GLI ESERCIZI SPIRITUALI
È LO SPIRITO CHE GUIDA E GOVERNA
Non bisogna guardare tanto alla pietà di chi frequenta gli esercizi ma ai
valori evangelici che spesso già possiedono e praticano, pur senza saperlo.
Gli esercizi devono essere soprattutto un ministero di misericordia e di
collaborazione con lo Spirito “autore e donatore di vita”.
Gli esercizi spirituali non sono fatti solo per le
persone devote e spiritualmente avanti nella via della perfezione, ma per
tutti. Chiunque può esserne un potenziale soggetto. Per questo si può dire che
gli esercizi si caratterizzano per la loro dimensione “missionaria”. Non
bisogna pertanto guardare alle persone che desiderano parteciparvi solo dal
punto di vista della loro vita di preghiera o del loro cammino spirituale. Ciò
che invece va cercato in primo luogo è di scorgere in esse Dio che è all’opera,
individuarne gli aspetti positivi per infiammarli poi con il Vangelo. Ma per
riuscirvi è indispensabile che colui che guida gli esercizi trovi prima Dio in
se stesso e si lasci convertire dalla grazia che viene poi donata a coloro a
cui si rivolge.
Punto di partenza è pertanto è l’oggi così come è vissuto
da coloro che partecipano agli esercizi. Un oggi in cui ciò che a volte risalta
non è tanto una vita di fede saldamente vissuta e professata, ma forse un
insieme di valori che sono evangelici anche se chi li vive spesso non se ne
rende conto.
Il gesuita Ignacio Iglesias, scrivendo su questo
argomento, osserva che conoscere questo oggi delle persone, i ritmi, i livelli
di crescita e di maturazione, o anche gli scoraggiamenti e le paure presenti
nella coscienza di ciascuno, compresi coloro che predicano, è un presupposto
importante, per non dire decisivo.1
QUATTRO
PRINCIPALI TENDENZE
In quanto gesuita, p. Ignacio si riferisce naturalmente
all’apostolato degli Esercizi di sant’Ignazio, ma le sue osservazioni valgono
per chiunque svolga oggi questo genere di missione nella Chiesa.
Punto di partenza quindi è cercare di conoscere le
persone a cui ci si rivolge. In linea generale queste si caratterizzano per
quattro tendenze principali. La prima è quella di una religiosità diffusa, a
volte effervescente, ma ansiosa, spesso angosciata ed eclettica, espressione di
una ricerca di salvezza al di fuori di se stessi e del desiderio di aggrapparsi
a qualsiasi tavola di salvezza, oppure di fabbricarsela, creando così i
presupposti di un sicuro naufragio, di confusione o di catastrofe. Giovanni
Paolo II ha descritto così questo fenomeno ambiguo e insieme bisognoso di
discernimento: «Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità
materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall’altro si
manifestano l’angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il
desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera.
Non solo nelle culture impregnate di religiosità, ma anche nelle società
secolarizzate è ricercata la dimensione spirituale della vita come antidoto
alla disumanizzazione. Questo cosiddetto fenomeno del “ritorno religioso” non è
privo di ambiguità, ma contiene anche un invito» (Redemptoris missio 38).
La seconda tendenza si colloca all’estremo opposto:
consiste in una certo scollamento o presa di distanza dalla cosiddetta Chiesa
“ufficiale”. Nella esortazione apostolica Ecclesia in Europa, il papa definisce
questo fenomeno come «uno smarrimento della memoria e dell’eredità cristiana,
accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo
religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra
spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro
consegnato dalla storia» (7).
La terza tendenza, presente in una grande quantità di
persone buone, ma facilmente influenzabili e manipolabili, è quella di un
entusiasmo che, osserva p. Ignacio, «si manifesta puntualmente in tante
occasioni puntuali», in cui la fede si alimenta con una religiosità fatta di
riti in parallelo e a volte anche in contraddizione con un’esistenza i cui “valori”
si oppongono al Vangelo.
C’è infine un quarta tendenza che si può definire del
“resto d’Israele che rimane fedele all’alleanza”, giorno per giorno, attraverso
una fede impegnata, “che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6).
Fatte le proporzioni, questo insieme di atteggiamenti,
rileva il padre, si trovano in tutti, anche tra i consacrati. Si tratta di
realtà che aiutano chi guida gli esercizi a percepire ciò che Dio lo invita a
fare per riuscire a trasformare gli esercizi in uno strumento di eccezionale
efficacia.
A questo scopo occorre anzitutto che il predicatore si
metta egli stesso in questione, o come osserva p. Ignacio, che compia quattro
“esercizi” (una ginnastica interiore personale). Il primo si riferisce alle
tendenze presenti nelle persone descritte nei primi tre punti – una religiosità
diffusa, ma angosciata; la presa di distanza dalla Chiesa ufficiale; una
religiosità fatta di riti oppure vissuta in contrasto con i valori del Vangelo
– alla cui base sta spesso un’ignoranza non colpevole. «Essi non sanno quello
che fanno», continua a ripetere oggi per noi Cristo al Padre. Da parte del
predicatore si richiede un esercizio di kenosis, bene espresso nella formula
paolina “farsi tutto a tutti” (1 Cor 9,19-23), assumendo cioè l’atteggiamento del
servo. In altre parole, bisogna liberarsi da se stessi per diventare dei
testimoni, mettendosi al servizio di una relazione: Dio-esercitante,
esercitante-Dio. È un “un modo di essere” che proietta il predicatore
all’esterno di se stesso, verso l’altro; e il suo “modo di procedere”
consisterà allora nell’aiutare gli altri sapendo di essere nello stesso tempo
da loro aiutati, come scrive Paolo: «Tutto io faccio per il Vangelo, per
diventarne partecipe con loro». Predicare gli esercizi è pertanto un modo consapevole
di “farli e lasciarsi fare”.
Il secondo esercizio consiste nel rivolgere uno sguardo
misericordioso sul mondo attuale dentro il quale vi sono individui che cercano
Dio e sono da lui cercati e progressivamente incontrati. Voler fare gli
esercizi è la prova che Dio è già entrato nel loro orizzonte di vita.
A imitazione di Gesù, colui che guida gli esercizi non
deve pertanto stare a chiedersi se nell’eserciziante manca una coscienza di
Dio; egli deve piuttosto saper percepire che Dio è già presente e attivo in
lui. Nella società d’oggi – e anche nella Chiesa – scrive il padre, spesso i
segni di questa presenza non sono quelli di una religiosità manifesta, ma di
una vita onesta. Come osserva il papa nell’enciclica Dives in misericordia: «Il
significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello
sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male
morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e
proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male
esistenti nel mondo e nell’uomo» (6).
Le conseguenze pratiche di questa affermazione sono molto
importanti. Chi predica gli esercizi è sottratto alla tentazione di guardare
soprattutto all’esperienza di preghiera, al fatto se uno è animato da un vero
desiderio oppure alla sua capacità di impegnarsi in una disciplina di
preghiera, di esame e confronto. In realtà, l’espressione più autentica di
questo desiderio non consiste necessariamente nella pratica religiosa o nei segni
che l’accompagnano e ancor meno nel volontarismo ascetico; si rivelano invece
nelle beatitudini già sbocciate o hanno cominciato a fiorire nella sua vita.
Dietro agli atteggiamenti apparentemente a-religiosi o agnostici e alle
numerose ambiguità e incoerenze descritte, l’onestà della persona può
nascondere un desiderio vivo ed effettivo che il predicatore degli esercizi,
deve sforzarsi di mettere in luce e di far emergere, poiché, come scrive
sant’Ignazio, «è acceso da Dio».
È così che Gesù agiva. Perché del resto egli avrebbe
detto che molti “non praticanti” «vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt
21,31)?
Ignacio Iglesias si chiede: «Perché lamentarci oggi se un
certo tipo di persone, soprattutto tra gli uomini, non si pone la domanda se
fare o no gli esercizi, oppure lo fanno con riluttanza e con un certo pudore
imbarazzato? Perché ostinarci a esigere tutta una serie di pratiche e
osservanze “religiose” da parte di coloro che, nel loro modo “secolare” di
dedicarsi agli altri, hanno già cominciato ad applicare l’ideale ignaziano
consistente “nell’uscire dall’amor proprio, dalla propria volontà e dai loro
interessi»? Non rischiamo forse di voler troppo qualificare gli esercizi, di
farne una specie di operazione di chirurgia estetica per élites molto speciali?
Non ci troviamo già davanti alla necessità di impedire che essi non abbiamo a
deviare verso una specie di “devozione” che sarebbe un po’ come una medicina
per prevenire o curare un’influenza o una forte febbre? Se gli esercizi sono
una via che deve aprire alla conversione, non dobbiamo allora sforzarci di
identificare come base gruppi di persone che, spesso senza saperlo, vivono già
delle pagine, a volte difficili, del Vangelo? Non dobbiamo forse ravvivare la
forza “missionaria” degli esercizi stando attenti più a ciò che c’è già di
“vita” nel possibile eserciziante che non alla sua religiosità?
NON METTERSI
DAVANTI ALLO SPIRITO
In questo dimensione “missionaria” , il terzo
atteggiamento da assumere da parte di chi guida gli esercizi, è di coltivare un
rapporto con le persone e compiere un percorso di prossimità, di ascolto, di
pazienza, di attesa, di riconoscimento e di sostegno dei valori evangelici
autentici, smascherando quelli non veri. In questo esercizio la guida deve
essere molto attenta a non “mettersi davanti allo Spirito”, ma a “lasciarsi
condurre e moderare da lui”, a discernerne la presenza, segnalando dove egli è,
e quali ne sono le manifestazioni. La persona che gli sta davanti dovrà essere
perciò trattata con sommo rispetto; un rispetto fondato sull’immenso valore che
ciascuno possiede per il semplice fatto di esistere. È così che Dio ci
considera.
Aiutare quindi non vuol dire far passare negli altri la
propria esperienza, ma fare affiorare quella di ciascuno. E quando questo processo
è iniziato, bisogna saper camminare a fianco, ammirando, ringraziando, in un
atteggiamento di scambio.
Niente mai si ripete, niente è mai lo stesso nell’opera
di Dio. I nostri schemi, le nostre formule, le nostre ricette non sostituiranno
mai le sue iniziative; sia chi la guida degli esercizi sia chi li fa devono
scoprirle ogni giorno, senza mai forzare o rallentare il ritmo.
È LO SPIRITO
CHE GUIIDA E GOVERNA
Il quarto e ultimo esercizio consiste nel credere che tra
Cristo, nostro Signore, e la Chiesa sua sposa è lo stesso Spirito che ci
governa e guida per la salvezza delle anime; occorre ricordare che nella
costruzione della Chiesa non possiamo lasciar da parte le “pietre vive” che lo
Spirito Santo sta scolpendo e preparando silenziosamente, per utilizzare magari
quelle che noi crediamo di poter scolpire secondo i nostri criteri di
costruzione.
Costruire un’umanità che ama Dio, costruendo la Chiesa
che Gesù ha fondato nella storia per edificare questa umanità: ciò non può
farsi con delle pietre artificiali, opera della mani dell’uomo. Noi non abbiamo
il diritto di scartare – per la difficoltà di adattarle secondo i nostri piani
e modelli di costruzione – persone che lo Spirito Santo riempie misteriosamente
del suo Vangelo, spesso senza che esse lo sappiano e senza che gli altri se ne
accorgano.
Rivolgendosi alle religiose, a Madrid, nel novembre 1982,
Giovanni Paolo II descrisse la “costruzione” del Regno in questi termini:
«Vivete come Maria, ricevendo lo Spirito Santo e trasmettendolo ai vostri
fratelli così da costruire la Chiesa». Se lo Spirito è dato a tutti (Rm 5,5),
ci sono alcuni che non lo ricevono e altri che lo ricevono appropriandosene, e
ciò equivale a non riceverlo, e coloro infine che lo ricevono, spesso senza
accorgersene e cominciano a pensare agli altri e a donarlo loro giorno dopo
giorno. È così che si costruisce.
“Ricevere – trasmettere”: in questo esercizio
respiratorio dell’anima – che è la fede – gli esercizi hanno un posto che è
loro proprio. Il punto di arrivo non consiste, come lascia intendere anche
sant’Ignazio, nella fedeltà a un metodo o alle sue varianti, ma nella fedeltà
alle persone che sono uniche, nella loro pluralità, quelle in cui lo Spirito
agisce e vive.
A conclusione di tutte queste considerazioni, scrive p. Ignacio,
si potrebbe dire che «predicare gli esercizi è un ministero di misericordia e
di collaborazione con lo Spirito “autore e donatore di vita”. La regola che
deve orientare questa collaborazione è di osservare ciò che egli compie, senza
idee preconcette, senza programmi prestabiliti, conservando tutta la nostra
capacità di sorpresa. L’eserciziante si trasforma così “in colui che ci
precede” di fatto col Vangelo che ha in sé, e ci libererà dalla tentazione di
pretendere di guidarlo a partire dal Vangelo che noi crediamo di possedere».
A.D.
1 Revue de Spiritualité Ignatienne, n.
1/2004, pp. 47-55