UN FENOMENO OGGI MOLTO DIFFUSO

IL DISPREZZO DELL’ALTRO

 

I rapporti pubblici e privati sono segnati da una conflittualità radicata nel non riconoscimento o nel disprezzo reciproco, nella disistima o nella delegittimazione. In questo clima, che coinvolge anche i credenti, la Chiesa è chiamata a progettare nuovi stili di relazione e di dialogo tra diversi.

 

«Chi disprezza il suo prossimo è privo di senno, l’uomo prudente invece tace» (Pr 11,12). In questa massima sapienziale veterotestamentaria possiamo rintracciare due coordinate, il disprezzo e il riconoscimento dell’altro, che ci abitano oggi forse più di ieri dal momento in cui siamo invasi da fenomeni che caratterizzano le relazioni, i linguaggi e le informazioni mediatiche.

Cercando di situare i due termini nel nostro orizzonte, ricordiamo che il novecento è il secolo che ha visto lo sviluppo più raffinato della storia delle idee intorno ai riconoscimenti, con la elaborazione dei diritti di tutti i diversi, dalle donne ai bambini, dai carcerati ai malati psichiatrici, dagli anziani agli omosessuali, dai popoli ex-coloniali al valore del lavoro manuale.

Ma il novecento è, al tempo stesso, il secolo in cui si è esercitata una incredibile violenza contro la persona: due guerre mondiali, i campi di sterminio nazisti e il gulag, la bomba atomica di Hiroshima, il genocidio del Ruanda e la pulizia etnica in Bosnia, solo per ricordare gli eventi più vistosi.

Si tratta di uno scenario che illustra, anche per i credenti, il permanente dilemma della convivenza e nel contempo fa da sfondo alla necessità di vigilare sulla diffusione nella vita quotidiana odierna di rapporti pubblici di disprezzo reciproco. In questo senso ci sono sembrate particolarmente interessanti le riflessioni del noto sociologo Italo de Sandre, contenute in un recente numero dei quaderni di Servitium (152/2004, pp. 19 ss.) interamente dedicato a questa tematica.

 

I LIVELLI

DEL DISPREZZO

 

Nella sua analisi egli nota innanzitutto il malessere che ci pervade: «che si sia cristiani o no, si pensi a cosa si prova quando si parla di o con persone che hanno orientamenti ideologici e stili di vita contrari ai propri, o altrimenti – se si è votato per una parte politica – a gente che appartiene all’altro schieramento. Non di rado viene a galla una mistura di profondo fastidio, che magari per buona educazione non si manifesta se non in momenti strettamente privati e ideologicamente affini». Non ci aiuta una dialettica pubblica in cui registriamo misconoscimento, irrisione o colpevolizzazione sociale del diritto a esprimersi rispetto a chi non è d’accordo, arrivando persino a riscrivere la storia e la realtà a proprio modo.

Eppure, sottolinea lo studioso, «il riconoscimento è una dimensione cruciale della vita e della convivenza perché ha a che fare con l’identità personale e sociale, la stima e l’auto-stima sulla cui base ciascuno trova la prima motivazione per vivere ed entrare sensatamente in relazione con gli altri nel mondo; il suo contrario è il disprezzo, che sociologicamente è un omicidio (o suicidio) simbolico, perché implica un intento o un agire animato da aggressività distruttiva (l’altro o se stessi) come oggetto totale di odio».

Ovviamente tale polarità conosce forme intermedie mascherate di non rispetto o non tutela, che si esprimono nella diffusione di giudizi sospettosi, nell’omissione o nel silenzio ostile, ugualmente con lo scopo di ferire l’autostima delle persone e indebolirne la stima sociale. Importante perciò comprendere come nei conflitti che arrivano a negare il riconoscimento dell’identità o della dignità dell’altro si intreccino due dimensioni: quella degli interessi in questione e quella delle relazioni tra i soggetti in quanto tali. Questa seconda dimensione attiene allo scontro etico e culturale, alla stima e fiducia date o negate alle persone, e quindi alla qualità del loro rapporto. Su tale dimensione occorre allora fare particolare attenzione perché ci permette di identificare almeno tre livelli di profondità del disprezzo.

Innanzitutto un disprezzo che colpisce il corpo: «si pensi a certe forme di rigetto fisico verso gli stranieri, ancor più se non sono dello stesso colore della pelle, verso donne che siano contemporaneamente straniere coloured e giovani automaticamente sospettate di essere prostitute, il disprezzo verso i barboni (i “senza fissa dimora”) soprattutto se vecchi, verso bambini e ragazzine (oggetto tutt’altro che raro di sfruttamento sessuale); uno spregio che si scarica nel faccia-a-faccia, e quindi abusa della forza fisica, o della forza del numero (bullismo di gruppo da parte di ragazzi anche di “buona famiglia”, stupri di gruppo operati da giovanissimi)». Al secondo livello troviamo un disprezzo legato ai diritti, sia quelli che non si vogliono riconoscere (si pensi alla questione del voto amministrativo agli immigrati) sia quelli che vengono limitati nella loro libera espressione (vedi, ad esempio, certi giornalisti professionalmente emarginati per ragioni ideologiche). L’ultimo livello riguarda un disprezzo che tocca i valori, per cui «si spregiano e insultano visceralmente le maniere di sentire e di pensare, le espressioni ideologiche, religiose, con pregiudizi che sistematicamente si proiettano negativamente sulle intenzioni dell’agire degli “altri”».

Si arriva così a vivere fratture radicali, che vanno cioè alla radice del significato della convivenza: «è la radicalità valoriale ed emotiva di queste fratture ad alimentare i diversi livelli di disprezzo (o non riconoscimento) reciproco. Una situazione relazionale di frattura culturale e civile di cui i cattolici sono protagonisti pubblici, presenti in tutti i settori politici, tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra, in poli che si contrappongono e si detestano profondamente, e in più in una cornice nazionale nella quale, mai come oggi, c’è stato un protagonismo pubblico diretto, non certo equidistante, della gerarchia cattolica».

 

CONSEGUENZE

SOCIALI ED ECCLESIALI

 

Cercando di analizzare le radici di questa frattura, il nostro sociologo descrive brevemente il quadro delineatosi a partire dalla seconda metà degli anni sessanta. In quegli anni si nota come mentre cresce e si consolida la coscienza di un riconoscimento della dignità di quelle persone tradizionalmente oggetto di disprezzo in quanto “diverse” (vedi i malati di mente, i minorati fisici o mentali), sul piano del conflitto sociale si produce verso coloro che non sono in sintonia con certi desideri di cambiamento (ricordiamo le battaglie contro autoritarismo, capitalismo, maschilismo ecc.) un atteggiamento di disprezzo fino alla violenza, etichettando l’altro come “fascista”. Questo fatto contribuisce a far crescere dalla “pancia” della società italiana, a partire dagli anni ottanta (nascita delle Leghe), un risentimento che si è tradotto progressivamente in un linguaggio politico di delegittimazione dell’autorità al governo, quindi di delegittimazione dell’autorità della magistratura e addirittura della costituzione repubblicana (stavolta l’etichetta utilizzata è di segno contrario: l’altro è bollato come “comunista”).

Un’ulteriore conseguenza di un disprezzo frutto del risentimento riguarda quel fenomeno preoccupante a cui si dà il nome di neo-autoritarismo: «vedere minacce e complotti dappertutto, voglia di riversare sul “nemico” ogni causa di male, ogni responsabilità di ciò che non va, voglia di far ordine e di punire “senza far prigionieri”, voglia di avere un capo a cui appellarsi in ogni momento, che salva e protegge, a cui dare ogni delega, un capo che a sua volta può pretendere di decidere per tutti, e avere il diritto di qualsiasi affermazione». In questo senso si può dire addirittura che la logica antiautoritaria radicale del 1968 (in nome del diritto di ogni persona e di ogni popolo di salvaguardare i propri interessi e le proprie identità) sta oggi manifestandosi in modo rovesciato – contro la costituzione, lo stato, la politica tradizionale, le leggi, i magistrati – sotto le forme aggressive di correnti neo-autoritarie.

De Sandre rileva che questo tipo di esperienza è presente anche nella Chiesa, dove si possono registrare forme di non-riconoscimento, di non stima e di non legittimazione.

Si possono ricordare i casi di teologi mai inquisiti formalmente per il contenuto di loro opere, ma la cui carriera di fatto è stata bloccata perché non sufficientemente in linea; di preti che, pur usciti dall’ordine secondo tutte le procedure ecclesiastiche, si sono visti inibire spazi professionali pubblici. Si può registrare quel rispetto formale che però diventa implicito disconoscimento: «Forme di non riconoscimento ecclesiale che hanno lo scopo sostanziale di togliere credito a certi teologi, religiosi, preti, laici o laiche, di raffreddare la fiducia che altri possono aver dato, di “togliere l’acqua” che potrebbe favorire la diffusione di certe idee o comportamenti».

Paradossalmente poi, nella chiesa odierna, c’è una tensione per il riconoscimento ma che opera nella direzione di far emergere il ruolo pubblico della gerarchia più che quello dei laici, di accreditare un’autorità prevalentemente autoreferenziale («perché di fatto non ha molta fiducia di ruoli di cooperazione e di corresponsabilità»), di lodare pubblicamente le donne mettendole però sistematicamente in secondo piano, di favorire in fin dei conti una vera e propria ambiguità: «Non-disprezzo e non-riconoscimento, un profilo d’ombra che non motiva le persone, spesso ferisce le più qualificate. Anche questa è distruzione di talenti, di energie che non vengono fatte circolare al servizio della comunità e che perciò la scoraggiano, la impoveriscono».

Alla luce di questo complesso quadro sociale ed ecclesiale, occorre riconoscere la gravità del problema e chiedersi come e chi deve ricostruire la responsabilità condivisa (in campo civile e in campo cattolico). Un problema che non consente di uscire con ammonimenti unilaterali, che costringe ognuno a scegliere: «si può uscirne soltanto per una strada di riflessione in dialogo, e progettare ogni volta possibile degli stili di relazione privati e pubblici di animo diverso da quelli attuali, ricercandone il minimo denominatore comune, che oggi non si sa quale sia. La domanda va posta a tutti, anche se molti fanno il possibile per eluderla».

 

Mario Chiaro