URBANESIMO ED EVANGELIZZAZIONE

LE CITTÀ LUOGO DELLA MISSIONE

 

È finita l’epoca della missione nella brousse. Il futuro della missio ad gentes è nelle città, in particolare nelle megalopoli del sud del mondo. Per questo tipo di missione occorrono metodi e persone nuovi, ma la Chiesa rischia di essereancora una volta in ritardo.

 

Nel 2007, secondo l’ultimo rapporto redatto dall’ONU sullo stato della popolazione mondiale, un abitante su due vivrà in una megalopoli, vale a dire il 50% degli abitanti del pianeta. Si parla di città, soprattutto nell’emisfero sud, che arriveranno fino a 20 milioni di abitanti e oltre, come Bombay (22,6), New Delhi (20,9), Città del Messico (20,6) San Paolo (20). L’esempio più eclatante è quello di Tokyo che raggiungerà i 37 milioni.

La notizia può sembrare una delle tante proiezioni futurologiche del nostro tempo fatto di statistiche e di inchieste, rese facili dall’informatica oggi imperante nella nostra cultura. Ma per gli operatori della missione questa notizia dovrebbe suonare come un segno dei tempi e, più ancora, come un campanello d’allarme che attira l’attenzione e fa riflettere.

Il fenomeno dell’urbanesimo non è certamente nuovo. È il logico risultato della civiltà industriale che ha modificato profondamente le abitudini della gente in quest’ultimo secolo della nostra storia. Ma per la pastorale queste nuove concentrazioni urbane sono evidentemente una novità carica di incognite e di problemi sia sul piano sociale che religioso. La gente vi vive sradicata dalla propria cultura e dal proprio gruppo, spesso in quartieri dove prosperano la promiscuità, la malavita, l’ingovernabilità, i gruppi fondamentalisti e ogni altro genere di propaganda.

Lavorare oggi in città, ovunque, è diventato più difficile. Se poi si pensa a essere pastori in uno degli agglomerati urbani del sud del mondo dove si concentrano tutti i problemi dello sviluppo e del sottosviluppo dell’intero paese, non è difficile immaginarne la complessità e l’urgenza nello stesso tempo del lavoro da compiere; un lavoro non impossibile, ma certamente molto esigente e cruciale anche e soprattutto nelle terre una volta dette di missione. Lo diceva già una quindicina d’anni fa Giovanni Paolo II in Redemptoris missio (37b): «Oggi l’immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la “scelta degli ultimi” deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire. un’umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città».

In Africa, in Asia e in America latina il problema dell’urbanesimo e della concentrazione della popolazione nelle città sta diventando una sfida pastorale inevitabile che richiede di essere urgentemente presa in considerazione con nuovi metodi e soprattutto con persone nuove. Quando si visitano città come Sâo Paulo del Brasile, Città del Messico, Lagos, Nairobi, Giacarta, Manila, Hong Kong non si può sfuggire all’impatto con la loro cruda realtà. Sono città che riproducono l’immagine stessa del mondo della globalizzazione: un centro luminoso, slanciato, tecnologicamente all’avanguardia, pulito e accogliente, simboleggiato da uno skyline di grattacieli, degno delle metropoli americane, ma poi, andando dal centro verso la periferia, si nota un progressivo degrado sociale e logistico che costringe ad aprire gli occhi su una realtà di disoccupazione, affollamento, povertà, insalubrità e assenza di governo, che è esattamente e simmetricamente il contrario di quello che si vede al centro. I quartieri periferici, in continua inarrestabile espansione, accolgono una folla anonima, indistinta, abbandonata a se stessa, che fornisce la manodopera alla città, ma che ne assorbe anche tutte le tensioni e le contraddizioni.

 

È FINITA UN’EPOCA

DELLA MISSIONE

 

La gente delle periferie è necessaria e funzionale alla crescita industriale ed economica della città, ma vive nella città in modo sradicato. Essa sente acutamente, più acutamente degli altri, il disagio della vita urbana e il contrasto con la zona di provenienza. Un contrasto lacerante: là viveva ancora al ritmo delle stagioni e, pur nella povertà, conservava ancora la sua dignità, custodiva e coltivava i valori culturali, umani e cristiani che poteva ancora insegnare e trasmettere alle nuove generazioni. Così è stato per molto tempo ed è ancora in tante parti del mondo legato alla missione ad gentes. Soprattutto così è stato e continua ad essere nella testa di tanti missionari i quali, non me ne vogliano, perché missionario sono anch’io, vanno in missione per ritrovare, inconsciamente, quel mondo che non trovano più nelle loro terre. Si dice che i missionari in Africa soffrono del mal d’Africa. È vero: è difficile che i missionari si riaccasino in Europa dopo aver speso qualche anno in Africa. Si sa quanto essi insistono per rientrare in missione, perché – dicono – non riescono più ad adattarsi alla realtà di casa loro. Questo a ben vedere, e salvo sempre qualche eccezione, avviene perché non riescono ad accettare la nuova situazione della pastorale delle loro zone d’origine. Si sentono, se non proprio stranieri in casa propria, quanto meno estranei alla nuova situazione.

Oggi nella nuova situazione urbana tutto è messo in discussione e quindi in crisi, e tutto sembra cambiato: la gioventù è affascinata e sedotta dalle luci della città e dagli specchietti della cultura della globalizzazione che vede imperante al centro delle città. La saggezza degli anziani non riesce a farsi ascoltare. Un vuoto si crea nelle nuove generazioni riempito da valori che vengono da fuori, superficiali ed effimeri: sono i nuovi idoli della città che per i giovani funzionano da droga alienante e da diversivo pericoloso che sbocca quasi sempre nella violenza.

È ben comprensibile che il missionario, abituato a una pastorale rurale, trovi difficile lavorare nell’ambiente urbano. Tra i missionari se ne trovano pochi che accettano di lavorare in città, mentre sono pronti per le zone interne del paese. Poco importa se all’interno non c’è né la televisione né altre comodità ormai consuete, se il telefono non ha campo per ricevere le comunicazioni. «Si sta così bene in brousse» – dicono i missionari classici.

Questo genere classico di missione non solo è destinato a finire, ma già adesso non ha più futuro, perché non ha più una grande incidenza nella coscienza della gente. La città, pur lontana e poco amata, sta corrodendo la cultura rurale, la gioventù non resta facilmente all’interno, cerca la città dove, se non trova lavoro, trova tuttavia quella libertà che ha sbirciato e sognato guardando la televisione nel bar o nella casa di qualche fortunato compaesano. Le scuole superiori sono in città, le università e gli ospedali pure: come è possibile costruire il futuro nella brousse? È vero che la cultura originaria non viene cancellata dalla coscienza della gente: per certi avvenimenti i cittadini, sia i politici che gli intellettuali, ritorneranno sempre al villaggio! Ma ormai la generazione presente e certamente la prossima è rivolta alla città.

 

LA CHIESA RISCHIA

DI ESSERE IN RITARDO

 

Tutto questo insieme di attrazione e di paura, proprio delle città del terzo mondo, domanderebbe una riflessione e un impegno della Chiesa, la quale tuttavia, per un’innata lentezza, che quasi ovunque la caratterizza, non ha saputo né prevedere questi problemi né sembra capace di affrontarli efficacemente. Se li trova davanti senza essere in grado di elaborare un progetto globale e preciso d’intervento pastorale. Non è suo compito trattenere la gente nella brousse e, anche lo volesse, non saprebbe come fare. Ma sarebbe suo compito prevedere qualche luogo di preghiera e di riunione per la comunità cristiane e acquistarlo a tempo. È raro invece incontrare un vescovo africano che si preoccupi di sapere dove va lo sviluppo della città e anticipi la tendenza urbanistica acquistando il terreno per il futuro centro pastorale, se non proprio per una parrocchia. Così quando la Chiesa arriva, trova che tutto è nelle mani di speculatori che hanno approfittato della situazione o che hanno chiesto o imposto una lottizzazione selvaggia del terreno, senza prevederne alcuno per una cappella o per un centro pastorale, per una scuola o un dispensario. Ma anche gli istituti missionari e religiosi non hanno finora dato prova di grande coraggio e creatività in questo campo. Ci sono stati dei momenti in cui si è parlato molto di inserimento negli ambienti popolari, ma sembra ormai un discorso molto lontano nel tempo, cancellato dalla polemica sulla teologia della liberazione.

NON BASTANO QUA E LÀ

PRESENZE PROFETICHE

In queste condizioni ci sono state, e ci sono anche oggi, delle presenze profetiche di religiosi e missionari nella linea dell’opzione preferenziale per i poveri. Ma sono scelte troppo personali per offrire cammini di pastorale urbana per tutti. Stabilirsi in questo modo in queste periferie è certo un modo di presenza molto evangelico, che s’avvicina all’eroismo, ammirato da tutti (o quasi…), ma che non risolve i problemi di una pastorale adatta a questa nuova situazione. Perché non si dovrebbe riflettere insieme a livello di istituto religioso e a livello di consiglio presbiterale, o meglio pastorale, per individuare dei cammini elementari e condivisi per l’evangelizzazione della città?

La prospettiva di un’ulteriore dilatarsi degli agglomerati urbani del sud del mondo dovrebbe farci sentire l’urgenza di elaborare una nuova strategia pastorale. L’improvvisazione e gli espedienti suggeriti dalla situazione contingente non sono sempre espressione di fede e di fiducia nella Provvidenza. Non si può rischiare di rimanere assenti da questa nuova realtà.

Bisogna quindi prevedere non solo dei luoghi di preghiera e di raduno per la comunità cristiana, ma soprattutto nuovi metodi per accostare la gente che arriva in città come in un deserto e non viene subito e sempre a presentarsi alla comunità cristiana. Bisogna pensare nuovi ministeri non ordinati adatti alla nuova situazione, delle équipes pastorali duttili e sciolte per entrare in queste nuove situazioni senza troppi intralci canonici o istituzionali (confini di parrocchie e gelosie di competenza pastorale)!

Tutto questo dovrebbe essere oggetto della programmazione pastorale delle diocesi oggi. Purtroppo non è così. Troppo spesso gli argomenti affrontati nei consigli presbiterali di troppe giovani chiese del terzo mondo ruotano attorno ai soliti problemi del narcisismo clericale: il sostentamento del clero, lo stipendio delle messe, i mezzi di trasporto, le strutture logistiche per il clero e, quando riescono ad andare un po’ più in là, arrivano a fissare l’età in cui dare i sacramenti ai fanciulli o a determinare il modo di rifiutare i sacramenti… C’è da morire di asfissia!

 

UNA NUOVA MENTALITÀ

E UNA PASTORALE NUOVA

 

Assumere una nuova mentalità adatta alla pastorale dei centri urbani non sarà un lavoro facile. Probabilmente una generazione deve scomparire, quella che ha praticato la missione “tradizionale”. Molti operatori pastorali che hanno sempre lavorato nel contesto rurale delle diocesi oppure anche nelle città, ma con una pastorale centrata sulle parrocchie, una pastorale cioè di conservazione, faranno molta fatica a riadattarsi a una nuova pastorale urbana, ad avere delle comunità elastiche, che nascono e si trasformano nell’arco di una generazione. Chi è abituato alla parrocchia europea, anche urbana, ma gestita alla maniera antica, sarà bene che non s’imbarchi in questa nuova pastorale; farebbe una fatica cane, senza riuscire a trovare la formula adatta.

Bisogna creare una nuova mentalità, che nuova in realtà non sarebbe, perché è quella del Vangelo, del pastore che va alla ricerca delle sue pecore, che non le attende all’ovile, ma che non ha con sé, come nella parabola di Luca, le novantanove, ma una sola pecora, mentre le altre sono disperse (non necessariamente perdute!) nelle Cohabi di una città come Sâo Paulo o nelle città satelliti di Manila o nelle interminabili e sconosciute periferie di Lagos o di Nairobi!

La nuova pastorale sarà quella della ricerca e dell’accoglienza, sarà quella dell’invio di laici impegnati e appositamente preparati per accogliere e raccogliere questi nuovi membri della comunità cristiana; sarà una pastorale che risponde ai tempi reali della gente che lavora in città e che rientra solo per mangiare e riposare. Bisognerà praticare spesso una pastorale traversale e quindi d’insieme per rispondere alle nuove categorie della popolazione secondo i loro interessi e le loro condizioni. Insomma è tempo di fantasia pastorale non di ripetizione di sistemi d’altri tempi e d’altri luoghi.

 

Siamo certo di fronte a una sfida inedita per la missione e per i suoi operatori. Sapremo raccoglierla? In questi ultimi tempi la missione ha messo l’accento, giustamente e opportunamente, sull’opzione preferenziale per i poveri, sull’impegno per la giustizia e la pace e sull’inculturazione. Era necessario e continua a esserlo. Non si tratta di chiudere questi capitoli come fossero “missione compiuta”. Oggi tuttavia la previsione dell’ONU circa l’urbanizzazione nelle zone del sud è un invito alla Chiesa e agli istituti religiosi e missionari a prendere in considerazione questo nuovo campo, questo areopago dove annunciare Cristo con metodi nuovi, con contenuti appropriati e soprattutto con personale rinnovato. Questa è la nuova evangelizzazione. Riusciremo finalmente a mettere in campo qualche cosa di appropriato?

 

Gabriele Ferrari s.x.