NOTA PASTORALE DELLA CEI
PARROCCHIA
MISSIONARIA
La parrocchia rimane ancora il luogo più importante per il primo
annuncio della fede cristiana. Anche i religiosi, in una prospettiva di
pastorale integrata, possono e debbono sentirsi maggiormente coinvolti in
questo nuovo cammino ecclesiale.
«Il futuro della Chiesa in Italia, ha bisogno della parrocchia». Questa
certezza dei vescovi italiani nasce dalla ferma convinzione che la parrocchia
abbia ancora un grande ruolo da giocare in ordine «alla vitalità dell’annuncio
e della trasmissione della fede». A una condizione, però, e cioè che sappia
«disegnare con più cura il suo volto missionario, rivedendone l’agire
pastorale, per concentrarsi sulla scelta fondamentale dell’evangelizzazione».
Sono alcune delle affermazioni centrali della recentissima Nota pastorale su
_Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia.
Forse poche assemblee generali della Cei, come quella del maggio scorso,
erano state precedute e preparate da una così lunga serie di incontri,
convegni, dibattiti, pubblicazioni. Il fatto che per la prima volta vedesse la
luce una Nota sulla parrocchia a firma di tutti i vescovi italiani e non di un
singolo organismo della Cei, la dice lunga sul significato e sulle attese,
forse anche in parte deluse, di questo documento.
In preparazione ai lavori della Cei, anche i superiori e le superiore
maggiori in Italia, si erano interrogati a fondo sul tema della parrocchia, non
solo per il numero rilevante di parrocchie affidate ai religiosi, ma anche per
la sempre più concreta presenza di religiosi e religiose nelle attività
pastorali delle parrocchie affidate al clero diocesano. Riletta da questa
angolatura, come vedremo subito, la Nota non pare recepire più di tanto la
disponibilità e le potenzialità dei religiosi e delle religiose in ordine a una
trasformazione “missionaria” delle parrocchie stesse. Se, come è detto
esplicitamente, la missione ad gentes «non è soltanto il punto conclusivo
dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per
eccellenza», su questo orizzonte le pagine più significative le hanno scritte e
le stanno scrivendo soprattutto i membri di tanti istituti religiosi maschili e
femminili.
UNA FEDE ANCORA
TROPPO “SCONTATA”
Certamente, non si poteva «dire tutto nei limiti di un documento». Pur
consapevoli del fatto che la parrocchia debba partecipare «alla svolta
missionaria della Chiesa in Italia di fronte alle sfide di quest’epoca di forti
cambiamenti», i vescovi italiani dichiarano espressamente di aver rinunciato
anche a una «compiuta analisi del contesto culturale e pastorale». È pur vero
che poi, nelle diverse articolazioni del documento, non mancano espliciti
riferimenti a questo contesto. Ma una sua maggior comprensione è determinante
proprio nel momento in cui la Chiesa italiana intende ripensare a fondo la
realtà della parrocchia, facendole assumere una connotazione volutamente
missionaria.
Oggi non si può dare per scontato «che si sappia chi è Gesù Cristo, che
si conosca il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa». Notiamo
solo come una affermazione del genere, a oltre 40 anni da un Concilio che ha
impresso una “svolta cristologica” a tutta la riflessione teologica, che ha
riscoperto, come mai nella storia della Chiesa, la centralità della parola di
Dio e soprattutto del Vangelo, e che ha giocato a carte scoperte non più su una
Chiesa essenzialmente gerarchica, ma su una Chiesa “popolo di Dio”, faccia
seriamente riflettere.
Claudio Magris, in un suo recente articolo «Quando scompare il senso
religioso” (Il corriere della sera, 12 giugno 2004), partendo da altri
presupposti e non riferendosi al documento della Cei, ha un passaggio che aiuta
a cogliere la drammatica realtà del contesto in cui viviamo: «In Italia e anche
in altri paesi folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi
occasionali rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma
le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il
matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la
cultura cristiana e cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della
religione e perfino dei più classici passi e personaggi evangelici, come si può
constatare frequentando gli studenti universitari». Ora ci troviamo di fronte,
prosegue, ad una grave “mutilazione” per tutti, credenti e non credenti, perchè
quella cultura cristiana «è una delle grandi drammatiche sintassi che
permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i
valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere».
Sono affermazioni che chiamano in causa non solo i parroci, i tanti
catechisti, gli operatori pastorali, gli insegnanti di religione, le
istituzioni culturali cattoliche, ma tutta la realtà ecclesiale nel suo
complesso.
Pensare che la parrocchia riesca da sola a porre rimedio a queste “gravi
mutilazioni” è una pura illusione. Lo dice la stessa Nota della Cei. «C’è
bisogno di una vera e propria conversione, che riguarda l’insieme della
pastorale». Non basta più una pastorale «tesa unicamente alla conservazione
della fede e alla cura della comunità cristiana». Magari, potremmo aggiungere
noi, la nostra pastorale riuscisse a conservare la fede esistente e sapesse
prendersi cura delle comunità cristiane. Magari fossero scongiurate
definitivamente le “due derive” già da tempo denunziate dal cardinal Ruini: da
una parte quella di fare della parrocchia una comunità autoreferenziale, in cui
ci si accontenta di trovarsi bene, coltivando rapporti ravvicinati e
rassicuranti, dall’altra quella della percezione della parrocchia come centro
di servizi per l’amministrazione dei sacramenti, dando per scontata la fede in
quanti li richiedono.
LA QUESTIONE CRUCIALE
OGGI NELLA CHIESA
Per i vescovi italiani, oggi c’è assolutamente bisogno di una pastorale
missionaria. Per la verità è da tempo che si sta cercando di coniugare
pastorale e missionarietà, da quando, almeno, si è incominciato a parlare di
nuova evangelizzazione e della esigenza di rifare il tessuto cristiano delle
nostre comunità ecclesiali. La grande missione cittadina, voluta dal papa a
Roma in preparazione del giubileo, aveva esplicitamente questa prospettiva
missionaria. Fin dalle prime righe della Nota viene chiarita questa dimensione
missionaria. La comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia, infatti, «è
la questione cruciale della Chiesa in Italia oggi».
A conferma delle affermazioni di Magris, basti pensare alle diverse
tipologie di battezzati che abbiamo oggi in Italia. A parte le persone non
battezzate che chiedono di diventare cristiane, abbiamo battezzati il cui
battesimo è rimasto senza risposta e che vivono di fatto lontani dalla Chiesa,
e poi battezzati la cui fede è rimasta allo stadio della prima formazione
cristiana, una fede mai rinnegata, ma in qualche modo sospesa e rinviata.
Quale risposta dare a quanti vivono in questi diversi stati di
“mutilazione”? Se, come abbiamo già ricordato, non si può più dare per scontato
che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca il Vangelo e che si abbia una
qualche esperienza di Chiesa, non rimane altra soluzione che «un rinnovato
primo annuncio della fede», partendo necessariamente dal comando del Signore:
«Andate e rendete discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). In un contesto di
pluralismo religioso, dovuto soprattutto al fenomeno immigratorio, nella
predicazione e nel servizio della carità si dovranno saper coniugare «la
fermezza sulla verità evangelica da proporre a tutti» da una parte, con «il
rispetto delle altre religioni e con la valorizzazione dei semi di verità che
portano in sé» dall’altra. Nel suo andare verso tutti, «fino ai confini della
terra» (At 1, 8) la parrocchia deve saper guardare a Gesù stesso nel momento in
cui annuncia che «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi
e credete al Vangelo» (Mc 1,14-15).
Le nostre parrocchie, si chiedono i vescovi, «sono attrezzate a questo
compito, come antenne sul territorio, capaci di ascoltare attese e bisogni
della gente?» (2). Proprio chi vive a contatto con la gente, come un parroco,
in un contesto di crescente pluralismo religioso, conosce benissimo anche tutte
le preoccupazioni manifestate dai propri fedeli. Sa per esperienza quanto siano
soprattutto i rapporti con l’islamismo a creare seri problemi. Sa quanto sia
impegnativa quella vera e propria sfida missionaria, come è detto nella Nota,
che «chiede di proporre con coraggio la fede cristiana e di mostrare che
proprio l’evento di Cristo apre lo spazio alla libertà religiosa, al dialogo
tra le religioni, alla loro cooperazione per il bene di ogni uomo e per la
pace». Nella Nota si sfuma via, forse, troppo in fretta su questo punto. In un
futuro, neanche troppo lontano, sarà sempre non solo più urgente ma anche più
problematica e complessa la proposta di un primo annuncio del Cristo come
nostro unico salvatore non solo ai tanti cristiani “mutilati” nella loro fede,
ma anche e soprattutto alla componente più numerosa di non cristiani da tempo
presente anche in Italia.
PASTORALE “INTEGRATA”
E RELIGIOSI
Fino a che punto tutti questi problemi li sentono come propri anche i
religiosi e le religiose? Fino a che punto i nostri vescovi possono o sanno di
poter contare sulla disponibilità dei religiosi in vista di un volto più
decisamente missionario da imprimere alla pastorale parrocchiale? Nel contesto
della Nota, diciamo la verità, i religiosi esistono e non esistono. Anche qui,
certo, «non si poteva dire tutto». Della vita consacrata si parla espressamente
nel penultimo numero del documento (12), nel contesto dei «servitori della
missione in una comunità responsabile». Dopo aver dedicato una doverosa e
privilegiata attenzione ai parroci, si passa a parlare dei vicari parrocchiali,
dei diaconi permanenti, delle nuove figure ministeriali, del laicato, degli
organismi di partecipazione e, alla fine, si accenna anche ai religiosi.
Dopo aver precisato che non è possibile dimenticare il ruolo della vita
consacrata nella testimonianza del Vangelo, «non si tratta di chiedere ai
consacrati, vi si aggiunge, cose da fare, ma piuttosto che essi siano ciò che
il carisma di ciascun istituto rappresenta per la Chiesa». Dai religiosi ci si
attende, ancora, che sappiano richiamarsi «alla radice della carità e alla
destinazione escatologica» mediante i consigli evangelici di povertà, castità e
obbedienza. Poiché la vita consacrata è di per sé aperta alla comunicazione con
i fratelli, le parrocchie dovrebbero saper dare spazio a tutte le sue “varie
forme”, privilegiando i «cammini di preghiera e di servizio», soprattutto delle
«tante donne consacrate» attivamente impegnate nella catechesi o nella carità.
Altri espliciti accenni alla vita consacrata sono presenti ogni volta
che si parla di evangelizzazione e di pastorale d’ambiente o d’insieme. Di
fronte all’impegnativa proposta, per le parrocchie, di un primo annuncio
organico e sistematico del messaggio cristiano, si dovranno coinvolgere insieme
alle aggregazioni laicali e ai movimenti ecclesiali, anche gli istituti di vita
consacrata «che nella predicazione evangelica hanno uno specifico carisma» (6).
Il richiamo ai carismi dei singoli istituti è inoltre ribadito nel contesto di
una “pastorale integrata” e nella elaborazione ed attuazione dei vari progetti
pastorali diocesani e parrocchiali.
Per la verità, nella Nota, i riferimenti (espliciti e no) alla vita
consacrata sono sicuramente più numerosi di quanto non avvenga, di fatto, nella
vita quotidiana di tante singole realtà parrocchiali. Che molti parroci
chiedano ai consacrati soprattutto “cose da fare”, è all’ordine del giorno.
Che, d’altra parte, tanti consacrati siano disposti a fare per le parrocchie
solo “cose” limitate, è altrettanto vero.
Il nodo cruciale per un inserimento efficace, da parte dei religiosi,
nella “pastorale integrata”, sta proprio nella reale difficoltà a essere «ciò
che il carisma rappresenta per la Chiesa». Da troppo tempo, ormai, si va
ripetendo che tanti istituti religiosi hanno esaurito la spinta propulsiva del
loro stesso carisma. L’aggiornamento incompiuto post-conciliare riguarda non
solo la riforma liturgica o la pastorale nel suo insieme, ma anche la vita
consacrata. I religiosi troppo ripiegati su sé stessi, intenti soprattutto a
sfogliare nostalgicamente le pagine di una gloriosa storia da raccontare e
impossibilitati, non solo sul piano numerico ma, prima ancora su quello mentale
e spirituale, a progettare il futuro, sono ancora tanti.
Religiosi e religiose condividono con il clero diocesano la comune
preoccupazione dell’invecchiamento e della carenza di vocazioni. Alla obbligata
rinuncia di tante opere da parte dei religiosi, corrisponde in misura non meno
preoccupante la soppressione e l’accorpamento di tante parrocchie. Eppure,
almeno in non pochi istituti religiosi impegnati nell’attualizzazione del
proprio carisma, c’è una libertà di ricerca, un’attenzione ai segni dei tempi,
una capacità anche di rifondazione del proprio carisma, non meno significativa
di quanto è dato trovare nel campo del rinnovamento pastorale parrocchiale. Per
quanto possa essere più “missionario” il volto di una parrocchia e di un
istituto religioso oggi, le derive di una concreta autoreferenzialità e di
tante stazioni di servizi, sia per una parrocchia che per un istituto
religioso, sono dietro l’angolo. Il carico quotidiano delle “cose da fare”, sia
da una parte che dall’altra, sono ancora troppe.
Se la comunicazione della fede è il punto cruciale, per una parrocchia,
non lo dovrebbe essere meno anche per un istituto religioso. Il tempo delle
“esenzioni” appartiene al passato. Il futuro di un volto più realmente
“missionario” delle nostre comunità cristiane, il futuro del cristianesimo
stesso, non solo in Italia ma anche e soprattutto in Europa, dovrebbe stare a
cuore a tutti, vescovi, preti, religiosi. Tra le tante “cose da fare”, è giunto
il tempo per tutti, nel rispetto della propria identità, di riscoprire e
credere nell’unica e urgente “cosa da fare”: comunicare a tutti, ai cristiani
“mutilati” e anche ai nostri cristiani, il Vangelo in un mondo che cambia. Non
è possibile perdere altro tempo, se non vogliamo che sia il mondo a cambiare e a
disperdere non solo il volto delle nostre comunità parrocchiali e religiose, ma
anche il Vangelo stesso.
Angelo Arrighini