AL CROCEVIA DEL TERZO MILLENNIO
LA NUOVA VITA COMUNITARIA
A 40 anni dal concilio è possibile cogliere le novità dello stile di vita
che è andato affermandosi. Esso poggia su tre colonne fondamentali: le
relazioni personali di “amicizia nel Signore” (koinonia, carisma, diaconia) in
vista della missione evangelizzatrice o servizio apostolico (kerigma) e la
vicinanza ai poveri.
La comunità è il volto interiore della vita religiosa.
Entrando in una di esse si percepisce subito il tipo di rapporti che esiste tra
i membri: se sono cordiali, di amicizia e fiducia, di spontaneità e gioia
oppure solo di rispetto, cortesia e circospezione. I giovani sono
particolarmente sensibili a questo. Molte case di formazione sono il luogo dove
si trova un ambiente sereno e accogliente e chi vi entra si sente “a casa”,
senza bisogno di protocolli né formalismi. E si trovano anche numerose le
comunità di religiosi/e adulti che sono già entrate nel nuovo stile e hanno
saputo conservare gli elementi essenziali e nello stesso tempo sono state
capaci di adattarsi alle esigenze del nostro tempo.
Facendo il paragone tra lo stile di vita comunitaria
precedente al concilio con quello nuovo che si cerca ovunque di promuovere si
nota un forte contrasto: da un tipo di comunità basato sull’osservanza regolare
si è passati a comunità centrate sui rapporti personali di amicizia nel
Signore, anche se i valori essenziali sono rimasti i medesimi.
Padre Carlos Palmés, parlando di questo problema, ossia
della nuova vita comunitaria, nel contesto di un discorso più ampio riguardante
la vita religiosa al crocevia del terzo millennio,1 ha cura di descrivere
dettagliatamente questi elementi essenziali, in se stessi irrinunciabili, al di
là dello scorrere dei tempi, per giungere poi a delineare il nuovo stile di
vita comunitaria che deve caratterizzare oggi la vita religiosa.
ELEMENTI
ESSENZIALI IRRINUNCIABILI
Gli elementi essenziali comuni che si trovano alla base
delle varie forme di comunità, riscontrabili a partire dal secolo IV fino ai
nostri giorni sono: l’amore a Cristo come centro e motivazione dello stare
insieme, il radicalismo, il distacco e l’amore fraterno.
Anzitutto la scelta di Cristo come centro e motivazione
della vita comune. I cenobiti furono affascinati dalla vita di Cristo e
sentirono il bisogno di giungere a una vita che assomigliasse il più possibile
alla sua. Volevano vivere l’obbedienza perfetta ai comandamenti di Dio e in
particolare il grande comandamento dell’amore a Dio e al prossimo… la preghiera
continua e l’incessante studio della parola di Dio, ciò che connota
profondamente la loro koinonia è il teocentrismo, il culto dell’assoluto di
Dio. La ricerca di Dio come l’”unico necessario”.
La comunità religiosa è un evento di fede; senza di essa
sarebbe una follia. Naturalmente oltre alla fede entrano in gioco anche altri
elementi umani come l’affinità dei caratteri e delle idee, i costumi e le
culture che cooperano a rendere più facile e gradevole la convivenza; ma,
osserva p. Palmés, non sono la motivazione definitiva. Ciò che sta più in
profondità è la vocazione a cui il Signore ci ha chiamato, fondata sulla
comunione di uno stesso ideale evangelico.
Per il resto il monaco non ha alcuna pretesa di essere
diverso dal resto dei cristiani. Desidera solo vivere più intensamente e in
maniera più continua e percepibile questa koinonia. È una comunione che viene
da Dio (cf. 2Cor 5,19), poiché è lui la fonte e la pietra angolare della comunione.
Il secondo aspetto è il radicalismo delle sequela,
anch’esso costante e irrinunciabile. Esso esige come presupposto il distacco da
tutto. L’evangelista Luca mette chiaramente in luce la stretta unione che
esiste tra l’adesione incondizionata alla persona di Cristo e il fatto di
“lasciare tutto”(Lc 5,11-28; 14,33) per farne dono ai poveri. È un radicalismo
che si esprime in modo evidente nel lasciare tutti i propri beni e nel mettere
tutto in comune.
Ora, la rinuncia alla proprietà privata per mettere tutto
in comune si è sempre conservata come un elemento insostituibile della vita
consacrata. Ciò evita le divisioni e i confronti tipici della società per
realizzare invece un modo di vivere evangelico in cui non c’è nessuno escluso,
dove tutti hanno i medesimi diritti e gli stessi doveri, in cui non ci sono né
ricchi né poveri.
Questo ideale sfocia poi nel terzo aspetto caratteristico
della vita religiosa che è l’amore fraterno, secondo il comandamento di Gesù:
“Amatevi gli uni gli altri”. Da una vita comune di fede e di donazione a Dio,
come unico assoluto, dal distacco da ogni cosa e da se stessi, scaturisce
spontaneamente l’amore al fratello. Il rapporto con l’altro stabilisce una
reciprocità affettiva. Siamo in presenza di una specie di miracolo morale che
mostra chiaramente il vero discepolo di Cristo. In un mondo di guerre, di
discordie, di odio, di divisioni, di materialismo, di postmodernismo e
neoliberalismo… basati su un grossolano egoismo, è una testimonianza
spettacolare trovare gruppi di uomini e di donne che, uscendo dai propri
interessi, vivono per gli altri e fanno esclamare a coloro che li conoscono
“vedete come si amano”.
Si tratta comunque di un distacco più difficile che non
quello dai beni materiali poiché tocca gli aspetti più profondi della persona:
i suoi criteri, gli atteggiamenti e i sentimenti… e suppone un amore più
limpido e profondo.
Tutti e tre questi elementi, sottolinea p. Palmés, sono
stati vissuti a partire dal momento in cui nacque il cenobitismo fino ai nostri
giorni. A soffrirne di più tuttavia è stato il terzo, quello dell’amore
fraterno, poiché la koinonia è molto influenzata dalle circostanze dei tempi,
dalla cultura, dal luogo, società e costumi, ecc. Stili di comunità che in
altri tempi erano espressione di amore fraterno, forse oggi non lo sono più. Ai
nostri giorni ci vogliono dei segni più chiari e autentici espressi in un
linguaggio comprensibile alla nostra società. Non basta infatti ripetere le
forme che erano in vigore in un altro tempo.
Sarebbe ora lungo e persino superfluo ripercorrere le
varie fasi della storia, a partire da Pacomio, Basilio, Agostino, Benedetto
attraverso gli ordini mendicanti, e successivamente i cambiamenti intervenuti
nel secolo XVI quando viene posto al centro non più l’osservanza regolare ma la
missione, fino alla prima metà del secolo scorso appena finito. Alla vigilia
del concilio Vaticano II quando il modello vigente in tutti gli istituti era
quello dell’uniformità. Nella società stava intanto avanzando una realtà nuova:
democrazia, mezzi di comunicazione sociale, neoliberalismo, postmodernismo,
rapporti umani più liberi e di vicinanza, movimenti popolari, affermazione dei
diritti umani, ecc. Contemporaneamente nella Chiesa, “popolo di Dio”, si è
andato affermando il valore della persona, si sono sviluppate nuove forme di
comunità, è cresciuto il desiderio di una maggior partecipazione, assieme ad
altri fenomeni come una liturgia più aperta, la coscienza attiva dei laici, la
perdita allarmante delle vocazioni religiose e la diminuzione di quelle nuove…
Tutti questi cambiamenti hanno sconcertato i religiosi/e
provocando una crisi di identità. Era necessario un cambiamento, che non poteva
essere solo di superficie e di abbellimento. Nasce e si afferma così un nuovo
stile di vita comunitaria. Furono compiute numerose esperienze, a volte anche
fuori strada o esagerate. La grande novità fu la comparsa di “piccole comunità”
che si diffusero un po’ dovunque, caratterizzate dallo spostamento dalla
centralità dell’osservanza alle relazioni personali come nuovo asse della vita
comunitaria.
TRE NUOVE
COLONNE
A distanza di 40 anni dal concilio è ora possibile
cogliere le novità dello stile di vita che è andato affermandosi. Si è tornati
a guardare alla comunità di Gerusalemme di cui parlano gli Atti e alla prima
intuizione espressa da san Basilio: «amarsi veramente gli uni gli altri». Ma
come realizzare oggi concretamente questo ideale?
Secondo padre Palmés, questo stile di vita comunitaria
poggia su tre colonne fondamentali: le relazioni personali di “amicizia nel
Signore” (koinonia, carisma, diaconia) in vista della missione evangelizzatrice
o servizio apostolico (kerigma) e la vicinanza ai poveri.
I primi due aspetti sono essenziali e non è lecito
rinunciare a uno per enfatizzare l’altro. Esaltare il primo e dimenticare il
secondo vorrebbe dire trasformare la comunità in una specie di “nido” dove si
sta bene al caldo, ma chiusi alla realtà del mondo. Accentuare il secondo,
dimenticando il primo, vuol dire trasformare la comunità in una “piazza” dove passa
chiunque e dove manca l’indispensabile privacy. Oppure significherebbe cadere
nell’”attivismo” e in una vita superficiale. La terza caratteristica si
realizza invece in grado diverso in base al luogo in cui si vive e il contatto
concreto con i poveri.
Delle tre caratteristiche la principale e più
rivoluzionaria è comunque la prima, da cui derivano serie conseguenze nella
configurazione della comunità. Anzitutto non è indifferente il numero dei
membri che deve essere limitato: al massimo 12/13, ma non è certo ideale che si
riduca a 2/3 individui, per di più pressati dalle urgenze apostoliche.
Altrettanto importante è la base umana di educazione,
maturazione affettiva, tolleranza, capacità di comunicazione… doti che sono
sempre state necessarie, ma oggi più che mai poiché i rapporti sono più vicini
e lo stato d’animo e il comportamento di ciascuno si riflette sugli altri.
Decisiva è poi la dimensione di fede se si vuole essere
realmente “amici nel Signore”. Certamente, osserva p. Palmés, possono essere di
aiuto anche l’affinità dei temperamenti, la coincidenza delle mentalità, ecc.,
ma la ragione dello stare insieme è il Signore: è lui che ci ha chiamato alla
stessa vocazione religiosa e apostolica ed è lui che dà significato e
consistenza alla nostra amicizia.
La spiritualità da vivere è quella dell’amore, per
giungere a essere una “famiglia di fratelli” dove ci sia «l’unione dei vostri
spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti» (Fil 2,1-2). Lo
sforzo principale perciò non consisterà nel mettere in pratica delle norme, ma
nel mantenersi attenti e disponibili a rendere felici gli altri, in modo che
caratteristica che maggiormente interpella sia il «come si amano».
I MEZZI
CONCRETI
Ciò che è stato detto fin qui, sottolinea p. Palmés,
corrisponde sostanzialmente a quello che è contenuto nelle costituzioni di
tutti gli istituti. Ma nelle dichiarazioni di principio siamo tutti bravi e
brillanti. Quello che invece distingue coloro che vivono un’autentica vita di
comunità da coloro che non la vivono sono i mezzi concreti impiegati per
tradurre gli ideali in realtà.
Tenuto presente che oggi l’essenziale sono le relazioni
personali, la strada da seguire deve svilupparsi su questo itinerario:
conoscersi gli uni gli altri, accettarsi vicendevolmente per giungere ad amarsi
come amici del Signore.
Conoscersi gli uni gli altri, non solo esteriormente per
il carattere, le qualità, i difetti e il successo apostolico, ma in profondità
e in modo personale. Per questo è necessario aprirsi, comunicare. «Credo, scrive
p. Palmés, che questo sia uno degli aspetti che maggiormente difettano in molte
comunità. Capita anche il caso deplorevole di individui che convivono anni e
anni, rimanendo estranei gli uni gli altri. E non conoscendosi rimangono
indifferenti l’un l’altro. Anche a questo proposito vale il detto che ci viene
dal medioevo: “non è possibile amare ciò che non si conosce”».
In secondo luogo, accettarsi. Accettare gli altri come
sono, non “come dovrebbero essere”. Tre sono i campi dove le differenze di
mentalità sono più tangibili ed esigono perciò in modo particolare l’esercizio
del dialogo: il rapporto tra conservatori e progressisti; tra giovani e anziani
e tra nativi e stranieri. Altre fonti di discordia possono essere la diversità
di carattere, origine, classe sociale, ferite affettive: «in tutto ciò la
chiave per risolverle è amare la persona perché è mia sorella, è mio fratello;
allora le differenze si traducono in una ricchezza e non in una barriera».
In terzo luogo, amarsi gli uni gli altri: bisogna giungere
a una vera amicizia in modo che ciascuno possa dire in tutta verità dell’altro
“è un mio amico”.
Concludendo le riflessione, p. Palmés attira l’attenzione
su due realtà che insidiano oggi la vita di comunità: la prima è il rischio di
essere un arcipelago di isole solitarie, nonostante che tutti si sforzino di
vivere l’ “osservanza regolare”. Ognuno però poi tende a vivere per conto suo:
In secondo luogo, l’ossessione per il lavoro. Senza dubbio il lavoro apostolico
deve occupare la maggior parte del tempo: la comunità è infatti in funzione
dell’apostolato e non viceversa. Ma capita che «l’azione apostolica assorba
tutto il tempo e le energie così che non si ha più voglia di starsene in
silenzio in cappella o di “perdere del tempo” in riunioni comunitarie o
conversazioni personali. Si è caduti nell’attivismo e in una vera
disintegrazione della vita». L’impressione che offrono queste comunità è quella
di una “équipe di impresari apostolici” o di “onorati professionisti” o di una
“pensione di pie signorine”. Forse da punto di vista professionale o
organizzativo sono persone eccellenti, ma come religiosi/e sono mediocri.
L’esperienza di Dio e la vita comunitaria sono passati in secondo piano.
Inviare dei giovani in questo genere di comunità vuol dire esporli a qualsiasi
genere di crisi.
Sono molte tuttavia, conclude p. Palmés, le comunità che
hanno intrapreso un cammino concreto e vivono una vita che riproduce l’ideale
della prima comunità di Gerusalemme e il sogno e l’intuizione dei fondatori dei
primi cenobi. Oggi, ciò che essi hanno vissuto, dobbiamo viverlo noi in modo
diverso, ma, come è avvenuto per loro, facendo sì che quanti ci vedono possano
esclamare in piena verità “guardate come si amano”.
A.D.
1 Di questo contesto delineato da p. Palmés abbiamo parlato
nel n. 5 di Testimoni, p. 7, nell’articolo intitolato La vita cosacrata nel
terzo millennio. Unire mistica e azione profetica.