DARFUR TRAGEDIA INIMMAGINABILE
«Si tratta della più drammatica corsa contro il tempo che
ci sia attualmente nel mondo. Se la perdiamo, centinaia di migliaia di persone,
in gran parte donne e bambini, periranno». A lanciare l’allarme è Jan Egeland,
sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’ONU, e assieme a lei
anche Clemens von Heimendahl, responsabile della Croce Rossa tedesca il quale
aggiunge: «Siamo in presenza di una tragedia inimmaginabile. I villaggi sono distrutti
e incendiati, la gente uccisa come in un mattatoio, gli ospedali rasi al suolo
e le infrastrutture in gran parte distrutte».
Non si sta parlando dell’Iraq, il cui dramma è sotto gli
occhi del mondo intero, ma del Darfur (508.684 kmq e con una popolazione
stimata tra i 4 e i 5 milioni di abitanti), territorio sudanese, sconosciuto
alla grande maggioranza, situato a circa 800 chilometri a ovest di Khartoum, ai
confini con il Ciad, dove dal febbraio 2003 è in atto una ribellione contro il
governo centrale.
Ad attizzare la ribellione sono due fazioni: l’esercito
di liberazione sudanese (SLA) e il movimento per la giustizia e l’uguaglianza
(JEM) che rimproverano al governo di Khartoum di disinteressarsi economicamente
della loro regione. Il conflitto ha già provocato 30.000 morti di cui 10.000
negli ultimi sedici mesi, 800.000 sfollati, mentre circa due milioni di persone
sono minacciate dalla carestia. Tutto ciò nonostante gli accordi firmati lo
scorso 8 aprile per un cessate il fuoco.
Il 26 maggio scorso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha
adottato una dichiarazione in cui «esprime la sua grave preoccupazione per il
deterioramento della situazione umanitaria e i diritti umani nella regione
sudanese del Darfur», e condanna gli attacchi contro i civili, le violenze
sessuali, gli sfollamenti forzati e ha stigmatizzato «gli atti di violenza alla
cui base c’è un carattere etnico».
In quindici mesi, scrive il quotidiano francese la Croix
(2 giugno 2004), almeno un milione di persone originarie del Darfur hanno
abbandonato i loro villaggi, non solo per fuggire dalle zone di guerra, ma
soprattutto per cercare di sottrarsi alle estorsioni degli “uomini a cavallo”,
i cosiddetti Jenjaweed, che sono sostenuti dal governo di Khartoum. Questi
sgherri bruciano, saccheggiano sistematicamente i villaggi, violano le donne,
portano via i fanciulli attuando una politica di terrore e di terra bruciata,
costringendo la gente a una fuga
sconvolgente. La maggior parte di coloro che sono riusciti a fuggire sono
partiti senza niente, senza viveri, vestiti, coperte né utensili da cucina. La
grande maggioranza è costituita da donne, bambini e anziani.
Gli uomini invece vengono uccisi mentre tentano di
coprire la fuga delle loro famiglie oppure sono tentati di raggiungere i due movimenti
della ribellione.
In base alle stime dell’ONU, attualmente il numero delle
persone che mancano di tutto sono due milioni. Secondo l’Alto Commissariato
dell’ONU per i rifugiati, da cento a duecento mila sono fuggiti nel Ciad,
75.000 dei quali raccolti in sette campi profughi.
La gente, spiega Mercedes Tatay, responsabile aggiunta
delle urgenze dei “Medici senza frontiere”, vive in uno stato di debolezza che
si aggrava di giorno in giorno.
Il tasso di denutrizione aumenta pericolosamente.
Un quarto dei bambini al di sotto dei cinque anni sono
malnutriti. Con l’arrivo delle piogge la gente va a bere agli uadi (letti
fluviali dove l’acqua scorre solo in occasione delle piogge), provocando
diarree mentre nel frattempo ha fatto la sua comparsa anche il paludismo.
Afferma Mercedes Tatay: «È lo scenario più terribile che io abbia mai visto».
Gli aiuti umanitari stentano ad arrivare. Perché tanto
ritardo? La ragione è semplice: Khartoum ha per lungo tempo frenato la consegna
dei visti e dei permessi di viaggio all’interno del paese. Inoltre la gestione
dei campi degli sfollati – persone che fuggono ma che restano all’interno dei
confini – dal punto di vista amministrativo è più complessa di quella dei campi
profughi affidati all’Alto commissariato dell’ONU. Per gli sfollati è
l’autorità del paese che deve occuparsi delle popolazioni civili, o decidere di
delegare a delle grandi organizzazioni dell’ONU o alle Ong la gestione dei
campi.
Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati alla
frontiera con il Ciad, almeno 125.000 sono senza assistenza. La maggior parte
dei campi affidati all’Alto commissariato dell’ONU sono sovraffollati e decine
di migliaia di altri rifugiati si insediano nelle vicinanze nella speranza di
essere registrati e di ricevere i kits necessari per l’installazione e la
razione di nutrimento. Ma la mancanza di acqua e di viveri si fa sentire.
Inoltre, con l’arrivo delle piogge, alcuni campi, come Goz Amer o Esterna non
saranno più raggiungibili. Solo gli elicotteri o gli aerei potranno assicurare
i rifornimenti.
L’accordo del cessate il fuoco, firmato l’8 aprile
scorso, rimane molto fragile e precario. Il conflitto in questa regione sta già
attirando gruppi di ribelli provenienti dal sud. Nel frattempo, a est presso la
frontiera con l’Eritrea si sta accendendo un’altra rivolta dei ribelli Beja che
anch’essi rimproverano a Khartoum di non sostenere economicamente la loro
regione.
Osservatori internazionale intanto sono stati inviati nel
Darfur per verificare da vicino la situazione e cercare possibili vie di
uscita. È un piccolo segno di speranza che si accende anche se tutto rimane per
ora nell’incerto.
Un altro segno di speranza è legato alle sorti delle
regioni meridionali del Sudan dove dal 1983 infuria ininterrottamente una
guerra con il governo centrale dal 1983 che ha provocato un milione e mezzo di
vittime e più di quattro milioni di sfollati.
Il 26 maggio scorso infatti sono stati firmati tre
protocolli di accordo tra il governo centrale e il movimento armato popolare di
liberazione del Sudan (SPLA), riguardanti la divisione dei poteri e il
controllo delle tre regioni disputate al centro del paese: quella dei monti
Nuba, del Nilo blu occidentale e dell’Abyei, ricca di petrolio.
Il compromesso raggiunto prevede il passaggio del 55% di
questi territori alle autorità di Khartoum e il 45% ai ribelli del sud. Da
parte sua l’SPLA ottiene la garanzia che la legge islamica, in vigore nel nord
musulmano non si applicherà ai non musulmani. Gli aspetti tecnici del cessate
il fuoco dovrebbero essere perfezionati entro la fine di giugno e l’inizio di
luglio. Si sa tuttavia per lunga esperienza che gli accordi che vengono firmati
in queste regioni del mondo, come anche nella zona dei Grandi Laghi, sono molto
precari e tutto potrebbe ben presto tornare come prima.