COMUNITÀ E ANIMAZIONE
Scrive: «Chiedo: questo nuovo modello vi trova
disponibili? Oppure l’animazione della vigna che il Signore vi affida (casa,
parrocchia, scuola…) è in certo modo condizionata dalla preoccupazione del
fare, dal funzionamento concreto dell’opera, dall’immobilismo dell’ambiente,
dal crescente scoraggiamento?
Cerchiamo di fare qualcosa di nuovo con le persone
(ospiti, operatori, professionisti, genitori, fedeli…) che il Signore ci affida
o siamo semplici amministratori, senza nessun afflato spirituale-evangelico,
senza “mozione spirituale” direbbe sant’Ignazio di Loyola, poco sensibili a ciò
che sta nascendo nella Chiesa e nel mondo, e che esige da parte nostra
iniziativa e creatività?
Per aiutarvi a dare una risposta, mi permetto di
suggerirvi alcune considerazioni che possono metterci in cammino.
Animare è infondere un’anima evangelica
L’animazione, per essere tale, deve nascere dal desiderio
di servire il Vangelo e di fare delle nostre presenze una forte esperienza di
Chiesa. La vera animazione va avanti solo con questa mistica, con questa
disponibilità a giocarsi, altrimenti è un fare, fare anche molte cose, ma che
non danno qualità evangelica a ciò che si fa.
Animare è infondere anima: l’idea che anima sia una
figura decorativa dispensatrice di
benedizioni o di belle parole e basta, nelle nostre case sarebbe inaccettabile.
Le nostre case sono a pieno titolo oasi di fede e di carità, come voleva il
fondatore: “Devono essere luce del mondo con il loro buon criterio di sapienza
cristiana. Devono essere città poste in alto per vedere ovunque ed essere
vedute” (Massime di spirito e metodo d’azione, 51). In effetti la testimonianza
che la gente capisce e da cui si lascia coinvolgere è una fede viva e autentica
nutrita dalla parola di Dio, dai sacramenti e dalla coerenza della vita,
espressa nella carità.
Animare è “farsi servi”, perché l’animatore è uno che
crede in un progetto di liberazione dell’uomo, di cui si pone al servizio, è un
militante della causa del
l’uomo. Egli sa che la persona oggi rischia di essere
sopraffatta dalla trama intricata delle relazioni politiche, economiche,
culturali. Perciò egli si gioca nella scommessa che, attraverso l’animazione, è
possibile far crescere e sviluppare le forze che possono rigenerare l’uomo e la
società in cui vive e quindi agire, anche qui come indicava il fondatore, in
modo preventivo. In pratica l’animatore valorizza, moltiplica le risorse delle
persone, a partire dalla concretezza dei loro limiti e ricchezze, dalla loro
età ed esperienza dei loro compiti e loro sogni.
Animare è “mettersi in relazione con”
Del tutto inutile sarebbe la riflessione sul futuro della
comunità religiosa se pretendesse di essere la titolare di tutte le attività di
cui si compone la sua missione. Oggi la convivenza in qualsiasi realtà socio- religiosa è fatta
di molteplici settori, e questi sono costituiti da più soggetti. In casa nostra
per esempio vi è la comunità educativa locale a ricordarci che non si può più
essere battitori liberi, ma che occorre coinvolgere, prima di agire. Il
problema si fa urgente perché con noi sono coinvolti i laici, con i quali
collaborare non è più aleatorio, è necessario.
È dunque inevitabile che la comunità perda molto della sua
autonomia e si arricchisca di collaborazione, partecipazione, collegamenti,
coordinazione, scambio di energie e mezzi. E naturalmente viene di necessità
una figura di religioso capace di entrare in relazione, animatore che sappia
collegare insieme le parti e le persone, perché non perdano vigore nel loro
isolamento, ma convergano verso un progetto d’insieme a vantaggio dei
destinatari.
Nel concreto si tratta di far crescere in comunità uno
stile di accoglienza, di ascolto, di relazioni personali, di fiducia, di
impegno, di lavoro in vista di una comunione che renda reciprocamente
interattivi tutti coloro che vi operano. Il confratello solleciti più che può
la responsabilità e l’azione dei collaboratori. Oggi è in questa capacità di
coordinare e di coinvolgere che viene valutata l’idoneità del religioso
animatore. Tanto più se questo religioso è anche sacerdote. Qual è infatti il
compito specifico, proprio del sacerdote in una comunità tutta responsabile
della sua edificazione nella comunione e del servizio dell’uomo nel bisogno? Il
sacerdote, in tale soggetto educativo-pastorale, deve svolgere il suo compito
senza mortificare quello degli altri componenti, anzi valorizzandoli e
coordinandoli; e ciò perché cresca la comunione e l’incidenza della missione. Il
presbitero deve sempre ricordare che non può presumere di riunire in sé tutta
la ministerialità della Chiesa. Egli piuttosto è chiamato a esercitare il
carisma del discernimento, della promozione, dell’animazione,
dell’armonizzazione dei diversi doni dello Spirito. È aiutato quindi dalla
grazia dell’ordine sacro a superare la
figura dell’amministratore, del manager della comunità, per sostituirla con
quella del sacerdote donato alla causa del Vangelo.
Chiudo con l’augurio che questo quadro di valori serva a
farci valutare la situazione e ci inquieti continuamente per la sua
trasformazione».