LA VITA CONSACRATA OGGI
SPUNTI DI RINNOVAMENTO
Noi dobbiamo amare e accompagnare questa nostra storia e questa nostra
gente, credere in stagioni nuove, sostenere la perseveranza e la speranza. Anzi
leggere questi segni con occhio intuitivo e cuore fiducioso, dando una forma al
loro consolidarsi, senza farci bloccare dai fallimenti e dalle delusioni.
Più volte si è parlato in questi ultimi tempi, in
coincidenza con la nuova configurazione che il nostro continente europeo sta
assumendo, del ruolo che la vita consacrata è chiamata a esercitare. Qualche
accenno su questo argomento si trova anche nell’esortazione postsinodale
Ecclesia in Europa (28 giugno 2003) dove si parla appunto della “testimonianza
dei consacrati” (37-38), ma il testo non va oltre ad alcuni semplici vaghi
enunciati. Il discorso quindi va ripreso e approfondito.
Affrontando questo argomento, p. Bruno Secondin, in un
recente intervento, osserva che «di grandi e mirabili teorie la vita consacrata
non manca oggi: mancano piuttosto i percorsi reali e credibili di una nuova
prassi, in grado di garantire una ortoprassi feconda alle magnifiche
ortodossie. Per questo forse servono meno le grandi schematizzazioni, e giovano
piuttosto certi spunti biblici che aprono squarci imprevisti e significativi».
E lo spunto biblico da cui parte è l’episodio narrato
dagli Atti degli Apostoli al capitolo 16 dove è descritta la prima avventura
europea di Paolo, e trova qui la fonte per sviluppare alcune indicazioni circa
una significativa presenza della vita consacrata nel nuovo contesto europeo.
Si domanda: «cosa insegna l’episodio di Filippi?».
Un rischio e una incognita, osserva, erano per Paolo evidenti:
la cultura europea e latina erano a lui sconosciute. Ma quando si rende conto
che è la mano misteriosa di Dio che gli taglia le altre strade, accetta il
rischio e si mette in gioco con intelligenza. Indica per tutti noi che certe
situazioni difficili e rischiose possono farci paura, ma se sappiamo leggerle
come segni di chiara volontà di Dio, bisogna aderire e mettersi in gioco da
protagonisti, senza remore. Anche un sogno può essere un segnale, se siamo
disponibili e intuitivi.
La mancanza di sinagoga pubblica costringe Paolo e
compagni a escogitare soluzioni più fragili, in alternativa. E di fatto proprio
lungo il fiume incontrano delle donne riunite per onorare Dio di sabato. Fuori
dai segni sacri, in un ambiente povero e quasi generico, sanno mettersi in
gioco come annunciatori della parola del Signore. Seminano con disponibilità e
semplicità: e nasce la prima comunità cristiana.
Anche il Signore semina di sabato con loro: egli “apre il
cuore di Lidia per aderire alle parole di Paolo”. Non sono tanto le parole di
Paolo a far aderire alla fede, ma la grazia del Signore. L’affermazione non
solo segnala il buon esito, ma anche insegna che in ogni caso solo se il
Signore accompagna le nostre attività di annuncio e di dialogo, esse hanno
l’effetto giusto.
È coinvolta l’intera famiglia: ciò indica familiari e
parentela, servi e domestici. Segnala il radicarsi della comunità cristiana in
un contesto dalle basi familiari solide. Sono proprio queste “famiglie” locali
uno strumento fondamentale dell’ evangelizzazione e del rafforzamento della
comunità dei credenti nell’Europa di allora.
ALLA RICERCA
DI MOTIVAZIONI
Proviamo ad applicare, con un po’ d’ immaginazione e
qualche sapore di provocazione, scrive Bruno Secondin, questa storia alla
nostra stessa ricerca di motivazioni sostanziose e stimolanti. Sarà una
teologia narrativa, non puramente una lista di affermazioni teoriche, anche se
ci esprimeremo in modo sintetico e con qualche battuta pungente. Ma lo facciamo
per passione e amore per questa vocazione.
Non fare esercizi di sopravvivenza
Come succedeva per Paolo che voleva semplicemente
ritornare a visitare le comunità fondate nel primo giro missionario.
L’intenzione era buona, ma forse copriva la mancanza di coraggio e di nuova
iniziativa: e per questo lo Spirito intralciava la fuga per la tangente. Come
anche sembra intralciare tante nostre iniziative di apostolato e di animazione
vocazionale: ci mettiamo tutte le forze, ma vediamo che i risultati sono
scarsi, che finiamo sempre in sabbie mobili.
Ammodernare giudiziosamente le case, studiare il carisma
fin nei minimi dettagli, elaborare testi di programmazione sempre più
distillati, entrare nel web per diffondere il nostro marchio, rincorrere
beatificazioni con sforzi immani (anche economici), riciclare ad ogni costo con
stages culturali anche le zucche di chi ha voglia solo di defilarsi e star
tranquillo, ecc. Sono tutti segnali di un girovagare per una strada che porta
fuori, che va a chiudersi in una specie di cul de sac, senza uscita.
Il carisma una risorsa da non sprecare
Il carisma appartiene alla ragione simbolica, parabolica
e carismatica, e la sua routinizzazione strumentale e funzionale è sicura via
di sterilità e di confusione. Bisogna reinventare queste qualità preziose –
simbolica, parabolica, carismatica – radicando nella fede il senso della nostra
vita. Qui è il nucleo del problema: lo smottamento della fede come ragione
vitale e fuoco divorante, per farla diventare quasi pura affermazione
dottrinale o consumo rapido e bulimico di gesti sacri confezionati e
standardizzati.
Abbiamo smarrito l’intelligenza del cuore, il soffio
vitale che è quell’appello amoroso che ci aveva fatto partire: la nostra
vocazione deve ritrovare la bellezza interiore di una vocazione ecclesiale che
non si rigira su se stessa ossessivamente. Ci mancano cuori pensanti e cuori
amanti che sappiano superare la tentazione dell’hybris esibita spudoratamente:
le attività frenetiche, gli slogan taumaturgici per incidere in una società dai
messaggi ingorgati e fosforescenti, il presenzialismo fine a se stesso e non
orientato ai valori centrali del Vangelo e della chiesa.
Ritrovare la funzione simbolica, critica, trasformatrice
Così aveva definito la funzione della vita consacrata l’
Instrumentum laboris (n. 9) del sinodo del 1994. Non possiamo limitarci a
pizzicare là dove le sporgenze di fragilità rendono ricattabile la nostra
società e la cultura, specie quella giovanile. Ma dobbiamo immergerci con tutte
le risorse nella navigazione incerta e agitata verso altre rive. Le derive
contemporanee abbondano, non è lasciandoci anche noi portare alla deriva che
facciamo compagnia e comunione con i naufraghi.
Dobbiamo saper passare dalla frammentarietà alla
convergenza, dalla preoccupazione per la nostra organizzazione alla re-invenzione
di una contestazione evangelica che sembra smarrita e diluita; dalla golosità
diffusa e trend per ogni brillio di esperienza sopra il normale e luccicante,
alla luminosità di una vita trasformata e trasfigurata da una presenza
misteriosa ma personale e non vaga. Se la nostra stessa vita non è icona ed
esegesi di una trasformazione liberatrice e guaritrice, se noi stessi siamo
schiavi delle idolatrie del pantheon postmoderno, come potremo proporci agli
altri per un progetto di vita che non risponde al bisogno così marcato di
trasparenza e di luminosità?
Ritrovare l’intelligenza del cuore
Il testo degli Atti dice che è stato il Signore ad aprire
il cuore a Lidia per aderire alle parole di Paolo La fede non è un fai-da-te da
acquistare al supermarket del politeismo contemporaneo: è un rischio e una
avventura, una notte stellata e un travaglio doloroso, è logos e pathos,
conoscenza logica e conoscenza simbolica in armonia. “Con ogni cura vigila sul
tuo cuore, perché da esso sgorga la vita” (Pr 4,23). Questo vuol dire dare il
primato alla persona e non alla struttura, suscitare passione e avventura e non
sottomissione e dipendenza, liberare la fedeltà creativa e non imbalsamare gli
ardori in sofisticati congegni spersonalizzanti, come sono tante volte le
cariche e le responsabilità negli istituti.
Senza una fede pensante e amante, audace e paziente,
intuitiva e non intimorita della vulnerabilità, nulla ha senso nella nostra
vita. Io ho l’impressione che proprio il debilitamento della nostra fede –
opacizzata dalle frustrazioni e dalle delusioni in molti campi, quello della
chiesa e delle sue priorità compreso – sia un grave problema oggi. Diciamo di
avere fede, proclamiamo la fede, ma non la si vede voi operativa nell’audacia e
nella semplicità dei mezzi e dei risultati, nella parresia di andare contro
corrente, nella disponibilità a vivere anche le vertigini di relazioni che
esigono maturità ma anche rischio, libertà ma anche passione, bende per le
ferite ma anche profumi odorosi.
Potenziare il tasso di profezia della nostra missione
Come sappiamo, la profezia nasce dall’ascolto orante e
disponibile della Parola, ma anche dal confronto fra la Parola e le sfide e le
angosce dei contemporanei (VC 94). Far dialogare questi due ambiti, in modo da
assumere davvero i sentimenti di Cristo nel senso più intimo e conformativo; ma
anche imparare “l’arte di cercare i segni di Dio nella realtà del mondo” (VC
68). Oggi profezia può avere molti percorsi pratici, al di là dei variegati
discorsi teorici.
È profezia credere che da qualche parte ci sono segni di
incontro e di fede, anche se all’apparenza non se ne vedono, come succedeva per
Paolo a Filippi. È profezia intuire i cuori assetati di verità e di novità
anche se non sono i nostri normali interlocutori, anche se parliamo sedendoci a
cerchio e non ex cathedra. È profezia e intuizione da sviluppare una nuova
vicinanza con i laici non in maniera accomodatizia, ma investendo sulla loro
fede matura, la loro capacità di fare “convocazione”, di rivitalizzare valori e
stili di vita che noi abbiamo devitalizzato dentro un sistema sacro. Tante
volte manchiamo di questa “presa a terra” nei nostri sistemi e progetti:
tiriamo i fili di una elettricità ad alto voltaggio, ma puramente aerea: poi
scendendo al pratico facciamo corto circuito, s’inceppa tutto. Black out!
Lasciarci costringere a cambiare schema
Siamo ancora troppo paurosi di lasciare la via nota e
sacralizzata per nuove forme di convivenza e di servizio, di linguaggi e di
orizzonti. Eppure proprio in VC noi troviamo nel terzo capitolo una dozzina di
paragrafi dedicati al tema a “una testimonianza profetica di fronte alle grandi
sfide” (84-95). In essi appaiono con sorpresa, non del tutto ancora esplicitata
dai commentari, i temi classici della vita consacrata: i voti, la vita
comunitaria, la preghiera, la meditazione della Parola. E sono preceduti da
quattro paragrafi ancor più provocatori: due dedicati alla dimensione
profetica, uno al martirio e uno al significato antropologico e terapeutico
della vita consacrata. Il papa completa in questa parte una (forse) eccessiva
concentrazione teologale della prima parte: indicando come anche settori così
classicamente intimistici e spirituali, devono invece avere una stretta
correlazione con la storia e le sue sfide, con le idolatrie e le angustie dei
contemporanei.
Finché non riusciamo a dare forma vera e sistematica a
queste suggestioni, i nostri grandi valori di vita e di identità resteranno
sopratemporali, vaghi ideali, oppure ossessiva e nevrotica miniaturizzazione
dell’anima. Non possiamo essere i bonsai del Vangelo; non possiamo
semplicemente fare i venditori di pane già confezionato. Dobbiamo essere il
lievito che davvero fermenta la pasta e rende il pane “sollevato”. Ma per
riuscirci bisogna cambiare schema di priorità e di prospettive: quello che in
fondo vuole imprimere nella nostra mente e nelle nostre prassi il documento di
base del prossimo congresso sulla vita consacrata (2004).
Leggere e organizzare i segni di speranza
L’avventura europea di Paolo era cominciata bene ma
presto è finita male, tanto che lui stesso qualche tempo dopo la ricorderà come
un «aver sofferto e subito oltraggi a Filippi» (1Tes 2,1). Eppure non si è
scoraggiato, ha proseguito verso altre città ancor più difficili sul piano
religioso e culturale, fino ad arrivare all’areopago di Atene, dove pure non
ebbe gran fortuna. Ma di Filippi Paolo conserverà, come ho detto, una grande
nostalgia e verso quella fragile comunità rivolgerà spesso consigli e
preoccupazioni. Egli non ha identificato il fallimento iniziale con tutto ciò
che poteva essere Filippi. Ha creduto in altre risorse, ha incoraggiato altre
stagioni meno dolorose: ha dato consigli ma anche ha donato col suo affetto un
segno altissimo della fede comune: l’inno cristologico.
Noi dobbiamo amare e accompagnare questa nostra storia e
questa nostra gente, credere in stagioni nuove, sostenere la perseveranza e la
speranza. Anzi leggere questi segni con occhio intuitivo e cuore fiducioso (NMI
58), dando una forma al loro consolidarsi, senza farci bloccare dai fallimenti
e dalle delusioni. La vita religiosa sembra troppo ripiegata su se stessa,
sulle sue ferite e scottature, e avere perso la fantasia e l’immaginazione.
Proprio ora che le nuove situazioni sociali alla deriva globale avrebbero bisogno
di interpreti intelligenti e di compagni affidabili nel passare il guado così
turbolento. Di solito non ci muoviamo se non con i piedi di piombo, se non là
dove tocchiamo il fondo, guardinghi e pavidi. Lo statuto della profezia e della
sapienza che alimentava la vita nostra sembra svanito: non ci sarà alcuna
grande storia (cf. VC 110) se continuiamo a nasconderci nei nostri cespugli.
Dobbiamo abitare gli orizzonti, senza pretendere di
muoverci solo quando avremo in mano una topografia dettagliata e garantita. Non
hanno preteso questo i nostri fondatori: hanno vissuto la libertà con slancio,
la immaginazione istituzionale fuori dagli schemi, la passione per l’umanità
con immediatezza e quasi istintività.
Quella istintività che VC chiama una sorta di istinto
soprannaturale (VC 94): frutto di una adesione di fede al Signore con cuore
docile e orante, ma anche con la passione del Signore stesso per nuovi cieli e
nuova terra. Bisogna saper assecondare quella “novità assoluta” che Dio stesso
offre e impone con la sua presenza, come canta l’Apocalisse letta nelle
domeniche del tempo pasquale.
B. S.