IL VERGINE, UN INNAMORATO DI DIO (8)

AMARE E RESTARE NELL’AMORE

 

Chi è innamorato di Dio si sente amabile e amato. Ciò gli consente di continuare a lasciarsi amare e di apprezzare i gesti d’affetto di cui è piena la vita e che vengono da tante persone. Costui troverà e gusterà ogni giorno il centuplo promesso da Gesù.

 

L’espressione è suggestiva, ancorché non originale, ma non piace a tutti; sembra eccessiva, come una pia forzatura poco credibile (e poco creduta). Ciò che pare sospetto, in essa, è proprio la terminologia, che sembra rubata ad altri linguaggi e contesti: “innamorato” va bene per dire di lui-cotto-di-lei, ma pare improprio parlare in questi termini del rapporto con Dio da parte del vergine. Almeno nei casi ordinari.

Val la pena, allora, chiarire. Il termine innamoramento significa, secondo Lonergan, amore intenso e creativo, totale e totalizzante, senza limiti né restrizioni, condizioni o riserve. Ed è naturale che la creatura “s’innamori” del Creatore, anzi, a rigor di termini, solo colui che è amore senza limiti, può esser amato senza limiti; solo la bontà e tenerezza infinita può esser amata totalmente. Improprio, sempre secondo il noto teologo, è semmai l’uso del termine per parlare di relazioni amorose umane.

Secondo chiarimento. Innamorarsi non è cosa eventuale o legata al carattere di qualcuno, ma rappresenta l’esito normale della crescita affettiva; l’essere umano è fatto per questo, non può fare a meno di consegnarsi e abbandonarsi totalmente a un altro o a una grande passione: a chi o cosa lo sceglierà lui, ma celibe o sposato che sia dovrà innamorarsi. Senza innamoramento all’uomo manca qualcosa d’essenziale. Tanto più, specifichiamo noi, se si tratta di chi ha scelto la verginità per il Regno.

Vediamo allora d’indicare le componenti o i passi progressivi dell’innamoramento del vergine.

 

Seduzione strana

 

All’origine dell’innamoramento non c’è l’io, ma il tu; chi s’innamora in qualche modo subisce l’azione dell’altro, è passivo rispetto a lui. Nel caso del vergine questo è particolarmente evidente, poiché è Dio che prende l’iniziativa, anzi, è lui che è innamorato e, come e più d’ogni innamorato, seduce. Ma in modo singolare, e non come avviene spesso nella seduzione umana che incanta e in qualche modo inganna, che fa vedere tutto bello e rosa nascondendo il lato più aspro e impervio della realtà.

Al contrario Dio seduce con la prova, con la prospettiva d’una scelta che implica molta rinuncia, chiede il sacrificio del figlio, attira nella solitudine del deserto, sfida persino ad andarsene con parole misteriose e provocanti… È la seduzione sofferta da Abramo, gustata da Osea, patita da Geremia, sperimentata da Pietro… Ma è anche la seduzione accuratamente evitata da chi non accetta la prova e non ne riconosce la funzione provvidenziale, come il vergine, ad es., che teme e fugge la solitudine. Costui non sarà mai innamorato di Dio, perché non potrà accorgersi, se evita la solitudine, che Dio è innamorato di lui.

 

Coscienza di sé

 

Innamorarsi significa amare con tutto il cuore, la mente, le forze…, tanto più totalmente attratte e coinvolte nell’operazione, quanto più l’essere amato è in se stesso amabile. Per innamorarsi di Dio, dunque, ci vogliono anche le mani e i piedi, la decisione e l’azione, la ragione e la sensibilità…, ci vuol tutta la vita e ogni battito del cuore, poiché Dio è il più amabile degli esseri.

Ne deriva, come conseguenza, che se nessuno come l’innamorato è consapevole delle possibilità del suo cuore (poiché nessuno come lui è disposto all’impossibile pur d’esprimere e realizzare il suo amore), questo è ancor più vero per l’uomo innamorato di Dio. L’amore intenso per l’Eterno svela l’essere umano a se stesso, gli fa prender coscienza come nessun altro affetto delle possibilità nascoste e inedite del suo cuore, quasi spremendole fino alla massima realizzazione. Nessuno come l’innamorato di Dio conosce mura e sotterranei del proprio cuore.

Per questa ragione egli è anche immagine dell’uomo nuovo e profezia dei tempi nuovi, di quel che tutti siamo e saremo, di quella verginità che è vocazione universale.1

 

Nascita della libertà

 

Si dice di solito che l’innamorato è “cotto”, quasi avesse perso autonomia e lucidità. E invece è esattamente il contrario. Perché l’innamoramento provoca non solo un aumento della coscienza di sé, come ora detto, ma pure la nascita della libertà. L’innamorato, infatti, gode della certezza d’esser amato e di amare, ovvero di quelle due certezze da cui sgorga la libertà affettiva.

Ogni amore dà a suo modo questa doppia sicurezza, al punto che l’innamorato non sente bisogno d’altri affetti, e non cambierebbe con nessuno al mondo la persona dell’amato/a; per questo l’innamoramento è esclusivo e l’amore sa d’eterno, perché amare significa dire a (o sentirsi dire da) un altro: «Tu non morrai…».

Tanto più questo è vero quando si ama Dio e quando è Dio a sussurrare al cuore quelle parole di vita. Perché nulla come il suo amore può dare all’uomo queste due certezze: d’essere amato da sempre e per sempre, e di poter e dover amare per sempre. Quel “per sempre” è possibile e sperimentabile solo con l’Eterno.

Ed è inizio e garanzia di libertà affettiva: da un lato elimina la paura che ogni uomo si porta dentro, il dubbio di non esser amabile (e di non essere stato abbastanza amato), dall’altro toglie pure la pretesa (o la condanna) speculare, quella di (dover) meritare l’amore. La croce, massima espressione dell’amore divino, libera radicalmente da paura e presunzione; è la prova suprema che l’amore non può esser conquistato, è dono, ma può esser gustato solo da chi non lo cerca avidamente, solo da chi è libero di lasciarsi amare.

Di qui una conseguenza che è anche un segno positivo inconfutabile: chi è innamorato di Dio si sente amabile e amato, già appagato in questa esigenza naturale. Ma è proprio questo appagamento che ora gli consente di continuare a lasciarsi amare e non solo da Dio, ovvero d’esser libero d’apprezzare con riconoscenza anche i piccoli gesti d’affetto di cui normalmente è piena la vita e che vengono da tante persone, senza pretender chissà cosa. Costui troverà e gusterà ogni giorno il centuplo promesso da Gesù.

Chi, al contrario, non vive un reale innamoramento di Dio non possiede la stessa certezza (della propria amabilità), dunque non sarà libero di lasciarsi benvolere, poiché avrà bisogno di cercare ossessivamente segni d’affetto attorno a sé, ma proprio perché li cerca con apprensione e affanno da preadolescente o come conquista meritoria non apprezzerà i piccoli gesti, ammesso che se n’accorga, e non raggiungerà mai la sensazione definitiva dell’appagamento, avrà bisogno di prestazioni sempre maggiori, sarà geloso e mai sazio, possessivo e invadente, come in un tormento infinito, per sé e per gli altri.

Chi non è innamorato del Creatore non è libero di lasciarsi amare dalle creature.

 

Estensione dei confini

 

L’innamoramento non comporta il fagocitamento dell’altro (“tu sei mio”), ma esattamente il contrario: è l’io che estende i propri ai confini dell’amato, protendendosi verso di lui, verso i suoi valori e interessi, per esser proprio come lui e identificarsi col suo destino. L’amore, infatti, o trova simili o rende simili, in un’inarrestabile azione trasformante.

E se oggetto dell’amore è Dio, chi s’innamora di lui è inevitabilmente portato a estendere i propri confini umani a quelli divini, ovvero a immedesimarsi sempre più con Dio. In altri termini l’oggetto dell’amore diventa sempre più il modo d’amare, ne detta lo stile, favorendo l’unità della persona amante. È un’altra legge psicopedagogica, e altro segnale d’autentico innamoramento. Chi ama intensamente il Padre sarà condotto progressivamente ad amare come lui; se non ama come lui vuol dire che non l’ama, o l’ama poco, senza esserne innamorato; o farà più il facchino che l’innamorato, e la vita gli peserà sempre più.

Forse proprio questo è l’elemento che consente di distinguere il semplice amore dall’innamoramento. Chi è innamorato del Signore Gesù lo pone al centro della vita, come colui che unifica la sua persona concentrandola attorno a un’unica grande passione, lo assume come criterio delle sue scelte, ciò che gli fa sperimentare il gusto squisito e liberante di “far le cose per amore”, colui che rende incredibilmente feconda la sua solitudine.

L’io del vergine innamorato s’espande allora su misura del cuore di Cristo, disponendosi a entrare nella sua medesima logica di consegna di sé al Padre e ai fratelli, alla vita e alla morte.

La croce, espressione più grande dell’amore più grande, segna il limite estremo di questo processo d’estensione dei confini dell’io, o – più semplicemente – diventa il confine dell’io, la sua forma nascosta.

 

Maturazione dell’identità

 

L’io in genere cresce dinanzi a un tu e grazie alla relazione con l’altro, in un equilibrio dinamico e mai scontato tra dipendenza e autonomia. L’innamoramento crea una situazione singolare e ottimale da questo punto di vista, poiché implica il massimo sia della relazione con l’altro che della consapevolezza della propria personalità e delle possibilità del proprio cuore, come già sottolineato. La cosa interessante è che l’una evoca l’altra: più c’è alterità, più c’è identità; maggiore è la fusione, maggiore sarà pure la differenziazione.

Tutto questo diventa particolarmente evidente nel caso del vergine. La relazione intensa e appassionata con il Signore consente al vergine di scoprire in lui il Maestro, l’unico che gli può dire la verità e svelargli l’identità, quel che è chiamato a essere. E scopre di fatto che la sua propria identità è «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3), ovvero è adombrata nello stesso stile di vita di colui che ora è il “suo” Signore. È solo una relazione amorosa che consente di riconoscersi nell’altro, e che nel nostro caso permetterà al vergine innamorato di identificarsi completamente con il Figlio e Servo, cercando la propria via personalissima, unica-singola-irripetibile, d’esser figlio e servo. E gustando profondamente d’esser tale.

 

Crescita nella libertà affettiva

 

Dentro questa relazione misteriosa tra alterità e identità si realizza in pienezza anche la libertà. La quale non è, come pensa l’uomo primitivo, questione d’indipendenza e autonomia, ma di amore e d’amore intenso. È libero, vogliamo dire, o inizia a esser tale chi anzitutto possiede quelle due certezze di cui abbiamo già detto, ma lo è pienamente e al massimo grado chi sceglie di dipendere in tutto da ciò o da colui che ama e che è chiamato ad amare. Come quel vergine che, all’interno d’una relazione amorosa, riconosce nel Signore della vita la sua propria identità, e decide liberamente di dipendere da lui nei suoi progetti e decisioni, nei suoi pensieri e desideri, nel suo stile d’amare e di lasciarsi amare, nel modo di vivere e d’andare incontro alla morte. Innamorarsi vuol dire proprio questo, ed è la piena libertà.

Anzi, è la vera libertà: quella che nasce dall’amore ricevuto, che consente di scoprire nell’amato la propria identità, d’esserne attratti e realizzarla in pienezza. Non è vera, invece, la libertà che conduce a dipendere (= a innamorarsi) da ciò che non si è chiamati ad amare (poiché non esprime la propria verità): sarebbero una libertà e un innamoramento contraddittori, poiché porterebbero il vergine fuori della propria identità e verità, lontano dal suo centro.

È l’intensità dell’amore, dunque, che determina la libertà di dipendere. Nessuno può dirsi libero se non ha il coraggio di consegnarsi totalmente a ciò che è chiamato ad amare, affidandogli la sua stessa libertà. Questo è il vero senso dell’“ama e fa quel che vuoi”.

 

Restare nell’amore

 

Innamorarsi forse è facile, il difficile è restare nell’amore, «nella buona e nella cattiva sorte», cioè sempre: l’innamoramento è la formazione permanente dell’amore. Che non vuol dire, da un lato, che la passione degl’inizi debba per forza rimanere identica nel tempo, ma neanche che l’amore sia costretto a diminuire o ridursi. Restare nell’amore vuol dire semplicemente che l’amore… ha le sue stagioni, e tutte sono importanti per il ciclo completo della vita in Cristo del vergine, e per la fioritura del suo amore per lui e, attraverso lui, per molti altri.

Non sempre chi si consacra a Dio può aver nel cuore il fuoco acceso della passione d’amore per Cristo; a volte questo fuoco potrà sembrare spento, e al posto della fiamma vi sarà la cenere. Purché sotto vi sia la brace accesa, e dentro al cuore la voglia di soffiarvi…

Detto diversamente: ciò che qualifica esistenza e amore del vergine non è il possesso tranquillo d’un amore facile, ma a volte solo la nostalgia d’una passione, o la tristezza per averla forse rinnegata, e in ogni caso la fatica di orientare e riorientare in continuazione il proprio amore verso quella relazione totale ed esclusiva, che unifica e concentra, libera e liberante, santificante e sponsale con Cristo.

L’innamoramento è questa dolce fatica, o come il nardo puro e profumato conservato nel vaso d’argilla del nostro cuore!

 

Amedeo Cencini

 

 

1 Cf scheda 2.