha lasciato intendere anche il patriarca Bartolomeo, il quale ha dichiarato: «C’è da entrambe le parti la volontà di proseguire il dialogo. Si spera di riprendere i lavori della commissione mista entro l’inizio del prossimo anno».                                                                                        

A. Dall’Osto