COMUNITÀ E ANIMAZIONE

 

Comunità-opera o comunità-nucleo animatore? È la domanda che don Nino Minetti, superiore generale dei guanelliani sottopone ai suoi religiosi in una lettera in data 8 maggio scorso.

Scrive: «Chiedo: questo nuovo modello vi trova disponibili? Oppure l’animazione della vigna che il Signore vi affida (casa, parrocchia, scuola…) è in certo modo condizionata dalla preoccupazione del fare, dal funzionamento concreto dell’opera, dall’immobilismo dell’ambiente, dal crescente scoraggiamento?

Cerchiamo di fare qualcosa di nuovo con le persone (ospiti, operatori, professionisti, genitori, fedeli…) che il Signore ci affida o siamo semplici amministratori, senza nessun afflato spirituale-evangelico, senza “mozione spirituale” direbbe sant’Ignazio di Loyola, poco sensibili a ciò che sta nascendo nella Chiesa e nel mondo, e che esige da parte nostra iniziativa e creatività?

Per aiutarvi a dare una risposta, mi permetto di suggerirvi alcune considerazioni che possono metterci in cammino.

 

Animare è infondere un’anima evangelica

 

L’animazione, per essere tale, deve nascere dal desiderio di servire il Vangelo e di fare delle nostre presenze una forte esperienza di Chiesa. La vera animazione va avanti solo con questa mistica, con questa disponibilità a giocarsi, altrimenti è un fare, fare anche molte cose, ma che non danno qualità evangelica a ciò che si fa.

Animare è infondere anima: l’idea che anima sia una figura decorativa  dispensatrice di benedizioni o di belle parole e basta, nelle nostre case sarebbe inaccettabile. Le nostre case sono a pieno titolo oasi di fede e di carità, come voleva il fondatore: “Devono essere luce del mondo con il loro buon criterio di sapienza cristiana. Devono essere città poste in alto per vedere ovunque ed essere vedute” (Massime di spirito e metodo d’azione, 51). In effetti la testimonianza che la gente capisce e da cui si lascia coinvolgere è una fede viva e autentica nutrita dalla parola di Dio, dai sacramenti e dalla coerenza della vita, espressa nella carità.

Animare è “farsi servi”, perché l’animatore è uno che crede in un progetto di liberazione dell’uomo, di cui si pone al servizio, è un militante della causa del

l’uomo. Egli sa che la persona oggi rischia di essere sopraffatta dalla trama intricata delle relazioni politiche, economiche, culturali. Perciò egli si gioca nella scommessa che, attraverso l’animazione, è possibile far crescere e sviluppare le forze che possono rigenerare l’uomo e la società in cui vive e quindi agire, anche qui come indicava il fondatore, in modo preventivo. In pratica l’animatore valorizza, moltiplica le risorse delle persone, a partire dalla concretezza dei loro limiti e ricchezze, dalla loro età ed esperienza dei loro compiti e loro sogni.

 

Animare è “mettersi in relazione con”

 

Del tutto inutile sarebbe la riflessione sul futuro della comunità religiosa se pretendesse di essere la titolare di tutte le attività di cui si compone la sua missione. Oggi la convivenza  in qualsiasi realtà socio- religiosa è fatta di molteplici settori, e questi sono costituiti da più soggetti. In casa nostra per esempio vi è la comunità educativa locale a ricordarci che non si può più essere battitori liberi, ma che occorre coinvolgere, prima di agire. Il problema si fa urgente perché con noi sono coinvolti i laici, con i quali collaborare non è più aleatorio, è necessario.

È dunque inevitabile che la comunità perda molto della sua autonomia e si arricchisca di collaborazione, partecipazione, collegamenti, coordinazione, scambio di energie e mezzi. E naturalmente viene di necessità una figura di religioso capace di entrare in relazione, animatore che sappia collegare insieme le parti e le persone, perché non perdano vigore nel loro isolamento, ma convergano verso un progetto d’insieme a vantaggio dei destinatari.

Nel concreto si tratta di far crescere in comunità uno stile di accoglienza, di ascolto, di relazioni personali, di fiducia, di impegno, di lavoro in vista di una comunione che renda reciprocamente interattivi tutti coloro che vi operano. Il confratello solleciti più che può la responsabilità e l’azione dei collaboratori. Oggi è in questa capacità di coordinare e di coinvolgere che viene valutata l’idoneità del religioso animatore. Tanto più se questo religioso è anche sacerdote. Qual è infatti il compito specifico, proprio del sacerdote in una comunità tutta responsabile della sua edificazione nella comunione e del servizio dell’uomo nel bisogno? Il sacerdote, in tale soggetto educativo-pastorale, deve svolgere il suo compito senza mortificare quello degli altri componenti, anzi valorizzandoli e coordinandoli; e ciò perché cresca la comunione e l’incidenza della missione. Il presbitero deve sempre ricordare che non può presumere di riunire in sé tutta la ministerialità della Chiesa. Egli piuttosto è chiamato a esercitare il carisma del discernimento, della promozione, dell’animazione, dell’armonizzazione dei diversi doni dello Spirito. È aiutato quindi dalla grazia dell’ordine  sacro a superare la figura dell’amministratore, del manager della comunità, per sostituirla con quella del sacerdote donato alla causa del Vangelo.

Chiudo con l’augurio che questo quadro di valori serva a farci valutare la situazione e ci inquieti continuamente per la sua trasformazione».