DIECI ANNI DAL MASSACRO IN RWANDA

FERITE ANCORA APERTE

 

A dieci anni dai terribili massacri perpetrati in Rwanda, il paese e tutta la zona dei Grandi Laghi rimane avvolta nell’incertezza. I disordini continuano a generare una situazione di instabilità dove tutto potrebbe nuovamente esplodere.

Perché tutto questo è successo?

 

Uno “Speciale” dedicato al decennio dei massacri perpetrati in Rwanda fino poi a coinvolgere l’intera zona dei Grandi Laghi non deve sembrare inconsueto per la nostra rivista che spesso e volentieri si occupa dei problemi dei cosiddetti paesi di missione. Non si tratta solo di fare memoria, ma di approfondire una situazione che si è svolta un po’ ai margini dell’attenzione mondiale e le cui risonanze continuano ancor oggi a essere quasi del tutto ignorate, al contrario, per esempio, di quanto sta avvenendo in Iraq.

È importante cercare di riandare alle origini di questa vicenda anche perché certi drammi continuano ancor oggi a insanguinare tanti paesi africani. Ci si accorgerà che dietro di essi ci sono sempre delle grosse responsabilità i cui autori sono rimasti spesso impuniti.

Per quanto riguarda il Rwanda, poco si è detto, secondo noi, di certi aspetti del problema rwandese e delle conseguenze del nuovo ordine stabilito nel paese dopo il genocidio. Il massacro non ha riguardato, purtroppo, un’unica etnia. Esso è stato preceduto da una situazione di ingiustizia che ha provocato la rivoluzione sociale del 1959, la quale ha preparato il ritorno o l’invasione violenta dei tutsi di Paul Kagame. E poi ha preparato la politica egemonica dello stesso presidente rwandese che ha tenuto nella guerra per almeno otto anni l’intera zona del Kivu, con grandi sofferenze della popolazione e aumentando l’instabilità politica della regione. Ancora in questi giorni (giugno) c’è chi è sicuro che Kagame è dietro le turbolenze che hanno interessato alla fine di maggio e giugno il sud Kivu e di riflesso la capitale Kinshasa. Il pretesto per fare la guerra è sempre quello: difendere i tutsi, i Banyamulenge in questo caso. Ma è lecito chiedersi se non ci siano altri interessi egemonici, e se non ci sia da parte delle nazioni occidentali un po’ troppa indulgenza nei giudizi su Kagame e sulla sua politica. Si direbbe che ci si debba ancora far perdonare il genocidio. Non siamo forse ancora una volta di fronte alla vittima che diventa carnefice? In tutta la vicenda rwandese è illuminante il seguente articolo di Hervé Cheuzeville consigliere umanitario specialista della regione dei Grandi Laghi.1

 

 

Il genocidio rwandese è di nuovo in prima pagina._Ci sono state prima di tutto le rivelazioni del giornale Le Monde sull’inchiesta del giudice Bruguière a proposito delle circostanze della morte del Presidente Juvénal Habyarimana, e la conseguente polemica tra Kigali e Parigi.

E ora, all’arrivo del decimo anniversario di quell’attentato che avrebbe precipitato il Rwanda in tre mesi di follia sanguinaria, sono state pubblicate numerose testimonianze mentre parecchi giornalisti, diventati scrittori, offrono la loro visione di ciò che, secondo loro, è veramente successo nei tre mesi dall’aprile al luglio 1994.

 

Tali scritti e reportages non mi pare riflettano tutti la totalità dei fatti riguardanti il genocidio: spesso non si parla che di una categoria di vittime e di un solo periodo della tragedia rwandese, quello cioè che va dalla distruzione dell’aereo presidenziale il 6 aprile 1994 fino all’entrata nella capitale delle truppe del Front Patriotique Rwandais (FPR) nel luglio dello stesso anno. In realtà, il dramma non era cominciato nell’aprile 1994 e non si è interrotto dopo tre mesi. Il sangue dei rwandesi aveva cominciato a scorrere molto tempo prima e ha continuato molto tempo dopo. Certo, in quei mesi di follia assassina, l’orrore ha raggiunto il parossismo.

Ma ciò non deve farci dimenticare l’insieme delle vittime di questa tragedia, siano esse tutsi o hutu.

Troppo spesso si usa l’espressione «genocidio tutsi», come si parla – a ragione in questo secondo caso – del «genocidio degli ebrei». Se si deve parlare di genocidio, per parte mia preferisco parlare più semplicemente di un «genocidio rwandese». Per giustificare il mio punto di vista, conviene fare due richiami, uno d’ordine etnologico e uno d’ordine storico.

 

RICHIAMO ETNOLOGICO

E STORICO

 

Chi sono i tutsi e chi sono gli hutu? Contrariamente a un’opinione molto diffusa, non si tratta di tribù antagoniste. I tutsi e gli hutu parlano la stessa lingua (il kinyarwanda in Rwanda e il kirundi in Burundi) e vivono sulle stesse terre e sulle stesse colline. Non esiste una «Tutsiland» o una «Hutuland». La nozione di tutsi e di hutu corrisponde più a una nozione di classe che di tribù o di etnia. Gli antichi regni del Rwanda e del Burundi erano diretti da una élite essenzialmente pastorale, i tutsi, che dominava la massa dei contadini coltivatori, gli hutu. Era possibile perfino che un hutu che emergeva diventasse tutsi per nomina del sovrano. Esistono, ancora oggi, molti matrimoni tra le due classi. Tuttavia, seguendo la tradizione patriarcale della società, un bambino nato da madre hutu e da padre tutsi deve essere considerato come tutsi, mentre un altro nato da madre tutsi e da padre hutu, sarà senz’altro hutu. Di qui l’assurdo di certe situazioni in cui una persona è considerata tutsi quando tre dei suoi nonni possono essere hutu e viceversa.

Il sistema descritto qui sopra è stato purtroppo ripreso dal colonialismo tedesco prima e belga poi. Il colonizzatore ha creduto di potere distinguere una razza «superiore» (i tutsi) e una razza «inferiore» (gli hutu). È per questo che i tutsi furono privilegiati dai colonizzatori, in modo particolare nel campo dell’educazione dove il 90% degli scolari erano d’origine tutsi anche se gli hutu rappresentavano l’85% della popolazione. Per la stessa ragione la cosiddetta origine etnica degli «indigeni» fu iscritta nello stato civile, cristallizzando in tal modo il sistema feudale ereditato dal periodo precoloniale.

All’emergere del nazionalismo un po’ dappertutto in Africa, in modo del tutto naturale, furono le élites secolarizzate, ossia i tutsi, che cominciarono a rivendicare l’indipendenza, sia in Rwanda che in Burundi. Questo fatto portò i belgi a cambiare tattica, in Rwanda, verso la metà degli anni 1950 e a favorire l’emergere di una nuova élite, questa volta hutu, per contrastare le rivendicazioni nazionaliste. I leader hutu, da parte loro, preferivano rivendicare l’eguaglianza e la democrazia.

Ne venne fuori, prima ancora dell’indipendenza, quella che in Rwanda si è chiamata la «rivoluzione sociale » del 1959. Essa vide la presa del potere da parte dei partiti a prevalenza hutu con l’appoggio benevolo di Bruxelles. Durante quella rivoluzione, come in tutte le rivoluzioni, sono state purtroppo commesse delle ingiustizie. Tutsi e hutu rimasero uccisi nel corso di scontri fratricidi.

Molti tutsi perdettero i loro possedimenti e furono costretti all’esilio nei paesi limitrofi. La maggioranza dei tutsi tuttavia rimase, ma perdette il predominio politico.

Al momento dell’indipendenza la maggioranza hutu vinse le elezioni e ebbe la direzione del paese, emarginando, da un punto di vista politico, i tutsi.

A questo punto è importante notare come nel vicino Burundi si produsse esattamente il contrario con una dirigenza, prima monarchica e poi militare, d’origine tutsi che tenne in mano il potere eliminando in modo cruento ogni velleità d’opposizione da parte della maggioranza hutu. Si tratta di un aspetto della realtà che è importante sottolineare, perché questi due paesi furono considerati per molto tempo come degli specchi l’uno per l’altro.

La sorte degli hutu del Burundi ha contribuito molto a produrre dei riflessi condizionati negli hutu rwandesi, come del resto quella dei tutsi rwandesi ha contribuito a portare i governanti tutsi del Burundi a posizioni radicali.

 

COLPO DI STATO

MILITARE

 

Nel 1973 si ebbe un colpo di stato militare a Kigali che rovesciò il presidente hutu che aveva portato il paese all’indipendenza. Egli fu sostituito con un generale hutu, Juvénal Habyarimana. Un altro dettaglio importante da tenere presente: il nuovo presidente era un hutu del nord, mentre il suo predecessore era originario del sud. Dei dirigenti politici e militari provenienti dal nord del Rwanda presero il posto di quelli del sud e questo mostra che le spaccature rwandesi non sono soltanto hutu/tutsi. L’arrivo al potere di Habyarimana fu, in genere, ben accolto dalla minoranza tutsi, perché il nuovo presidente mise fine a una serie di ingiustizie di cui essa era stata vittima durante i mesi precedenti il putsch. Difatti alcuni tutsi entrarono nei differenti governi del presidente Habyarimana, anche se il vero potere è sempre stato nelle mani della nuova dirigenza hutu del nord scelta dal nuovo leader. Quest’ultimo creò un partito unico, il Mouvement Révolutionnaire National pour le Développement (MRND), che controllò tutti gli ingranaggi della vita politica rwandese, alla maniera della maggior parte degli stati africani negli anni 1970. Ciononostante, il nuovo regime godeva di una buona immagine in occidente, certo migliore di tanti altri regimi africani. L’amministrazione era efficiente e la corruzione meno diffusa che altrove. Gli aiuti per lo sviluppo ricevuti dall’Europa erano meglio utilizzati. Ancora oggi, se uno viaggia attraverso il Rwanda, soprattutto se viene dai paesi limitrofi, è impressionato dalla qualità delle infrastrutture, tutte ereditate dall’epoca di Habyarimana: la rete stradale asfaltata, le sale comunali, le scuole e i dispensari rurali, ecc… Sforzi notevoli furono compiuti nel campo dell’istruzione. Non voglio dire, con questo, che quel regime fosse idilliaco, ma sarebbe sbagliato volerlo giudicare oggi attraverso il prisma deformante degli avvenimenti che hanno insanguinato il paese negli anni 1990.

Durante tutto questo periodo (1959-1990), parecchie generazioni di tutsi crebbero in esilio nei paesi vicini.

A nord del Rwanda, l’Uganda conobbe molti anni di instabilità politica, di dittature e di guerre. A partire dal 1981, la NRA (National Resistence Army), una formazione di guerriglieri fatta soprattutto di combattenti originari del sud-ovest del paese (cioè della regione al confine con il Rwanda) si mise a combattere contro il governo del presidente Milton Obote, a predominanza nordista. Questi se la prese allora con i rifugiati tutsi di origine rwandese sospettati di sostenere la NRA. Le vessazioni del regime di Obote ai danni di questa comunità spinsero molti giovani tutsi a entrare nella guerriglia. Quando in gennaio 1986 la NRA s’impadronì della capitale Kampala e del potere, il suo esercito comprendeva una forte percentuale di tutsi d’origine rwandese. Il nuovo presidente, Yoweri Museveni, nominò numerosi tutsi nei ranghi direttivi del paese, sia civili che militari. Fu così che Fred Rwigyema, futuro capo del FPR, divenne vice-ministro della difesa e che Paul Kagame, attuale presidente del Rwanda, divenne capo dei servizi segreti dell’esercito ugandese. Museveni era debitore, almeno in parte, della vittoria ai suoi amici tutsi. Ma nello stesso tempo, la forte presenza tutsi in seno al nuovo regime, disturbava molti ugandesi che vedevano di cattivo occhio quello che essi sentivano come una dominazione sull’Uganda da parte dei tutsi. Nello stesso tempo, questi nuovi leader tutsi speravano di poter utilizzare la loro nuova influenza per cercare di riconquistare la loro patria perduta, il Rwanda, che molti di loro non avevano mai conosciuto, essendo nati in Uganda. Il nuovo governo ugandese fece dei passi presso le istanze internazionali in vista di mettere termine alla questione dei rifugiati rwandesi. Forti pressioni furono esercitate sul presidente Habyarimana perché accettasse il principio di un ritorno di quei rifugiati. Una serie di negoziati fu avviata tra i due governi, sotto gli auspici dell’Alto Commissariato dell ONU per i rifugiati (HCR).

Tuttavia, senza attendere la fine di queste trattative, il 1 ottobre 1990, una parte dell’esercito ugandese «disertò» con armi e bagagli per attraversare la frontiera e attaccare le posizioni dell’esercito rwandese. Erano elementi tutsi di quell’esercito, al comando di Fred Rwigyema (ucciso nei primi giorni di guerra) e di altri ufficiali anch’essi tutsi. Nasceva così il Fronte Patriottico Rwandese (FPR). Il presidente Museveni ha sempre negato ogni responsabilità in questo attacco a sorpresa, ma è impensabile che l’uomo forte di Kampala non sia stato tenuto al corrente dei progetti di una parte del suo esercito. E il sostegno da lui dato ai suoi ex colleghi durante tutta la guerra del Rwanda, mostra che egli era d’accordo con essi.

La data dell’1 ottobre è estremamente importante nella genesi della tragedia rwandese: si deve sottolineare che i primi a sparare in questa guerra sono stati degli uomini armati, d’origine tutsi, provenienti da un esercito straniero. L’Uganda non fu mai condannata dalle istanze internazionali per questo attacco. Invece la pressione internazionale sul regime di Kigali andò crescendo affinché stabilisse il multipartitismo e negoziasse con gli aggressori. L’ONU impose anzi l’embargo sulla vendita delle armi al Rwanda, mentre, da parte sua, il FPR continuò per tutta la durata della guerra a essere fornito di armi e munizioni attraverso l’Uganda.

In seguito a questa aggressione del Rwanda il governo francese decise di mandare un contingente di truppe in Rwanda. Scopo ufficiale dell’operazione era di proteggere i cittadini francesi ed europei che si trovavano nel paese. Ma la vera ragione era di aiutare un governo amico, vittima di un’aggressione militare proveniente dall’estero.

È giusto rimproverare al governo francese di aver nascosto alla propria opinione pubblica e a quella internazionale la vera natura del suo intervento militare. Ma è disonesto giudicare questo intervento in relazione ai massacri dell’aprile 1994 che si sono svolti tre anni e mezzo dopo lo scoppio della guerra provocato dal FPR. All’epoca dell’intervento francese esistevano degli accordi di difesa tra il governo del Rwanda, legittimo e internazionalmente riconosciuto, e la Francia.

 

MASSACRI

SU GRANDE SCALA

 

Dall’inizio della guerra nell’ottobre 1990, il FPR commise dei massacri su grande scala nei confronti delle popolazioni hutu del nord del paese. Questo provocò un esodo massiccio di quelle popolazioni, che vennero ad ammucchiarsi nei campi attorno alla capitale. È in tale contesto che la propaganda anti-tutsi iniziò la sua opera insidiosa e distruttrice: «Visto che sono i tutsi che hanno attaccato il paese, tutti i tutsi ne sono colpevoli. I tutsi dell’interno sono la quinta colonna del FPR». È vero che un simile sentimento era incoraggiato dal fatto che numerose famiglie tutsi dell’interno avevano mandato i loro figli in Uganda, affinché di là si potessero unire all’esercito del FPR. I profughi hutu del nord del paese, molti dei quali avevano avuto dei familiari uccisi dal FPR, furono particolarmente sensibili a questa propaganda anti-tutsi. In questo modo si era preparato il terreno al genocidio perpetrato tra l’aprile e il luglio 1994.

In questo contesto di invasione e di propaganda astiosa fu introdotto il multipartitismo in Rwanda. Non era il momento migliore per fare questo passo verso la democrazia, ma così si fece sotto la pressione della comunità internazionale. Questa fu l’occasione per numerosi dirigenti politici di esporsi sulla scena politica e di costruirsi una base politica cavalcando l’onda «etnica», cioè anti-tutsi. È in questo periodo che apparve la tristemente famosa RTLM (Radio Télévision Libre des Mille Collines) che, come altre nuove pubblicazioni, contribuì ad attizzare l’odio contro il nemico estero, ma anche interno, ossia contro la comunità tutsi in generale. Tuttavia nel campo della propaganda dell’odio, il FPR non era da meno con l’istallazione della «Radio Muhabura». Bisogna precisare che questa deriva d’odio non colpì solo l’apparato dell’ ex partito unico, ma fece incancrenire nello stesso tempo la folla dei nuovi partiti, compresi quelli dell’opposizione e lo stesso FPR. Ed è ancora in questo contesto torbido che furono formati e che si intese parlare per la prima volta degli «interahamwe».

Il presidente Habyarimana cedette alle pressioni esterne e accettò di trattare direttamente con il FPR. In agosto 1993 fu firmato ad Arusha (Tanzania) un accordo sulla condivisione del potere tra il regime, l’opposizione politica e il FPR, come pure sulla fusione dei due eserciti (le Forze armate rwandesi, FAR, del governo e l’Esercito patriottico rwandese del FPR) in un nuovo esercito nazionale. Habyarimana aveva abbandonato molta zavorra sia sul piano politico che militare. Nel quadro di quegli accordi di Arusha l’ONU mandò una forza d’interposizione per separare i due eserciti e garantire quel cessate-il-fuoco che era stato previsto dagli accordi.

La Francia dovette rimpatriare il suo contingente e un contingente militare del FPR fu acquartierato nella stessa città di Kigali.

 

UN AEREO

ABBATTUTO

 

La sera del 6 aprile 1994, dopo una conferenza regionale sulla crisi rwandese, tenuta, su richiesta del presidente ugandese, a Dar-es-Salaam, l’aereo presidenziale fu abbattuto da due missili, mentre era in fase d’atterraggio all’aeroporto internazionale di Kigali. A bordo c’era non solo il presidente Juvénal Habyarimana, ma anche il suo collega burundese con due dei suoi ministri, il capo di stato maggiore delle FAR e tre consiglieri del presidente rwandese. L’equipaggio era composto da tre ufficiali francesi. Cosa incredibile in un caso come questo, nessuno richiese un’inchiesta per stabilire le cause esatte del crash, malgrado ci fosse un voto in tal senso del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E tuttavia era un attentato terroristico che era costato la vita a due capi di stato in funzione.

La notte stessa della morte del presidente, cominciarono i massacri a Kigali. Nei giorni seguenti si sarebbero estesi al resto del paese controllato ancora dal governo rwandese. Gli oppositori del regime, conosciuti per il loro sostegno all’accordo di Arusha, tutsi o hutu che fossero, furono presi di mira in modo speciale (fu così che Agathe Uwilingiyimana, primo ministro del governo di transizione, fu assassinata già l’8 aprile). È innegabile che la comunità tutsi fu sistematicamente presa di mira in questi massacri, condotti dagli interahamwe, ma anche da certi elementi della pubblica amministrazione, dell’esercito e della gendarmeria rwandese.

Si deve ricordare che, quando ancora la notizia della morte di Habyarimana non era stata resa pubblica, la sera stessa dell’«incidente», Kagame ordinò alle sue truppe, sia quelle che occupavano il nord come quelle acquartierate a Kigali, di rompere il cessate-il-fuoco e di lanciare un’offensiva generale. Kagame era dunque al corrente della morte del presidente e decise che quella era l’occasione propizia per il FPR per prendere rapidamente il potere. E fece questo calcolo malgrado conoscesse perfettamente lo stato di tensione «etnica» del suo paese, non preoccupandosi per nulla delle conseguenze che una simile decisione avrebbe comportato per la popolazione civile nel resto del paese e, in particolare, per la comunità tutsi.

Ma c’è di più. Le recenti rivelazioni de Le Monde a proposito dei risultati dell’inchiesta del giudice Bruguière (inchiesta aperta in seguito alla querela introdotta dalle famiglie dell’equipaggio francese) confermano i pesanti sospetti che gravano sullo stesso Kagame: sarebbero stati i suoi uomini di stanza a Kigali che, per suo ordine, avrebbero abbattuto l’aereo presidenziale con dei missili ricevuti dall’Uganda. L’attuale uomo forte di Kigali ha dunque coscientemente interrotto il processo di pace in corso per riprendere la guerra, gettando in tal modo il Rwanda nella più spaventosa tragedia della sua storia. D’altra parte, mentre i massacri dei tutsi si svolgevano su grande scala, il FPR per suo conto non restava indietro nelle atrocità, massacrando migliaia di hutu nelle zone sotto il suo controllo e in balia della sua offensiva lampo.

Fu la paura del FPR a scatenare l’esodo immenso di centinaia di migliaia di rwandesi verso la frontiera dello Zaire. Certo, molti di coloro che hanno perpetrato i massacri anti-tutsi, sia i leader che gli esecutori, ebbero la possibilità di unirsi a questo esodo e molti poterono così rifugiarsi fuori del paese.

Ciò non vuol dire tuttavia che il milione di hutu stipato nei campi dei rifugiati in Zaire fosse composto solo di «génocidaires», come troppo spesso si è voluto far credere. La maggioranza di quei rifugiati erano dei poveri rwandesi che non si erano mescolati né poco né tanto al genocidio. Essi erano scappati per paura del FPR. Quelli che venivano dal nord del paese avevano, del resto, avuto occasione, prima del genocidio, di conoscere la brutalità del FPR. La loro non era quindi una paura infondata.

 

ULTERIORI

MASSACRI

 

Durante questo esodo l’ONU, che si era precipitosamente ritirata all’inizio dei massacri d’aprile, diede mandato alla Francia di cercare di stabilire una zona di sicurezza all’interno stesso del paese. Questa è l’origine dell’ «operazione Turquoise», alla quale si rimprovera di aver «aiutato i massacratori». Anche qui si deve ristabilire la verità. L’«operazione Turquoise», che prese il controllo della terza parte del Rwanda (la parte sud-occidentale) per alcune settimane, ha permesso che finissero i massacri in quella parte. Certo, i francesi non vi hanno probabilmente messo termine in modo abbastanza rapido ed è vero che numerosi tutsi sono stati ancora massacrati dopo l’arrivo dei primi uomini dell’«operazione Turquoise». Ma è altrettanto vero che ci sarebbero state molte più vittime e per un periodo più lungo, se non ci fosse stata questa operazione. E questa tappa transitoria, seguita dall’arrivo dei Caschi blu dopo il ritiro dei francesi, ha permesso di evitare che l’FPR prendesse il controllo di questa regione in modo brutale, evitando così altri massacri, come quelli perpetrati dagli uomini di Kagame nelle altre regioni. È purtroppo vero che molti criminali hanno potuto raggiungere lo Zaire grazie alla presenza dei francesi. In un così breve periodo di presenza, i francesi non hanno mai avuto i mezzi per stabilire un controllo ermetico e assoluto della loro zona.

Nel periodo seguito alla presa del potere da parte del FPR, questo ha continuato a massacrare gli hutu, come nel caso del massacro di migliaia di profughi nel campo di Kibeho in aprile 1995. Ma la comunità internazionale, ancora sotto lo choc provocato dall’ampiezza dei massacri dell’aprile-luglio 1994, non ha mai voluto reagire ai massacri commessi dai nuovi padroni del Rwanda. Costoro hanno sempre usato il ricordo del genocidio per imporre il nuovo ordine del terrore e commettere molti crimini contro l’umanità. Godendo sempre della benevola simpatia della comunità internazionale, e grazie al sostegno diretto dell’amministrazione americana e del governo britannico, il nuovo regime rwandese ha programmato il suo intervento militare in Zaire, il cui obiettivo era di finirla una buona volta con il problema della presenza di più di un milione di rifugiati rwandesi alle porte del Rwanda. Per questo fu scatenata la guerra d’ottobre 1996 che ha provocato numerosi massacri di grande ampiezza, questa volta in Zaire. Le prime vittime furono i rifugiati rwandesi costretti a un nuovo esodo. Centinaia di migliaia di essi non ebbero altra scelta che rientrare in Rwanda, senza alcuna garanzia per la loro sorte futura. Altre centinaia di migliaia furono perseguiti e massacrati dall’esercito del FPR nella grande foresta equatoriale dello Zaire. Alcune migliaia giunsero ad attraversare, a prezzo di terribili sofferenze, quell’immenso paese per giungere in Zambia, in Congo-Brazzaville, in Repubblica Centrafricana e perfino in Gabon. Ma quanti sono morti? Non meno di 200.000, se crediamo alle statistiche dell’HCR.

E non si venga a dire che tutti questi uomini, donne e bambini erano dei «massacratori». Certo, tra loro nei campi dello Zaire c’erano elementi interahamwe et ex militari delle FAR, ma non erano che una piccola minoranza.

Altre vittime, probabilmente più numerose, ci furono fra gli zairesi. Tra queste ultime, molte erano degli zairesi di origine hutu, sistematicamente considerati come nemici dell’Esercito patriottico rwandese, e messi sullo stesso piano dei rifugiati hutu rwandesi. Ma soprattutto si deve dire che questo attacco del regime di Kigali contro lo Zaire è ciò che ha messo in moto l’interminabile tragedia congolese: due guerre dall’ottobre 1996, perpetrate dall’esercito di Kagame e di Museveni. La seconda guerra non è ancora del tutto finita, i massacri continuano nei confronti della popolazione civile congolese nelle province orientali della Repubblica democratica del Congo. In totale, queste due guerre avrebbero causato, in modo diretto o indiretto, la morte di più di quattro milioni di persone. Inoltre durante questi anni le risorse e le infrastrutture di questo immenso paese sono state abbondantemente saccheggiate dalle forze d’occupazione e dai loro alleati.

Da dieci anni in Rwanda il regime di Kagame si è nascosto dietro una sembianza di governo d’unione nazionale che comprende altri partiti oltre il FPR e include una maggioranza di ministri hutu. Tuttavia il vero potere è sempre stato nelle mani di Paul Kagame e del suo piccolo gruppo di ufficiali tutsi rientrati dall’Uganda. Questa realtà si è fatta sempre più evidente col passare degli anni, con le defezioni successive di parecchi primi ministri, di ministri e di altri alti funzionari che si sono salvati solo fuggendo all’estero. Tutti gli alleati di Kagame, passati all’opposizione, sono stati inevitabilmente dichiarati «massacratori» dal regime dopo la loro defezione, e questo malgrado la loro lunga collaborazione con il FPR. Perfino il più fedele tra i fedeli, Pasteur Bizimungu, un hutu entrato nel FPR già dall’inizio della guerra e che è stato presidente della repubblica dal 1994 al 2000, è stato costretto a dimettersi ed è stato gettato in prigione con l’accusa di aver tentato di creare un nuovo partito politico.

Quanto a Joseph Sebarenzi, presidente tutsi dell’assemblea nazionale messa in piedi nel 1994, si è rifugiato negli Stati Uniti. Altri hanno avuto meno fortuna di lui, perché, pur rifugiatisi all’estero, sono finiti sotto i colpi dei killer mandati da Paul Kagame. Così è successo a Seth Sendashonga, un hutu, ministro dell’interno dal 1994 al 1995, assassinato nel 1998 mentre era in esilio a Nairobi. Il regime al potere a Kigali non rappresenta né i rwandesi nel loro insieme e neppure la comunità tutsi del Rwanda. Non è che l’emanazione di una piccola élite politico-militare rientrata dall’Uganda insieme con Paul Kagame.

 

QUALE GIUSTIZIA

E QUALE PERDONO?

 

Dal 1994, decine di migliaia di persone accusate di crimine di genocidio sono state gettate in prigione. Alcune sono state condannate dalla giustizia rwandese. Alcune decine d’altre persone sono state arrestate all’estero e sono state giudicate (o sono sotto giudizio) dal Tribunale penale internazionale per il Rwanda con sede ad Arusha. Tutte queste persone sono accusate di aver avuto un ruolo da svolgere nei massacri commessi tra aprile e luglio 1994 nelle zone controllate dalle forze governative di quel tempo. I crimini commessi dal FPR tra l’inizio della guerra (ottobre 1990) e la presa del potere, quelli commessi dopo la fine della guerra (luglio 1994) sia in Rwanda che in Congo, non sono mai stati oggetto di alcuna inchiesta. Nessun criminale di guerra nelle fila del FPR è stato disturbato. E quando il procuratore del Tribunale penale internazionale, Carla del Ponte, ha ventilato la possibilità di interessarsi anche a questi ultimi, è stata immediatamente sollevata dalle sue funzioni dal segretario generale delle Nazioni Unite, con grande soddisfazione delle autorità di Kigali. Solo i criminali provenienti dal campo dei vinti sono stati arrestati, giudicati e condannati dalla giustizia rwandese o da quella internazionale. Certi pretendono che questo sia dovuto alla diversa dimensione dei massacri commessi tra aprile e luglio 1994 che hanno causato la morte di 800.000 persone. Tuttavia anche le uccisioni da parte del FPR prima, durante e dopo il genocidio hanno provocato centinaia di migliaia di vittime. Non si dovrebbero dimenticare i 200.000 rifugiati rwandesi uccisi nella grande foresta congolese e neppure i milioni di vittime causate dalla guerra che Kagame ha imposto al suo vicino congolese. Non si tratta di mettere in moto una malsana contabilità per determinare chi ha ucciso di più. Si tratta solo di uscire da un manicheismo semplicistico che vorrebbe presentare il Rwanda come un paese composto di una comunità di vittime (i tutsi) e di una comunità di uccisori (gli hutu). I crimini commessi in Rwanda devono restare imprescrittibili e i criminali di guerra, tutti i criminali di guerra, qualunque sia la loro origine o il campo d’appartenenza, dovrebbero essere tradotti davanti alla giustizia internazionale. Solo a queste condizioni il perdono e la riconciliazione potranno essere possibili. Ho scritto nel libro Kadogo, Enfants des Guerres d’Afrique Centrale, edito nel 2003, che «il Rwanda deve assolutamente uscire dalla trappola mortale dell’odio etnico. Per questo avrebbe bisogno di dirigenti che non si sentano né hutu né tutsi, ma semplicemente rwandesi. Ciascuno, qualsiasi possa essere la sua origine, dovrebbe essere in grado di riconoscere le disgrazie subite dall’altro e potergli parlare di quelle che ha subito lui stesso. E questo in vista di giungere forse un giorno a perdonarsi reciprocamente. Infatti in Rwanda, come altrove, nessuna comunità detiene il monopolio del diritto né quello della disgrazia». Purtroppo nel Rwanda di Paul Kagame siamo ancora molto lontani dall’avere le condizioni perché questo perdono reciproco possa essere accordato.

 

Hervé Cheuzeville

 

 

1 Hervé Cheuzeville è autore del libro Kadogo, Enfants des Guerres d’Afrique Centrale, Ed. l’Harmattan, Paris.