DALL’IO AL TU,
DAL TU AL NOI
La fraternità sarà uno dei segnali maggiormente qualificanti della VC del
futuro. Una fraternità nuova, perché non sarà tanto luogo d’osservanza o
concentrazione di aspiranti alla perfezione, ma perché da questo incontro
nascerà il noi, una realtà di relazione nuova, a immagine della santissima
Trinità.
“Sarà la bellezza
della fraternità che salverà il mondo”.1 La parafrasi della nota frase di
Dostoevskij potrebbe fare da sfondo alla presente riflessione. Nella quale
siamo invitati a ripensare proprio il senso della fraternità religiosa, quale
luogo tradizionale della convivenza religiosa e, al tempo stesso, profetico,
che in qualche modo prefigura la nuova immagine della vita consacrata (VC).
Siamo infatti convinti che la fraternità sarà uno dei segnali maggiormente
qualificanti della VC del futuro. Ma una fraternità nuova, soprattutto perché
non solo o non tanto concentrazione di aspiranti alla perfezione o luogo
dell’osservanza, bensì spazio d’un incontro inedito tra l’io e il tu, i
protagonisti della vicenda comunitaria, perché non semplicemente s’accolgano,
magari dopo essersi scrutati e… annusati (nella speranza di ritrovarsi simili e
fatti l’un per l’altro), ma perché da questo incontro nasca una realtà davvero
nuova, il noi, la relazione con l’altro-da-sé, o quello scambio fecondo da cui
nascono assieme sia l’identità che l’alterità, cioè la comunione a immagine
della Trinità santissima, ovvero una testimonianza di fraternità tanto inedita
quanto così indispensabile e attesa oggi.
E d’una fraternità, in particolare, che da un lato non
impone lo stampo uniformizzante ai suoi membri, ma dall’altro è comunità di
persone che condividono qualcosa d’importante e fondamentale. In un mondo
sempre più globalizzato e nel quale le differenze paradossalmente tendono
sempre più ad annullarsi, per un verso, mentre per un altro stanno sempre più
diventando motivo di contrapposizione, la VC è chiamata a dare una
testimonianza d’importanza strategica e decisiva. La VC non è forse stata uno
dei primi eventi di globalizzazione, e non ha forse in questo senso
un’esperienza unica da condividere? Non ha forse al suo centro un simbolo come
la croce, nella quale tutte le cose, della terra e nei cieli, sono state
ricapitolate e ogni uomo riconciliato, in cui tutto s’è compiuto e ha trovato
senso, in cui non esiste più né greco né giudeo, né uomo né donna?
Vedremo allora brevemente alcune caratteristiche più
salienti della situazione oggi, dal punto di vista della relazione
interpersonale, per meglio identificare il riflesso che questo può avere sul
nostro stile di vita comunitario e sul ruolo che la VC può giocare all’interno
di questo contesto. Poi cercheremo di analizzare il senso del rapporto tra
identità e alterità, particolarmente da un punto di vista psicologico, per poi
proporre, su un versante pedagogico, un cammino comunitario che riesca a
coniugare assieme identità e alterità, identità e appartenenza,
autorealizzazione e progetto di crescita comunitario, io e tu…
CULTURA
DELL’AUTOREFERENZIALITA’
C’è chi parla, senza mezzi termini, di cultura attuale
dell’autoreferenzialità. Che affonda le sue radici, detto in modo molto
schematico, in quel terreno ov’è stato abbondantemente seminato il seme del
pensiero debole o della sfiducia nella ragione umana. Con conseguenze
rilevanti.
Da questa “coltura unica” sono nati frutti spontanei e
velenosi, quali
– l’indifferenza e il qualunquismo veritativo, dato che
non esiste più alcuna verità generale;
– la negazione della responsabilità, specie quella nei
confronti dell’altro, di qualsiasi altro;
– una certa concezione di libertà personale primitiva,
che finirebbe ove comincia quella dell’altro, per cui non si è mai liberi
insieme;
– una transizione dall’idea della vita come
pellegrinaggio a quella della vita come vagabondaggio, con perdita d’una
visione provvidenziale e unitaria dell’esistere, e conseguente impoverimento e
scarsa tenuta della relazione;
– un radicale e triste egocentrismo, e conseguente
enfatizzazione della propria autorealizzazione;
– il dominio della legge del mercato come senso della
vita, ridotto in pratica a due verbi: vendere e comprare.
Il tutto nel segno di Proteo, ovvero del flusso continuo
e del cambiamento repentino, e di Narciso, ovvero alla luce… dei riflettori,
perché oggi è qualcuno solo chi appare sulla scena ed è visibile a tutti, solo
chi fa parlare di sé e riesce a vendersi bene sul mercato.
Già questa descrizione veloce e sommaria ci fa
intravedere le conseguenze a livello della relazione interpersonale, in modo
particolare della relazione con l’altro-da-sé, inevitabilmente indebolita e
resa precaria, insignificante o conflittuale, distruttiva o… distrutta.
I fatti recenti e spaventosi d’un terrorismo che sembra
non aver più alcun limite dinanzi a sé (dall’11 settembre 2001 di New York all’11
marzo 2004 di Madrid) sono il segno più inquietante d’una involuzione
relazionale che, se non verrà arrestata, potrà condurci alla distruzione del
rapporto, alla fine d’ogni dialogo, alla radicalizzazione dell’homo homini
lupus. Se non peggio ancora.
“Abbiamo ucciso la persona umana”, ha commentato,
infatti, qualcuno2 all’indomani dell’attentato delle Torri gemelle, di questa
terribile “antropofania”, capace di rivelare in quale (poco) conto si tenga la
vita umana nella nostra società, o quanto radicata sia la convinzione da… uomo
delle caverne che la tua morte sia la mia vita (mors tua vita mea), o che il
rapporto con l’altro, con chi è dall’altra sponda, debba per forza esser
conflittuale, e tendere all’eliminazione del nemico. Dimenticando, d’altra parte,
che il male, per natura sua, tende a riprodursi, a rigenerarsi, provocando
reazioni uguali e contrarie come in una spirale impazzita.
Insomma, dal presente contesto culturale emerge un quadro
di relazioni lacerate, nel quale c’è molto “io”, ma un po’ disperato nella
ricerca della sua promozione; un “tu” conflittuale (un
tu-contro), percepito come ostile alla propria
realizzazione; poco o pochissimo “noi”, ovvero relazioni quasi inesistenti.
Paradossalmente questo quadro storico è una grossa
occasione per la VC, o può, quanto meno, costituire un’opportunità per
riaffermare il senso profetico della sua presenza nel mondo e nella chiesa, in
questo momento di rinnovamento e di ricerca di nuovi spazi o addirittura d’una
nuova identità.
Da un lato, potremmo dire, la VC risente di questo clima,
e soffre di questa lacerazione relazionale all’interno delle proprie comunità
interetniche. Dall’altro la VC, come abbiamo già sottolineato, ha una parola da
dire al riguardo, possiede un’esperienza cui fare riferimento, ha ricevuto un
dono che deve poter metter a disposizione d’altri.
Vediamo più da vicino questi due aspetti.
Il documento della Congregazione per gli istituti di vita
consacrata e le società di vita apostolica Congregavit nos in unum Christi amor
fotografa la situazione, come s’è venuta delineando in questi ultimi anni, in
termini molto chiari:
«Il rispetto per la persona, raccomandato dal concilio e
dai documenti successivi, ha avuto un influsso positivo nella prassi
comunitaria. Contemporaneamente però si è diffuso con maggior o minor
intensità, a seconda delle varie regioni del mondo, anche l’individualismo,
sotto le più diverse forme, quali il bisogno di protagonismo e la insistenza
esagerata sul proprio benessere fisico, psichico e professionale, la preferenza
per il lavoro in proprio o per il lavoro prestigioso e firmato, la priorità
assoluta data alle proprie aspirazioni personali e al proprio cammino
individuale senza badare agli altri e senza riferimenti alla comunità.
D’altra parte è necessario perseguire il giusto
equilibrio non sempre facile da raggiungere tra il rispetto della persona e il
bene comune, tra le esigenze e le necessità dei singoli e quelle della
comunità, tra i carismi personali e il progetto apostolico della comunità. E
ciò lontano tanto dall’individualismo disgregante quanto dal comunitarismo
livellante. La comunità religiosa è il luogo ove avviene il quotidiano paziente
passaggio dall’”io” al “noi”, dal mio impegno all’impegno affidato alla
comunità, dalla ricerca delle “mie cose” alla ricerca delle “cose di Cristo”».3
Il testo indica con chiarezza gli influssi positivi e
negativi della cultura odierna sulla VC: da un lato l’accentuazione della
centralità della persona singola, dall’altro il rischio dell’individualismo.
Chiede dunque il giusto equilibrio tra rispetto dell’individuo e perseguimento
del bene comune, e mette pure in guardia dai due pericoli opposti:
l’individualismo disgregante e il comunitarismo livellante. Ma soprattutto
riconosce alla comunità un ruolo specifico e prezioso, quello d’esser luogo del
«paziente passaggio dall’”io” al “noi”, dal mio impegno all’impegno affidato
alla comunità,
dalla ricerca delle “mie cose” alla ricerca delle “cose
di Cristo”».
Mi sembra molto equilibrato, realistico e pertinente
questo modo di analizzare il problema. Se nella VC è stata sempre forte, per
definizione e tradizione, l’accentuazione comunitaristica, l’influsso d’una
cultura dell’autoreferenzialità impone nuovi equilibri, non facili da trovare.
Chi di noi, per altro, non ha sperimentato la fatica di
conciliare progetti personali con prospettive comunitarie, la fedeltà
esistenziale e vocazionale a se stessi e al gruppo?
E non si tratta, badiamo bene, d’un problema “nostro” o
d’economie intracomunitarie, con scarsa rilevanza oltre la fraternità stessa,
poiché è esattamente il contrario.
MODELLO RELAZIONALE
E SISTEMA PREVENTIVO
Di fronte a una realtà sociale che mostra le ferite che
abbiamo visto, non basta più che noi consacrati assumiamo un certo
atteggiamento distaccato, tipico di chi in qualche modo fugge dal male e si
rifugia in un ambiente decontaminato (la comunità religiosa, appunto), ma
neppure è sufficiente impegnarsi a dare il buon esempio o pregare Dio che
tocchi il cuore dei violenti, e c’è pure chi dichiara finito il tempo in cui ci
accontentavamo, credenti e consacrati in particolare, di fare “i crocerossini
della storia”, andando a curare ferite e vittime delle varie violenze, perché
forse non basta più, occorre andare oltre o intervenire prima, all’interno d’una
logica davvero preventiva.
Come la cultura dell’autoreferenzialità è penetrata nelle
nostre convivenze, così è possibile e necessario che qualcosa del nostro
modello di vita “esca” dalle nostre fraternità, sia concretamente proponibile
come modello relazionale vivibile, modello di pace e convivenza con
l’altro-da-sé. D’altronde la VC è un grande fenomeno relazionale, e se non fa
questo, se non offre modelli di vita e convivenza evangelicamente ispirati ed
esistenzialmente riproducibili nei vari contesti sociali, a cosa e a chi serve?
La vita comune non ha forse questo obiettivo: fornire
modelli relazionali, a dimostrare che è concretamente possibile la relazione
con il diverso fino a condividere la vita con lui? Non c’è forse un elemento
profetico nella testimonianza della comunione fraterna? Se la VC serve solo a
chi la sceglie come suo proprio ideale di vita fallisce il suo obiettivo, che è
quello di testimoniare di fronte a tutti l’amore del Padre perché sia un bene
per tutti, divenga cultura, cultura di pace, appunto, e prassi di rapporti
finalmente pacifici.
Non è forse questo l’apporto specifico di una VC
incarnata nella storia e attenta ai segni di tempi, soprattutto a quelli
drammatici? Come dire, non abita forse qui, o non passa attraverso questa ricerca,
il futuro della VC?
Certo è una sfida, ma sfida salutare, salutarissima,
poiché non solo ci apre al futuro, ma soprattutto ci fa uscire da noi stessi e
proprio da quell’autoreferenzialità che segnerebbe la nostra insignificanza o
la nostra fine. Quante volte, infatti, forse senza rendercene conto, abbiamo
affrontato o continuiamo ad affrontare il problema dell’autoreferenzialità con
metodo autoreferenziale! Senza venirne mai fuori, evidentemente, e continuando
a chiederci se viene prima l’io o il tu, il mio progetto o quello della
comunità (l’uovo o la gallina?), e rendendo concretamente impossibile e
insoddisfacente una qualsiasi soluzione.
Ecco perché diventa importante questo sguardo
all’esterno, questa preoccupazione orientata verso il bene dell’altro, per un
esame di coscienza che continui a turbarci finché non avremo trovato un sistema
di vita che diventi davvero buona novella, cioè proposta di fraternità per
tutti, di armonia relazionale, di concordia umana.4
Ancora il documento del dicastero vaticano:
«La comunità religiosa diventa allora il luogo dove si
impara quotidianamente ad assumere quella mentalità rinnovata che permette di
vivere la comunione fraterna attraverso la ricchezza dei diversi doni e, nello
stesso tempo, sospinge questi doni a convergere verso la fraternità e verso la
corresponsabilità nel progetto apostolico».5
Come attuare questo percorso?
«Non possiamo trovare noi stessi in noi, ma solo in
altri; allo stesso tempo, prima di uscire da noi e andare agli altri dobbiamo
trovare noi stessi». Questa frase di Thomas Merton dice bene, nella sua
paradossalità, il senso del rapporto reciproco tra identità e alterità. Sarebbe
un’illusione pensare che il rapporto con l’altro faccia nascere automaticamente
il senso dell’io, così come sarebbe altrettanto illusorio dare per scontato il
passaggio dall’io al tu.
Vediamo allora come si ponga il rapporto tra i due
soggetti e le due dimensioni.
Partiamo da un principio psicopedagogico molto importante
e prezioso per la nostra analisi: secondo la psicologia ogni essere umano ha un
bisogno insopprimibile d’avere un’autoidentità sostanzialmente e stabilmente
positiva. Forse è il bisogno più profondamente radicato nell’essere umano, più
ancora del bisogno affettivo. Tale identità positiva è al tempo stesso
condizione e conseguenza del rapporto con l’altro. Quando, al contrario, l’io
non raggiunge la certezza sostanziale della propria positività, il rapporto con
l’altro potrà subire le più varie e pericolose distorsioni (e divenire, ad es.,
rapporto di dipendenza, o relazione compensativo-difensiva, o
competitivo-aggressiva, o compiacente-strumentale…). Allora diventa impossibile
anche vivere in fraternità, e il proprio progetto di vita sarà in perpetuo
rapporto conflittuale (o compiacente) col progetto comunitario.
Vediamo anzitutto come l’essere umano può costruire il
senso della propria identità e come a ogni livello corrisponda un certo senso
dell’altro.
Livello somatico: insignificanza del rapporto
La prima teorica possibilità di autoidentità, anche in
ordine di tempo, è quella di riferirsi al proprio corpo, a un dato di fatto
subito percepibile, caratterizzato da una determinata espressione somatica. A
tale livello, nella misura in cui il corpo è il referente primo e decisivo per
avere un senso positivo dell’io, l’individuo avrà bisogno di sapere (e far
vedere) che ha un corpo niente male, sano-bello-forte-giovanile, o, quanto
meno, di farlo apparire come tale.
Avremo così il religioso eccessivamente attento al suo
look, o all’apparenza esteriore, a livello di vestito, o di più o meno presunte
qualità estetiche, o troppo preoccupato di non far apparire i segni del proprio
invecchiamento o esageratamente vigile sulla propria salute. Con conseguente
rifiuto di quanto possa offuscare tutto ciò, dell’età che avanza,
dell’eventuale difetto estetico o dell’infermità fisica, soprattutto della
morte… Di solito è la vita stessa che si premura di mostrare l’incapacità di
questo modello di garantire uno stabile senso di positività.
L’altro in tale modello è sostanzialmente assente e la
relazione insignificante. Anzitutto perché nella nascita del senso dell’io il
tu non gioca alcun ruolo, e l’operazione avviene tutta all’interno dell’io,
tutt’al più di fronte… allo specchio. Se poi il centro d’attenzione è il proprio
corpo l’altro servirà solo come… potenziale ammiratore o rivale.
Livello psichico: rapporto conflittuale
Una seconda possibilità di autoidentificazione è offerta
dal riferimento alle proprie doti e talenti, a qualsiasi livello, da quello
intellettuale a quello manuale, dall’artistico al morale. È il livello
dell’avere, tipico della persona che si sente artefice di sé, che coi “suoi”
mezzi e i “suoi” sforzi crede di conquistare la propria realizzazione, quasi
avesse meritato, a suo tempo, persino d’esistere.
È un livello superiore al precedente, ma ancora con una
visione parziale dell’uomo, ristretta ad aspetti che non sono i più importanti,
e dunque anche con conseguenze contraddittorie e rischiose. Il proprio talento,
ad es., diventa fonte ma anche limite d’identità, in un soggetto che non sarà
libero di accettare proposte o prospettive di vita che vadano al di là di
quello che è sicurissimo di saper fare; oppure, altra conseguenza, la
dipendenza dal ruolo o da quell’attività in cui riesce perfettamente e che gli
regala la certezza d’esser qualcuno, o dall’ambiente e dalle persone che gli
danno stima e considerazione, al punto che la sua immagine sociale diventa la
sua vera (e nascosta) regola di vita; o il bisogno estremo del risultato
positivo, fino a identificarsi coi suoi successi e di non saper accettare
gl’insuccessi; la mania dell’autorealizzazione, impossibile da raggiungere
quando troppo centrata sull’io. Ma la conseguenza più contraddittoria è che,
nonostante la preoccupazione e la tensione, chi s’identifica a questo livello
non raggiungerà mai la certezza definitiva della propria positività, proprio
perché la cerca nel modo e nel posto sbagliato, facendone lo scopo intenzionale
delle sue azioni, mentre essa può esser solo la conseguenza non intenzionale e
spontanea d’un atteggiamento trascendente, d’un io che non cerca se stesso
nelle cose.
Contraddittorio e conflittuale sarà anche il rapporto con
il tu. Da un lato l’altro diventa un giudice, uno che valuta le prestazioni del
soggetto, dall’altro diventa un rivale, uno da osservare e scrutare con lo
sguardo distorto dalla mania competitiva; sarà molto facile, allora, il
sentimento d’invidia e gelosia, o i due estremi della compiacenza o del
rifiuto. La vita, a questo punto (anche quella che si vive in comunità),
diventa un conflitto costante tra rivali, ove solo uno può vincere, e ove sarà
molto facile interpretare la diversità come una minaccia da combattere.
Ma in ogni caso, anche nel livello psichico il senso
dell’io è piuttosto autospeculare, non nasce dal rapporto con l’altro né crea
sana alterità.
Livello ontologico: chiamata e progetto
A questo terzo livello cambiano radicalmente scenario e
punti di riferimento: l’io si definisce per quello che è e per quello che è
chiamato a essere. Da un lato lo sguardo è rivolto verso le profondità dell’io
stesso (oltre l’esteriorità del corpo o delle proprie azioni e prestazioni),
dall’altro il soggetto si scopre incompleto, tende verso qualcosa che ancora
non possiede, verso un ideale ricco di verità-bellezza-bontà e che ora rende
vero-bello-buono il soggetto stesso. E in questa tensione avverte una chiamata,
più precisamente uno che lo chiama (visto che nessuno può autochiamarsi), anzi,
Uno che lo chi-ama (chiamare è voce del verbo amare), entro un contesto
dialogico che esprime interesse, attenzione all’altro, amore (se nessuno ti
chiama, vuol dire che non conti niente per nessuno); e verso un progetto da
realizzare, ma nel quale l’io si intravede, o scopre il pieno compimento della
propria identità .
A questo dialogo il credente dà un nome preciso:
vocazione. In quel progetto il consacrato riconosce il carisma che ha ricevuto
in dono. Da essi nasce il senso dell’io,
– legato all’essere, non più all’apparenza o all’avere, e
dunque stabile e profondamente radicato, anche se dinamico e sempre da
realizzare, proteso com’è verso il compimento di valori che saranno sempre
oltre l’attuazione del soggetto;
– legato ancora a un Tu, a una Volontà buona che ha
preferito il mio io alla non esistenza, e che consente all’io stesso di
stabilire un rapporto libero con qualsiasi tu, libero dalla mania del confronto
competitivo con l’altro, dal bisogno di prevalere sull’altro o di dover
ottenere a tutti i costi il suo assenso dipendendo dall’altro;
– legato infine a un corrispondente senso della vita,
quale bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato, dunque
libero da ogni mania di accumulare per sé, di cercare la propria
autorealizzazione, di conquistare risultati positivi, d’aver successo per forza,
di render visibile a tutti la propria eccellenza, di evitare accuratamente
quanto possa significare fallimento, limite, sconfitta…
A questo livello diventa dunque fontale il rapporto con
un Tu, come quello con Dio, Padre e Creatore, rapporto che ritorna quale
paradigma d’ogni rapporto umano in cui un tu “chi-ama” l’io, trasmettendogli la
certezza della sua dignità.
Ma il cammino di autoidentificazione non finisce qui.
Livello metapsichico: oltre l’avere
A questo punto l’io è libero, o progressivamente libero,
di vivere in pieno le sue doti o quanto si riferisce immediatamente o
mediatamente alla sua persona (progetti, iniziative, scelte…), poiché non le
considera più come sua proprietà indiscussa, qualcosa che parte da lui per
tornare a lui, possibilmente con gl’interessi, ma come parte del dono della
vita ricevuta da un Altro, e che, come abbiamo accennato, tende per natura sua
a divenire bene donato ad altri. Al tempo stesso, però, la sua positività non
dipende più primariamente dalle sue doti. Insomma, cambia radicalmente la
prospettiva: ne guadagna il senso d’identità e pure d’alterità.
Ed è proprio questo cambio che permette alla persona di
interpretare al meglio le sue stesse qualità, poiché le libera dal legame
asfissiante e riduttivo col proprio io, le svincola da una dipendenza che le
soffocherebbe, le può mettere finalmente a disposizione della vita, e di tutti.
Potrà addirittura arrivare al punto di sacrificare l’esercizio di qualcuna
delle sue potenzialità o di rinunciare a un suo punto di vista senza sentirsi
particolarmente offeso, quando ciò sia richiesto da un bene maggiore. Libero di
sacrificare il figlio…
Livello metasomatico: oltre l’apparenza
Anche il corpo prende parte a questo… rito liberatorio,
perché anche il corpo viene visto come parte del dono della vita, dono che –
pure esso – tende per natura a sua a divenire bene donato.
Non più, dunque, la preoccupazione eccessiva per la
propria immagine o per i giorni dell’esistere terreno, per il riposo, la
salute, il proprio benessere…, ma la convinzione serena che tutto ciò vada
necessariamente messo a servizio degli altri, divenga dono per tutti, ogni
giorno di più. Fino a celebrare nella propria morte il dono totale di sé, il
punto finale d’una esistenza che s’è sempre più espropriata per la vita degli
altri. E assieme, la “celebrazione” d’una positività indistruttibile che si
protende oltre la morte.
In conclusione: proprio questa positività è la condizione
fondamentale per stabilire un autentico rapporto con l’altro, e al tempo stesso
proprio il rapporto con l’altro promuove la positività dell’io. Ovvero
dall’identità all’alterità e viceversa.
Il principio del terzo
Ma è necessaria un’altra precisazione per stabilire un
rapporto autentico con l’altro, e incontrarlo nella sua verità e nel mistero
d’essa, e non con le nostre illusioni o distorsioni percettive proiettate sulla
sua persona.
Il desiderio dell’uomo è, infatti, nonostante tutto e
nonostante le sue molte contraddizioni, incontrare il tu, ed è bello che sia
così; la pretesa è quella di render l’altro come lo vorremmo, più o meno
omologato ai nostri gusti e in funzione dei nostri bisogni; la tentazione,
infine, è quella di poter accedere direttamente al suo mistero, senza
mediazione alcuna.
La psicologia della comunicazione ci offre al riguardo un
principio estremamente prezioso e chiarificatore: il principio del terzov. Che
in parole semplici significa:
non basta desiderare d’incontrare il tu,
né sono sufficienti rispetto e accettazione della sua
persona;
occorre accoglierlo incondizionatamente,
ma sempre mediatamente.
Sono due condizioni fondamentali per la vita relazionale
comunitaria:
– l’accettazione totale dell’altro senza condizioni,
– il contatto mediato con la sua verità e il suo mistero.
Le due condizioni sono legate tra di loro, ma entrambe
sono dettate dall’amore per l’altro, per la sua persona, non da un semplice
desiderio di rapporto. E da un amore che, quando è vero, è capace di stima,
d’un giudizio limpidamente positivo dell’altro, ovvero è libero di percepire l’altro
nella sua amabilità radicale e ontologica, quella che permane al di là di
qualsiasi comportamento più o meno corretto.
Il Terzo divino
In realtà, è capace di fare questo solo chi ha risolto
prima il problema della stima di sé, ed è riuscito a cogliere dentro di sé
quella realtà ontologica che è come una certezza indistruttibile. Lì, in quel
livello ontologico, come abbiamo prima ricordato, il soggetto si sente
chiamato, da una voce che gli svela il suo io, da una voce che in qualche modo
fa da mediazione tra una parte dell’io (l’io attuale) e un’altra parte (l’io
ideale). Una voce che per il credente corrisponde a un volto, a un gesto
d’amore, a un Terzo che entra provvidenzialmente nel suo mondo intrapsichico e
gli consente di accedere al mistero dell’io.
Ora, come questo Terzo divino è stato mediazione preziosa
per scoprire la propria identità e positività, così potrà fare da mediatore per
incontrare l’altro nella sua alterità e apprezzarlo
nella sua verità e bellezza, oltre ogni apparenza. In tal
senso e in forza di tale logica Francesco è attratto dal volto del lebbroso,
Teresa di Calcutta abbraccia il moribondo, il fratello lava i piedi al fratello
senza sentirsi un eroe, ognuno si sente responsabile dell’altro, caricandosi
sulle spalle il peso del suo peccato, anche correggendolo con forza, se
necessario. Insomma, ogni legame
tra due persone credenti deve avere un Terzo che lo
garantisce, lo motiva, lo illumina, lo dirige, lo purifica.
Anzi, il rapporto così stabilito con l’altro consente un
ritorno arricchito su di sé, che rivela aspetti nuovi del proprio io, come ben
dice Florenskij parlando dell’amicizia: “l’amicizia sta nel contemplare se
stesso attraverso l’amico in Dio, vedersi con gli occhi dell’altro al cospetto
d’un Terzo”.
Il terzo umano
Ma anche il rapporto con Dio non può pretendere di essere
immediato e ha bisogno d’un terzo, in questo caso d’un terzo umano. Rimanere
‘soli’ con Dio senza un terzo è pericolosissimo,6 vorrebbe dire la presunzione
d’interpretare da soli la sua volontà e la sua parola, o la pretesa d’una
intimità con lui astratta e velleitaria, che non passa attraverso il simile da
amare e soccorrere in modo molto concreto, o l’incapacità di cogliere le tante
tracce di Dio disseminate nell’umano, specie in quell’umano che è debole.
Poiché Dio, quel Dio che spesso noi pretendiamo incontrare direttamente, è
colui «che si cela nella sua traccia, lascia il tu e si fa terza persona,
perché appaia l’altro, gli altri; il Desiderabile sfugge al desiderio e rinvia
agli altri, specie se indesiderabili».7
Come dire: se la mistica non è intrisa di storia non
raggiunge Dio, certamente non quello di Gesù Cristo.
E come Dio è il necessario passaggio trascendente nel
rapporto dell’uomo col suo simile, così l’essere umano è l’altrettanto inevitabile
passaggio trascendente nella relazione dell’uomo con Dio.
“Il tu è più importante dell’io”8
Risultato congiunto di questo principio del terzo, come
un percorso a doppio senso, è ancora una volta il senso del legame tra identità
e alterità all’interno, in particolare, della fraternità religiosa. Vivere in
fraternità vuol dire accettare che sia proprio con questi fratelli e sorelle,
che io non ho scelto e dai quali non sono stato scelto, che posso scoprire chi
sono e chi sono chiamato a essere.
Come dice p. Radcliffe con provocante chiarezza:
«mettersi nelle mani dei fratelli nella professione religiosa è accettare che
la propria identità non si trovi più nelle proprie mani. La fraternità è una
identità indeterminata», che è l’autentica identità del credente.
E forse proprio questo è anche il senso dell’obbedienza,
dell’obbedienza fraterna. Per questo stesso motivo lo stesso Radcliffe afferma
d’essere stato sempre contrario, ad es., alla tendenza di chiedere ai fratelli
prima d’un’elezione se accetterebbero di essere superiori: “non spetta a me
dire se penso di essere in grado di svolgere questo ruolo. Tocca ai miei
fratelli fare il discernimento”. Anzi, “l’identità indefinita del voto di
obbedienza è un segno di quel cammino verso la conoscenza di sé che noi
facciamo con gli estranei sulla strada del Regno. Significa che noi non
conosciamo chi siamo senza il povero, l’anonimo e il silenzioso”,9 poiché
questa è la storia cristiana: “storia del continuo ed esigente impegno con gli
estranei, abbandonando il diritto di decidere chi sono. Nessuno saprà mai chi è
senza ognuno degli altri”.10
Dall’io al noi (e viceversa): identità e appartenenza
Il cerchio s’allarga. Non può restare chiuso all’ambito
dei due, della coppia io-tu, ma deve necessariamente estendersi al “noi”, alla
comunità, non solo intesa quale molteplicità di relazioni, come abbiamo visto
nel punto precedente, ma quale realtà nuova e inedita, che non viene dalla
carne e dal sangue, ma che nondimeno deve rispettare certe leggi e dinamiche
evolutive se vuol davvero crescere e far crescere.
Vedremo solo un paio di questi principi in modo
schematico, come itinerari pedagogici d’integrazione tra il senso d’identità e
il senso d’appartenenza, in un cammino di realizzazione personale e comunitaria.11
TRIPLICE CAMMINO
DI COMUNIONE
Il senso d’appartenenza è il riflesso, sul piano
relazionale, del senso d’identità: ognuno si definisce a partire da ciò che è e
in cui si riconosce, ma ciò determina per natura sua un’uscita da sé per
decidere d’appartenere a qualcos’altro, a dei valori e ideali, e pure a chi,
persone e gruppi, l’incarnano. In ogni caso più forte è il senso d’identità,
più lo sarà anche il senso d’appartenenza. Di conseguenza, la crescita
nell’appartenenza avviene, per un consacrato, lungo le componenti costitutive
del carisma, ma ben oltre un’interpretazione puramente individualistica d’esse.
Se dunque tali componenti sono, come sappiamo,
l’esperienza mistica, il cammino ascetico e la missione apostolica, questi tre
elementi diventano anche la triplice pista di maturazione del senso
d’appartenenza, ma operando un passaggio che dall’io conduca progressivamente
al noi, o che dalla prospettiva privata apra sempre più alla logica della
condivisione dello stesso cammino di santità.
Esperienza mistica da condividere
All’inizio d’un carisma c’è sempre una teofania, in cui
Dio si rivela e mostrando il suo volto svela anche all’uomo il suo volto umano.
Il consacrato nasce proprio qui, quando inizia a scoprire il suo io entro
questo rapporto con Dio e lascia che il mistero pregato diventi la fonte della
sua identità. È la spiritualità che svela l’identità, e dunque lascia
intravedere la fonte della comune appartenenza e il luogo ove matura ogni
giorno l’autentica fraternità, quella di fratelli resi tali dalla ricerca dello
stesso Dio.
E allora la preghiera non può restare un fatto privato,
poiché l’appartenenza o «la comunione nasce proprio dalla condivisione dei beni
dello Spirito, una condivisione della fede e nella fede»,12 entro una logica di
santità comunitaria.
Progetto ascetico come norma comune
Il processo d‘identificazione dell’io iniziato con
l’esperienza mistica continua nel momento ascetico: il mistero dell’io,
infatti, è decifrabile solo a condizione che diventi anche realtà operativa e
vivente, e il “volto” rivelato nell’esperienza mistica divenga realmente il
modo d’essere e agire, d’amare e donarsi del singolo.
La forma proposta dalla teofania diventa così anche
norma, regola di vita, punto di riferimento abituale e centrale, cui si deve
obbedienza da parte di tutti e da cui sgorga uno stile vitale comune che
consente a ciascuno di riconoscersi nell’altro. Il progetto ascetico così
concepito non è disciplina, ma segno distintivo che crea senso d’appartenenza
all’istituto, mentre la fedeltà di uno sorregge quella di tutti.
Missione apostolica comunitaria
Si completa qui la rivelazione dell’io, con quell’opera
di misericordia corporale o spirituale che caratterizza ogni istituto e che è
strettissimamente legata all’esperienza mistica, ove trova le sue radici, e al
progetto ascetico, che prepara l’apostolo per un servizio specifico, con un
obiettivo, dei destinatari, uno stile… del tutto originali. Appartenere a un
istituto vuol dire identificarsi con tutto ciò, non solo compiere un servizio.
Diventa allora importante agire nella missione con stile
comunitario. Ovvero con la consapevolezza di operare sempre in nome della
comunità e grazie a essa, mai dunque con spirito
individualistico-esibizionistico, come se l’apostolato fosse cosa propria, ma
camminando assieme, aspettando chi procede più lentamente, condividendo il più
possibile fatiche e gioie, nella certezza che per quanto l’apostolo donerà alla
comunità sarà sempre molto più quel che da essa ha ricevuto. Allora
l’apostolato nutre il senso d’appartenenza e ne è al tempo stesso alimentato;
mentre il carisma risplende nella ricchezza complementare dei doni di tutti.
DOPPIA
CONSEGNA
Il senso d’appartenenza è vero quando è a doppio senso e
determina una duplice “consegna”. Quando infatti un religioso si consacra
attraverso la professione, si affida all’istituto e l’istituto s’affida a lui.
È accolto, ma deve a sua volta accogliere; è figlio, ma dovrà divenire anche
padre. Da quel momento la vita della famiglia religiosa s’identifica con la
sua, e lui non potrà più pensarsi fuori d’essa. Con questa consegna s’è messo
nelle sue mani perché essa lo conduca a Dio; s’affida così alla sua santità e
alla sua debolezza, non pretende che sia senza macchia, gli basta sapere che
rappresenta la sua via di santità e che lì e solo lì lo raggiungerà la grazia
che lo salva, anzi, è già grazia che lui stesso possa esservi accolto con tutto
il suo peccato.
Ma anche l’istituto si mette nelle mani del singolo; da
quel momento la santità dell’istituto dipenderà anche da lui, e lui sarà
responsabile della crescita d’ogni fratello e chiamato a farsi carico della
debolezza d’ognuno, anzi, a riconoscere che quella debolezza è la via
misteriosa lungo la quale Dio gli viene incontro.
Esser membro d’una comunità è celebrare assieme la
comunione dei santi e dei peccatori, e imparare a condividere sempre più il
bene, i doni dello Spirito, ma anche il male, ovvero l’inevitabile esperienza
del limite personale e comunitario. Quando, infatti, s’impara a riconoscere assieme
dinanzi alla stessa misericordia divina infermità e povertà personali, in quel
momento è come se il male perdesse la sua carica diabolica dirompente e
lacerante, e, invece di riprodursi, si trasformasse misteriosamente in dono
divino, in esperienza di grazia che s’effonde come rugiada su tutti, in
coscienza della propria debolezza e dello stesso comune bisogno di perdono, in
coraggio di rispondere al male con il bene, con la voglia di costruire insieme,
con la beatitudine della mitezza, in momento di coesione, in gioia rinnovata di
stare insieme, in senso d’appartenenza sempre più intenso…
Soprattutto in modello di fraternità e di riconciliazione
che possiamo e dobbiamo offrire come buona novella al mondo d’oggi, perché il
male non si riproduca uccidendo tutti, ma sia vinto dal bene, per il bene di
tutti.
Amedeo Cencini
1 P.G. Cabra, Per una vita fraterna. Breve guida pratica,
Brescia 1998, p.17.
2 Cf F. Scalia, Dopo l’undici settembre, in “Presbiteri”
35(2001), 643.
3 Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le
società di vita apostolica, La vita fraterna in comunità 39.
4 Ho approfondito questo punto in A.Cencini, Dalla
relazione alla condivisione. Verso il futuro…, Bologna 2001.
5 La vita fraterna 39.
6 Cf. Cencini, Dalla relazione, 48-56.
7 Cf. P. Sequeri, Obbedienza come consegna alla volontà
de “il Terzo”, in AA.VV., L’obbedienza torna virtù, Fossano 2000, p.142.
8 P. Giannoni, Monaco e prete diocesano, in Il
Regno/Attualità, 10(1997), 320.
9 T. Radcliffe, Forti nella debolezza, in Testimoni,
20(2004), 28.
10 Ibidem. Simpatico e ricco di senso quanto si racconta
di H.Camara, il quale, quando sentiva che la polizia aveva preso e messo in
galera un pover’uomo, telefonava ai poliziotti per dir loro: “Ho sentito che
avete arrestato mio fratello”, e i poliziotti, chiedendo scusa: “Eccellenza,
che sbaglio! Non sapevamo che fosse suo fratello. Sarà subito rilasciato!”. E
quando l’arcivescovo si recava alla stazione di polizia per prendere l’uomo,
trovava i poliziotti un po’ sorpresi e disorientati: “Ma, Eccellenza, quello là
non ha il suo stesso cognome”. E Camara rispondeva allora che ogni persona era
suo fratello e sorella, anche i poliziotti…
11 R.Williams (arcivescovo anglicano di Canterbury), cit.
da Radcliffe, Forti, 29.
12 Cf. su questo punto A.Cencini, Fraternità in cammino.
Verso l’alterità, Bologna 2000, 78-87.